La prima tappa del Giro

Ieri è partito, con una cronometro individuale di 8,6 km a Torino, il 104° Giro d’Italia di ciclismo. Come era avvenuto nella precedente edizione, disputatasi insolitamente a ottobre a causa della pandemia, la prima tappa è stata vinta dal giovane campione del mondo della specialità, il promettentissimo ventiquattrenne Filippo Ganna di Verbania.

Ganna ha trionfato per le sue ottime doti di cronoman, ma anche per la tecnologia raffinatissima della sua bici, che costa ben 25.000 euro, per il body indossato ipertecnologico, per lo studio scientifico del percorso e del vento.

Malgrado la brevità della cronotappa, Ganna ha inflitto distacchi rilevanti ai suoi avversari; fa poi piacere che al secondo posto, a 10’’ dal vincitore, si sia piazzato il mantovano Edoardo Affini, coetaneo di Ganna e altra promessa del ciclismo italiano.

Il Giro è appena all’inizio; Ganna dovrà probabilmente farsi da parte per favorire i suoi compagni Bernal e Sivakov, che puntano alla classifica finale. Credo però che questo ragazzo abbia grandi potenzialità di miglioramento: già l’anno scorso ha dato prova di ottime performances anche in salita; e se confermasse queste altre sue doti, potrebbe puntare ad emulare il grande campione francese Jacques Anquetil, che vinceva i Giri e i Tour a cronometro, mantenendo poi il vantaggio nelle montagne (vero è che allora i chilometri a cronometro nelle gare a tappa erano molti di più).

Tra l’altro, per puro caso, Ganna è omonimo di quel Luigi Ganna che fu il primo vincitore della corsa rosa nel 1909.

In me il Giro d’Italia suscita molti ricordi; da ragazzo infatti ero appassionatissimo di ciclismo.

Nel mese di maggio le tappe erano trasmesse solo per gli ultimi 20 km e l’orario di inizio del collegamento dipendeva dal ritmo con cui i ciclisti viaggiavano.

Accendevo la TV nel soggiorno (unico televisore della casa, ovviamente in bianco e nero) e dalla vicina cucina (dove facevo i compiti di scuola media o del liceo) attendevo che la musichetta interlocutoria cessasse; ogni tanto una voce diceva: “Siamo in attesa di collegarci con XYZ per trasmettere le fasi finali della tappa del Giro d’Italia”. Erano attese lunghe; però spesso mi consentivano di completare il lavoro scolastico, sicché potevo poi seguire la trasmissione senza pensieri.

Il telecronista principale era Adriano De Zan, che era capace di riconoscere un ciclista fra cento in un gruppo lanciato nel volatone finale; conosceva alla perfezione (altro che Wikipedia e internet) tutte le notizie relative a tutti i corridori.

A volte, in alcune tappe di montagna sulle Alpi, l’elicottero che faceva da “ponte” per i collegamenti video non poteva decollare per il maltempo; quindi non si potevano avere le riprese della telecamera mobile e una telecamera fissa inquadrava la linea del traguardo. Allora De Zan cedeva la linea a Claudio Ferretti (scomparso l’anno scorso) in collegamento audio; e Ferretti dalla motocicletta informava con chiarezza ed efficacia i telespettatori (tornati momentaneamente radioascoltatori) sullo sviluppo della tappa.

Il primo Giro d’Italia che seguii fu quello del 1964; ho ancora un vecchio album in cui incollavo le notizie sulla corsa. A vincere fu il campione francese Jacques Anquetil, che si era già imposto nel Giro del 1960. Anquetil, biondo, colto, raffinato, distaccato e fondamentalmente odioso, viveva in un castello a Neuville-Chant d’Oisel e alle undici di mattina non rinunciava mai all’aperitivo con whisky e Calvados; un cronoman straordinario, che vinse cinque Tour de France.

Tra i miei ricordi ciclistici sottolineo in particolare il leggendario Tour de France del 1965 vinto da Felice Gimondi; io lo seguii alla radiolina, villeggiando in campagna vicino Sòlanto. Non dimenticherò mai la sorpresa e la gioia dei tifosi italiani (e di me in particolare) per le imprese di questo giovane campionissimo (che ebbe poi nella sua carriera la sfortuna di incappare in un rivale “mostruoso” come il belga Eddy Merckx).

Colgo l’occasione per sottolineare come il ciclismo sia stato per tanti anni, dopo la II guerra mondiale, lo sport più amato dagli Italiani, ancor più del calcio; come ha scritto Aldo Cazzullo, “il ciclismo era lo sport nazionale; rappresentava la prima occasione di riscatto per un Paese umiliato”. Basti ricordare l’episodio assai noto della tappa alpina del Tour del 1948 vinta trionfalmente a Briançon da Gino Bartali, che distrasse il Paese in un momento drammatico come l’attentato a Palmiro Togliatti.

Di Mario Pintacuda

Nato a Genova il 2 marzo 1954. Ha frequentato il Liceo classico "Andrea D'Oria" e si è laureato in Lettere classiche con 110/110 e lode all'Università di Genova. Ha insegnato nei Licei dal 1979 al 2019. Ha pubblicato numerosi testi scolastici, adottati in tutto il territorio nazionale; svolge attività critica e saggistica. E' sposato con Silvana Ponte e ha un figlio, Andrea, nato a Palermo nel 2005.

1 commento

  1. Bellissimo intervento. I ciclisti erano figli del Popolo e quindi venivano guardati con atteggiamento di ammirazione ma anche di grande familiarità dal popolo italiano. I sacrifici che facevano erano immani, su strade polverose con lunghi chilometraggi e senza la tecnologia di oggi. E il popolo si riconosceva in loro. Nella loro fatica c’era il gesto epico della fatica di tutti i giorni, simile alla condizione di chi faceva una vita durissima per sbarcare il lunario. De Zan è indimenticabile: per le sue competenze era oggetto di ammirazione da parte di tutto il mondo punto così come era straordinario anche il Processo alla tappa. Ganna è un campione straordinario. Ma non potrà mai essere come Anquetil. Il francese, pur avendo una corporatura nettamente inferiore, era alto 1,76, (Ganna è un 1,92), aveva una forza straordinaria ed era in grado di spingere i rapporti più duri ma anche di salire sul leggero. Ganna ha una massa corporea e muscolare molto più imponente. È perfetto e bellissimo esteticamente a cronometro ma ovviamente soffre nelle dure salite.

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