Un anno di Covid / II parte

Continuando a ripercorrere i miei post pubblicati su Facebook e relativi alla pandemia, eccone altri quattro.

Il primo risale al 7 marzo 2020 e pone il problema della chiusura delle scuole. Infatti il governo Conte-bis aveva emanato il 4 marzo un decreto che sospendeva le lezioni nelle scuole di ogni ordine e grado “fino al 15 marzo compreso” (decisamente si navigava a vista); contestualmente il decreto prevedeva però la “fruizione contingentata” di altri luoghi pubblici.

Mi venne allora spontaneo di proporre un immediato ritorno a scuola dei ragazzi “a giorni alterni”, in gruppi di 12-13 alunni per classe, garantendo il distanziamento e il rispetto delle norme di sicurezza. In realtà è proprio questo che si fece qualche mese dopo (e che sta tuttora facendo mio figlio ora, che frequenta il terzo anno del liceo classico).

Nel post comparivano anche alcune prime e perplesse riflessioni sulla “didattica a distanza”, nonché una preoccupata annotazione che invitava a non scambiare il covid per una banale influenza (come ancora moltissimi facevano in quei primi tempi di pandemia).

Insomma, a distanza di un anno, mi pare un post abbastanza motivato e alquanto profetico; e credo che sia, come gli altri che qui sto riproponendo, un documento storico-cronachistico che col tempo cominciamo a leggere con più consapevolezza.

5) 07.03.20

FRUIZIONE CONTINGENTATA – RIAPRIAMO LE SCUOLE “A TARGHE ALTERNE”!

Il Governo ha emanato il 4 marzo un decreto che ordina in tutt’Italia la sospensione delle attività didattiche delle Università e delle scuole di ogni ordine e grado fino al 15 marzo compreso. Inoltre è stato deciso lo stop per un mese (fino al 3 aprile) di eventi e manifestazioni di qualsiasi natura e in ogni luogo (pubblico e privato) che possono rappresentare un rischio di infezione per l’impossibilità di garantire la distanza di sicurezza di 1 metro.

Il decreto però contestualmente prevede la “fruizione contingentata” (cioè l’ingresso a numero ridotto) in: musei e luoghi culturali, ristoranti/bar/pub, centri commerciali, luoghi di culto, attività sportive di base, ecc.

Questo mi fa fare una riflessione. Sarebbe così assurdo prevedere un ritorno degli otto milioni e mezzo di alunni/e del nostro Paese nelle loro scuole con “fruizione contingentata”, cioè – mi si passi l’espressione – “a targhe alterne”?

Mi spiego meglio. In una classe media di 26 alunni, dividiamo i ragazzi in 2 fasce (A e B) di 13 alunni ciascuna. E mandiamoli a scuola, a oltranza, a giorni alterni. Nelle aule non entreranno mai più di 12-13 alunni per volta (in molti casi anche meno).

Gli alunni si siederanno uno per banco e si potrà garantire una distanza di un metro fra i banchi. Le lezioni si svolgeranno secondo l’orario previsto, magari tagliando le V e VI ore per il momento.

Gli insegnanti, oltre a svolgere le già penalizzatissime attività didattiche (soprattutto nelle classi d’esame), svolgeranno la necessaria, indispensabile, fondamentale, preziosa operazione di guida per la gestione dell’emergenza, di formazione psicologica, scientifica, culturale in senso lato.

Per il momento non dovrebbero esistere più le “classi capovolte”, il “fai da te” delegato ai ragazzi, la sperimentazione volenterosa ma spesso dispersiva di nuove tecniche didattiche. Qui occorrono dei “maestri” che insegnino ai ragazzi cosa fare, come farlo, quando farlo. Bisogna dare informazioni im-mediate, non televisive, non da “social” (e mi spiace dire queste cose qui in un social, ma da pensionato non posso fare più diversamente). E chi può farlo? Solo gli insegnanti.

In altri Paesi i ragazzi sono spesso allenati alle “emergenze”. Io ricordo le “prove di evacuazione” che si svolgono nelle nostre scuole, spesso burocratiche esercitazioni all’acqua di rose fra risatine e palese fastidio. Nei paesi anglosassoni chi prende per banale un’esercitazione viene punito e additato alla pubblica disapprovazione.

Abbiamo per decenni cancellato dal nostro Paese ogni abitudine al rispetto delle regole. Abbiamo tollerato che ognuno facesse da sé, facesse quello che voleva, sempre e comunque, a dispetto della convivenza con gli altri. Tolleriamo tuttora che in molte parti del nostro paese si aggrediscano medici e infermieri, si distruggano strutture sanitarie pubbliche e si spari contro le caserme senza che vi sia una risposta immediata ed esemplare dello Stato (e badate, qui non si parla di “repressione”, che è cosa sempre inaccettabile; si parla solo di “riappropriazione legittima” da parte dello Stato di sacche enormi del suo territorio).

Ora chiudiamo anche le scuole, cioè l’unica forma di “formazione” ed “in-formazione” seria di cui migliaia di ragazzi dispongono, soprattutto nelle zone più difficili e problematiche del nostro Paese.

Dopo aver tagliato fondi e risorse all’insegnamento, dopo aver disinvestito capitali preziosi dall’istruzione, ora azzeriamo il lavoro prezioso, oscuro, mal pagato e disprezzato degli insegnanti di ogni ordine e grado.

Ordiniamo di attuare la “didattica a distanza” (che è la negazione umana del rapporto maestro-allievo, ricordiamolo), per di più nel contesto di una realtà oggettiva in cui, a zone del nostro Paese che presentano strutture e contesti più adeguati, si contrappongono altre realtà “difficilissime”, ove è già tanto che i ragazzi vadano a scuola, che li si strappi all’orrore delle paludi sociali in cui vivono; in queste realtà è già tanto che si provi a curare il male alla radice, quando si è in tempo ancora, prima che questo male si radichi per sempre. In troppi casi il ragazzo che resta a casa troverà le uniche forme di guida, di modello e di (chiamiamolo così) insegnamento nelle famiglie “problematiche” cui appartengono.

E anche nelle famiglie teoricamente meno problematiche, magari in fasce sociali diverse e privilegiate, spesso i ragazzi sono soli, abbandonati alle pseudo-informazioni banalizzate che gli arrivano sui telefonini.

Il contagio del coronavirus è fortissimo. Sciagurato chi, in questi giorni, lo ha assimilato a una banale influenza: una banale influenza non obbliga all’ospedalizzazione, alle terapie intensive, alle quarantene assolute, non uccide in questa misura, non risulta trasmissibile in modo così esponenziale.

Ma proprio per questo chiudere tutte le scuole in questo momento, soprattutto nelle zone “non rosse” (e si decida presto il governo a stabilire quali e quante sono), è un errore. I ragazzi, liberi da ogni impegno, girano per le strade abbracciandosi, affollando i loro abituali locali di ritrovo e tenendosi a meno di un metro di distanza…

Si riaprano le scuole, contingentando le frequenze, a targhe alterne, in qualunque modo. Ma si riaprano. E presto.

Una settimana dopo, il 12 marzo, commentavo un bell’articolo di Antonio Scurati, apparso sul “Corriere della Sera” del giorno prima; si intitolava: “Coronavirus, prova di maturità per una generazione baciata dalla sorte”. Nell’articolo il giornalista definiva la nostra “la generazione più fortunata della storia dell’umanità”, la “jeunesse dorée” della storia universale, vissuta in un’epoca in cui guerre, terremoti, attacchi terroristici e catastrofi varie c’erano state sì, ma erano state fenomeni locali, settoriali, spesso lontani, che comunque riguardavano “gli altri”. Ora, diceva Scurati, “abbiamo la guerra in casa”: ed era questo il nostro banco di prova, per noi “generazione impolitica”, cresciuta nell’individualismo e nelle comodità.

A questo punto inserivo la mia testimonianza, ripercorrevo la storia della mia vita e riconoscevo onestamente di non aver mai vissuto un momento simile; aggiungevo però di vedere intorno a me le tracce di un nuovo atteggiamento, che ancora non era definito “resilienza”, con uno degli innumerevoli neologismi coniati quest’anno, ma che di fatto ne era già una precoce incarnazione.

Il finale era speranzoso, ahimè troppo rispetto a quella che fu poi la realtà dei fatti; ma di speranze si nutrono gli esseri umani…

6) 12.03.20

LA PROVA DI MATURITÀ

Ieri sul “Corriere della Sera” (p. 19) Antonio Scurati ha pubblicato uno splendido articolo che rappresenta al meglio il trauma epocale che stiamo vivendo. L’articolo si intitola “Coronavirus, prova di maturità per una generazione baciata dalla sorte”.

Scurati inizia così: «Siamo stati la generazione più fortunata della storia dell’umanità. Noi, nati in questa meravigliosa penisola protesa su di un mare “buono” nel mezzo del più lungo periodo di pace e del più grande benessere mai goduto dall’Occidente europeo, noi siamo stati la jeunesse dorée della storia universale. Ora, entrati nell’età che dovrebbe concedere la maturità, raggiungiamo il “punto alto” della nostra esistenza, siamo chiamati alla prova. Ce ne mostreremo all’altezza?». […]

Certo, aggiunge Scurati, in tutti questi anni sono avvenute guerre, terremoti, attacchi terroristici, catastrofi di varia natura, però per la maggioranza di noi «tutte queste cose hanno sempre riguardato gli “altri”. Noi siamo stati guerrieri da salotto, bagnanti sulle spiagge dei migranti, i nostri drammi hanno assunto la forma di psicodrammi, la sindrome da attacchi di panico è stata la patologia psichiatrica tipica della nostra psiche collettiva».

E tuttavia oggi noi, ormai ex “guerrieri da salotto”, abbiamo la guerra in casa. Infatti la crisi attuale, come scrive l’articolista, «ricorda per alcuni aspetti gli scenari di guerra: strade deserte, persone chiuse in casa, reparti di rianimazione degli ottimi ospedali lombardi in cui i medici sono drammaticamente costretti a decidere quali pazienti curare e quali lasciar morire».

In questo contesto allucinante, prosegue l’articolo, sembrerebbe che la nostra «fortunatissima generazione» sia «capace solo di panico (le fughe sui treni notturni) o d’irresponsabilità (le code agli impianti sciistici)».

Scurati conclude così: «Siamo stati… una generazione impolitica. Viandanti solitari sui sentieri della ricerca di una felicità individuale, non abbiamo conosciuto la politica come sentimento di appartenenza a un comune destino. Ebbene, dobbiamo assolutamente scoprirla ora. E dobbiamo imparare in fretta. Dobbiamo rimediare al lento apprendistato che non abbiamo avuto. […] Per tutti questi motivi io ritengo che sia giunto il momento della politica, nel suo significato più alto, e, perciò, benedico la decisione politica che ha trasformato l’intera Italia in zona rossa contro l’arbitrio degli individui, il loro panico e le loro irresponsabilità».

Aggiungo qualcosa alla splendida analisi di Scurati.

Io sono nato nel 1954 a Genova, appena nove anni dopo la fine della guerra mondiale. Mio padre era stato in guerra per quasi quattro anni in zona di operazioni. Mia madre era “sfollata” dal suo paese per sfuggire ai bombardamenti. Tutti e due avevano dovuto lasciare la Sicilia e andare altrove per vivere. Forse devo ringraziare il destino che volle che mio padre vincesse il concorso (allora a livello nazionale) per il Conservatorio di Genova. Ho avuto così l’onore di nascere in una città meravigliosa, superba, esemplare, coraggiosa, orgogliosa, tenace, “testarda ed entusiasta” (come diceva ieri “Repubblica” a proposito del nuovo ponte che sta sorgendo sul Polcevera, con i lavori che procedono eroicamente ed alacremente con tutte le cautele anti-contagio).

Negli anni della mia vita ho letto tanti libri, ho studiato la storia, ho conservato e collezionato migliaia di notizie, dossier, ricordi, perché ho creduto sempre che ogni esistenza umana sia patrimonio dell’umanità e sia dovere di ognuno salvare la memoria, sempre, di tutto.

Ho vissuto l’epoca delle Brigate Rosse (sono passato, pochi minuti dopo, dal luogo dove fu ucciso il procuratore Coco), ho vissuto a Palermo all’epoca delle stragi mafiose, ho avuto paura della guerra tante volte (la crisi di Cuba, il Vietnam, l’Iraq, le torri gemelle, ecc.); ho insegnato per quarant’anni nella scuola pubblica considerando questo mestiere mai un ripiego e sempre un onore/onere. Però non avevo mai vissuto, come tantissime persone “normalissime” come me, un momento così.

E tuttavia ci pensavo. La storia, troppo studiata da me, dimostrava che un momento così prima o poi ci sarebbe stato. Il problema era riuscire ad accettarne l’idea prima e a gestirne la presenza poi.

Devo dire che ci stiamo provando. Questo Paese senza regole e senza serietà sta faticosamente riuscendo a darsi regole e a recuperare serietà. Con colpevole lentezza, Europa e mondo si stanno finalmente rendendo conto della pandemia: questo rallenterà l’uscita dal tunnel, ma passeranno mesi perché tutti possano tornare a godere il rasserenante abbraccio della routine.

Comunque, dopo questa crisi, qualcosa di nuovo ci sarà. I giovani ricorderanno e capiranno meglio nel tempo il valore formativo di questa triste esperienza.

La politica tornerà a riguardarci (ora forse molti che non sono andati a votare in passato capiranno l’errore che hanno fatto a delegare ad altri le loro decisioni).

Riscopriremo il valore inestimabile della “normalità” dopo avere sperimentato la gravità della sua perdita momentanea.

Il pensiero va a chi soffre ora, a chi è malato ora e a chi lotta nei reparti di terapia intensiva; ovviamente tutti temiamo che noi stessi, o (peggio) una persona cara, possa trovarsi nella situazione estrema. Occorre tanta grinta, una grinta particolare, un’energia straordinaria.

Ho sempre sentito dire che gli Italiani tirano fuori il meglio di sé quando sono con le spalle al muro, quando hanno la pistola puntata alla testa. È il momento di dimostrarlo e credo che stiamo provando a dimostrando, nella stragrande maggioranza dei casi.

La nostra “prova di maturità” (gli esami non finiscono mai) è tuttora in corso.

Arriverà prima o poi, speriamo presto, il bollettino della vittoria: “L’Esercito Austro-Ungarico [leggi: il coronavirus] è annientato: esso ha subito perdite gravissime nell’accanita resistenza dei primi giorni. […] I resti di quello che fu uno dei più potenti  eserciti  del  mondo  risalgono  in  disordine  e  senza speranza le valli, che avevano disceso con orgogliosa sicurezza. Armando Diaz [leggi: popolo italiano]”.

L’indomani, 13 marzo, in un brevissimo post, commentavo l’incremento dei contagi, davvero imponente; e notavo che al decimo posto c’era “un Paese emergente, extraterritoriale”: le… navi da crociera! Questo “Paese semovente”, infatti, era un nido di preoccupanti focolai…

7) 13.03.20

IL DECIMO POSTO

Classifica dei contagi riportata dai giornali stamattina: 1° Cina 80.932, 2° Italia 15.113, 3° Iran 10.075, 4° Corea del Sud 7.869.

A seguire Spagna, Francia, Germania, USA, Norvegia.

Al 10° posto noto un Paese emergente, extraterritoriale, una sorta di Nefelococcugia aristofanesca: con 696 casi il 10° posto va… alle NAVI DA CROCIERA!

Confidiamo che questo Paese semovente non continui, almeno per un po’, a produrre casi positivi al coronavirus; ci bastano e ci avanzano i crescenti contagi su terraferma…

Aggiungo per oggi un ultimo post, testimonianza di una delle prime domeniche di lockdown. Si intitola “All’erta sto” ed è un fedele resoconto di un mio controllo, dalla finestra di casa, del rispetto (o meno) delle rigide norme del governo. Allora non si parlava di “zona rossa”, anche perché tutta l’Italia era accomunata in una grigia unità cromatica e tutti eravamo chiusi dentro, spaventati i più, contrariati molti, ribelli e negazionisti ancora pochi. Un resoconto asciutto e un po’ ironico (ho sempre creduto che l’ironia sia una potente ancora di salvezza per gli uomini), che si concludeva con una citazione montaliana (tratta opportunamente da “Il sogno del prigioniero”).

8) 15.03.20

ALL’ERTA STO

Mi sono messo alla finestra e ho osservato per 10’, dalle 17.20 alle 17.30, la situazione nella mia strada (una delle principali arterie del centro di Palermo).

Ecco il bollettino dei transiti da me rilevato:

1) n. 16 automobili + un’auto della polizia;

2) n. 3 “motori” (noi qui chiamiamo così i ciclomotori), di cui uno con grossa borsa gialla (forse un “rider”), tutti con casco;

3) n. 2 ciclisti (uno con mascherina e uno con telefonino);

4) n. 7 passanti (donna con telefonino senza maschera, signora che esce dal palazzo di fronte e si allontana, anziano mascherato, signora anziana con cane, uomo sospetto che la seguiva a 2 metri, ragazza senza mascherina con telefonino, ragazzo senza mascherina con telefonino)

5) un gabbiano

6) 5 piccioni, di cui uno stranamente appiedato, che camminava felice e perplesso sul marciapiede deserto.

Di fronte, cestino dell’immondizia insolitamente vuoto.

Lieve venticello, tempo nuvoloso, 18 gradi.

Versi di Montale nella memoria: “E i colpi si ripetono ed i passi, / e ancora ignoro se sarò al festino / farcitore o farcito. L’attesa è lunga, / il mio sogno di te non è finito”.

All’erta sto.

Di Mario Pintacuda

Nato a Genova il 2 marzo 1954. Ha frequentato il Liceo classico "Andrea D'Oria" e si è laureato in Lettere classiche con 110/110 e lode all'Università di Genova. Ha insegnato nei Licei dal 1979 al 2019. Ha pubblicato numerosi testi scolastici, adottati in tutto il territorio nazionale; svolge attività critica e saggistica. E' sposato con Silvana Ponte e ha un figlio, Andrea, nato a Palermo nel 2005.

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