Il figlio del Gattopardo

Nel I capitolo del “Gattopardo”, al termine della giornata, viene descritta la cena a Villa Salina, che «era servita con il fasto sbrecciato che allora era lo stile del Regno delle Due Sicilie» (p. 29; cito dalla storica edizione Feltrinelli del 1962).

A tavola siedono ben quattordici commensali («fra padroni di casa, figli, governanti e precettori»); quando il Principe di Salina entra nella sala da pranzo, «tutti erano già riuniti, la Principessa soltanto seduta, gli altri in piedi dietro alle loro sedie» (p. 30). Sedutosi a tavola, il Principe scodella la minestra da un’enorme zuppiera «col coperchio sormontato dal Gattopardo danzante», non senza un momento di irritazione per il ritardo con cui il figlio sedicenne Francesco Paolo si presenta a tavola.

Subito dopo inizia la cena, in silenzio; e durante il pasto «gli occhi azzurri del Principe, un po’ ristretti fra le palpebre semichiuse, fissavano i figli uno per uno e li ammutolivano di paura» (p. 30).

In realtà, dietro il fiero cipiglio, don Fabrizio cela un sottile compiacimento per la sua famiglia: «“Bella famiglia” pensava. Le femmine grassocce, fiorenti di salute, con le loro fossette maliziose e, fra la fronte e il naso, quel tale cipiglio, quel marchio atavico dei Salina. I maschi sottili ma forti, con sul volto la malinconia di moda, maneggiavano le posate con sorvegliata violenza» (p. 30).

Tuttavia qualcuno manca all’appello: «Uno di essi mancava da due anni, quel Giovanni, il secondogenito, il più amato, il più scontroso. Un bel giorno era scomparso da casa e di lui non si erano avute notizie per due mesi. Finché non giunse una rispettosa e fredda lettera da Londra nella quale si chiedeva scusa per le ansie causate, si rassicurava sulla propria salute e si affermava, stranamente, di preferire la modesta vita di commesso in una ditta di carboni anziché l’esistenza “troppo curata” (leggi: incatenata) fra gli agi palermitani. Il ricordo, l’ansietà per il giovinetto errante nella nebbia fumosa di quella città eretica, pizzicarono malvagiamente il cuore del Principe che soffrì molto. S’incupì ancora di più» (p. 31).

Giovanni, il figlio più amato, che non è neanche il primogenito, è la spina nel cuore del Principe. Questo ragazzo è fuggito di casa, ha rinnegato le sue origini nobiliari ed è scomparso, salvo a comunicare, con la sua “rispettosa e fredda lettera da Londra” la sua sconvolgente scelta di una vita modesta ma libera.

Don Fabrizio, nello stesso capitolo I, al termine di un incontro con la sua amante Mariannina, ha modo di ricordare a Padre Pirrone di aver messo al mondo sette figli: «Sono un uomo vigoroso ancora; e come fo ad accontentarmi di una donna che, a letto, si fa il segno della croce prima di ogni abbraccio e che, dopo, nei momenti di maggiore emozione non sa dire che: “Gesummaria!”. Quando ci siamo sposati tutto ciò mi esaltava; ma adesso… sette figli ho avuto con lei, sette; e non ho mai visto il suo ombelico. È giusto questo?” Gridava quasi, eccitato dalla sua eccentrica angoscia» (p. 38).

Sette figli, dunque: ma chi sono?

Dei due maschi rimasti a casa (si chiamano – con poca fantasia – Paolo e Francesco Paolo) viene fatta sempre fugace menzione e si ha sempre l’impressione che il Principe sia da essi profondamente distante. Ci sono poi sicuramente tre figlie femmine (Concetta, Carolina e Caterina) che restano zitelle e ricompaiono nell’ottavo e ultimo capitolo; e proprio in quest’ultimo capitolo si scopre stranamente che c’è una quarta figlia, Chiara (la iniziale “C” accomuna tutte queste figlie), che è sposata e vive a Napoli (ma di lei non si era mai fatto cenno prima). Il settimo figlio, dunque, è per l’appunto il carissimo e perduto Giovanni.

Quando il Principe, nel settimo capitolo (ambientato nel luglio 1883), durante la sua estrema agonia ripensa alla sua vita facendone un bilancio, il ricordo del figlio lontano torna lancinante: «C’erano i figli, certo. I figli. Il solo che gli rassomigliasse, Giovanni, non era più qui. Ogni paio di anni inviava saluti da Londra; non aveva più nulla da fare con il carbone e commerciava in brillanti; dopo che Stella era morta era giunta all’indirizzo di lei una letterina e poco dopo un pacchettino con un braccialetto. Quello, sì. Anche lui aveva “corteggiato la morte,” anzi con l’abbandono di tutto aveva organizzato per sé quel tanto di morte che è possibile metter su continuando a vivere» (p. 291).

Giovanni, dunque, è per il Principe moribondo “il solo che gli rassomigliasse” tra i suoi sette figli: anche lui aveva “corteggiato la morte”, aveva lasciato tutto optando per una vita mediocremente borghese ma più indipendente e serena.  

Ma è solo questo atteggiamento “esistenziale” che giustifica la predilezione del Principe per il figlio lontano? E poi, in che cosa somiglia al padre un figlio che ne rinnega le radici, che abbandona la famiglia e non si cura del suo antico casato?

La domanda trova risposta se si considera l’amore altrettanto irrazionale che lega il Principe al nipote Tancredi Falconeri, figlio di sua sorella, insolente, arrogante, beffardo ma irresistibilmente affascinante, spregiudicato nella sua alleanza con Garibaldi, cinicamente concreto: «un volto magro, distinto, con un’espressione di timorosa beffa». E quando il figlio Paolo osa criticare il cugino per le sue disinvolte iniziative politiche, il Principe lo rimprovererà aspramente: «Meglio far sciocchezze che star tutto il giorno a guardare la cacca dei cavalli! Tancredi mi è più caro di prima. E poi non sono sciocchezze. Se tu potrai farti fare i biglietti di visita con duca di Querceta sopra, e se quando me ne andrò erediterai quattro soldi, lo dovrai a Tancredi ed agli altri come lui» (p. 61).

Dunque “far sciocchezze” è, per il Principe, la via corretta: Tancredi “fa sciocchezze” (finirà per sposare Angelica, la nipote di “Peppe ‘MMerda”, per appropriarsi del cospicuo patrimonio del suocero, don Calogero Sedàra); e una “sciocchezza” ancora più grande ha fatto l’amatissimo Giovanni, andandosene in Inghilterra dimenticandosi di tutto e di tutti.

Ma meglio queste scelte spiazzanti, coraggiose, sconcertanti, rispetto alla piatta normalità rassegnata di chi invece assiste, senza muovere un dito, all’inevitabile declino della classe nobiliare; e questo era stato l’atteggiamento immobilistico dello stesso Principe, che – come si legge già nel primo capitolo – «viveva in perpetuo scontento pur sotto il cipiglio zeusiano e stava a contemplare la rovina del proprio ceto e del proprio patrimonio senza avere nessuna attività ed ancora minor voglia di porvi riparo» (p. 21).

Giovanni invece, come Tancredi, ha smosso le acque, ha fatto una coraggiosa scelta di vita, ha abdicato al suo nobile ma vacuo passato per realizzare una concreta adesione alla vita reale. Giovanni e Tancredi hanno fatto quello che il Principe non è mai riuscito a fare e per lui sono sicuramente preferibili agli insignificanti nipoti che vede accanto a sé nel momento della morte: «C’erano anche i nipoti: Fabrizietto, il più giovane dei Salina, così bello, così vivace, tanto caro… Tanto odioso. Con la sua doppia dose di sangue Màlvica, con gl’istinti goderecci, con le sue tendenze verso un’eleganza borghese. Era inutile sforzarsi a credere il contrario, l’ultimo Salina era lui, il gigante sparuto che adesso agonizzava sul balcone di un albergo. Perché il significato di un casato nobile è tutto nelle tradizioni, nei ricordi vitali; e lui era l’ultimo a possedere dei ricordi inconsueti, distinti da quelli delle altre famiglie» (pp. 291-292).

Fabrizietto (con quel diminutivo irritante che nel “Gattopardo” è riservato sempre alle persone mediocri) è la vera negazione dei Gattopardi, è il segno del loro imbarbarimento, della loro contaminazione con una mediocrità borghese insopportabile.  Invece Giovanni, il figliol prodigo che non torna all’ovile, il rampollo perduto di una dinastia comunque destinata all’estinzione, ha fatto la sola scelta giusta, oculata e previdente: tanto il futuro era comunque segnato, come il Principe aveva avuto modo di dire a Chevalley: «Noi fummo i Gattopardi, i leoni: chi ci sostituirà saranno gli sciacalletti, le iene» (p. 219).

Giovanni, con la sua “eresia”, con la sua scelta di una vita alternativa, è sfuggito all’agonia della sua classe e alle illusioni storiche del periodo, ha evitato di convivere con l’immobilismo e i compromessi («Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi», p. 42), ha scelto – in una parola – la libertà. E di questa scelta suo padre non riesce a rimproverarlo mai, nemmeno quando maggiormente sente la sua mancanza e rimpiange la sua presenza.

Di Mario Pintacuda

Nato a Genova il 2 marzo 1954. Ha frequentato il Liceo classico "Andrea D'Oria" e si è laureato in Lettere classiche con 110/110 e lode all'Università di Genova. Ha insegnato nei Licei dal 1979 al 2019. Ha pubblicato numerosi testi scolastici, adottati in tutto il territorio nazionale; svolge attività critica e saggistica. E' sposato con Silvana Ponte e ha un figlio, Andrea, nato a Palermo nel 2005.

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