Odisseo e Laerte

Siamo a Itaca. I pretendenti uccisi sono già scesi nell’Ade e Odisseo si reca nel podere in cui vive il padre Laerte, anziano, solo e solo.

L’eroe trova il genitore intento a lavorare in campagna: “vestiva una tunica sporca, / rappezzata, indecente; e intorno alle gambe aveva legate / gambiere di pelli cucite, per ripararsi dai graffi; / e sulle mani aveva guanti contro le spine; sopra la testa / aveva un berretto di pelle di capra, a crescer la pena” (XXIV, vv. 227-231, trad. Calzecchi Onesti).

Un’immagine commovente, struggente. Tornare dopo vent’anni e vedere il proprio padre ridotto così…

Che avreste fatto voi? Sareste corsi dal vecchio e lo avreste abbracciato. Invece che fa Odisseo? Resta incerto e dubbioso: “Fu incerto allora nell’anima e in cuore / se baciare e abbracciare il padre suo, e tutto / narrargli, ch’era venuto, tornato alla terra dei padri, / o prima interrogarlo e metterlo a prova (πειρήσαιτο)” (vv. 235-238).

E sceglie la seconda, crudele opzione: “Così, pensandoci, gli parve fosse più utile (κέρδιον), / prima con parole offensive provarlo” (vv. 239-240). Non si fa dunque riconoscere subito da Laerte, ma gli dice di chiamarsi Epérito, di essere figlio di un tal Afidante e di venire dalla fantomatica città di Alibante; aggiunge di aver ospitato Odisseo cinque anni prima, di avergli dato molti preziosi doni: sette pesi d’oro, un cratere d’argento, dodici manti e altrettanti tappeti, coperte, chitoni e quattro bellissime donne, “quelle che lui volle scegliere” (v. 279).

L’informazione precipita nello sconforto Laerte, convinto ormai della morte del figlio: “una nera nube di strazio avvolse il vecchio; / a due mani prendendo la cenera arsa / la versò sulla sua testa bianca, con fitti singhiozzi” (vv. 315-317).

Solo a questo punto Odisseo si commuove: gli viene “acuta voglia di piangere, a veder così il padre” (v. 319) e si slancia ad abbracciarlo e a baciarlo, rivelandogli finalmente la verità.

Laerte allora (e ne ha pieno diritto!) chiede “un segno certo” (σῆμα… αριφραδές, v. 329) in grado di testimoniare la veridicità delle parole del suo interlocutore; e Odisseo mostra ancora la cicatrice, topos del suo riconoscimento, raccontandone in breve la storia: “La cicatrice guarda prima con gli occhi, / che sul Parnaso mi fece un cinghiale con la candida zanna…” (vv. 331-332).

Subito dopo, memore dell’incontro con Penelope e consapevole della necessità di condividere anche in questo caso un “segnale” (σῆμα) con Laerte, passa ad elencare tutti gli alberi da frutto regalatigli dal padre quando era ancora bambino: “peri me ne donasti tredici, e dieci meli, / e fichi quaranta; viti mi promettesti di darmene / cinquanta: e ciascuna dava i grappoli in tempo diverso: / ne pendono grappoli d’ogni forma e colore, / quando li gonfiano le stagioni di Zeus” (vv. 340-344).

Solo allora “al vecchio si sciolsero cuore e ginocchia, / riconoscendo i segni sicuri che Odisseo gli diceva; / gettò le braccia al collo del caro figlio, e a sé lo stringeva, / quasi svenuto” (vv. 345-348).

Episodio sconcertante, come si vede. Vediamo di capirci qualcosa di più.

Anzitutto, la critica è concorde nel considerare fittizi e allusivi i nomi usati da Odisseo nel suo falso racconto al padre:

  • Alibante (Ἀλύβας) sarebbe connesso con il verbo ἀλάομαι o ἀλύω “errare, vagare” per richiamare le peregrinazioni di Odisseo;
  • Afidante (Ἀφείδας) deriva da ἀ- privativo + φείδω “risparmiare”  e potrebbe alludere a “chi non ha risparmiato (i pretendenti)”;
  • Epérito potrebbe risalire ad éris (ἔρις), la “contesa”.

Resta da capire il senso di questa “carognata” di Odisseo nei confronti del padre; e stranamente la critica su questo glissa.

Molti interpreti riducono tutto al topos del riconoscimento, cioè alla ripetizione standard dello schema fisso delle “scene di riconoscimento”. Ma può bastare questa soluzione?

Odisseo vede il padre in condizioni pietose, invecchiato, disperato; e lo mette cinicamente alla prova. Sa di procurargli un’ulteriore terribile sofferenza, ma la cosa non lo induce a rinunciare all’ennesimo, gratuito, inutile inganno. Perché?

Possiamo fare delle ipotesi:

1) Odisseo non si fida di suo padre (ma perché?);

2) ha rancore verso di lui (ma perché?);

3) vuole vederlo soffrire per punirlo di qualcosa (di che cosa?);

4) Odisseo ha la menzogna e l’inganno nel DNA; quello è il suo modo abituale di procedere, con tutti; e che davanti a lui ci sia suo padre non modifica il suo atteggiamento abituale, che è infido e cinico.

La soluzione 4 rischia di essere la più condivisibile; ma forse non basta.

Questo riconoscimento (ἀναγνώρισις), rispetto ai precedenti, costituisce un ulteriore passo nel percorso memoriale che Odisseo compie, in direzione della riappropriazione del proprio passato e della propria identità (tante volte negata nel corso del poema, fino a diventare “Nessuno”).

Con Telemaco l’eroe ha recuperato la sua paternità, con Euriclea la sua ἀριστεία e la sua prestanza giovanile, con Penelope ha ritrovato la sua identità di sposo e il codice degli affetti familiari. Ora con Laerte Odisseo ritrova il suo “esser bambino” (v. 338), la sua infanzia intenta ad osservare la terra e la crescita degli alberi, sotto la guida attenta del padre.

Odisseo si lascia riconoscere dal padre, ma soprattutto “riconosce se stesso”, rinnova la consapevolezza del proprio lontano passato. Ritrovare Laerte, il proprio padre, significa ritrovare i ricordi dell’infanzia, le proprie origini “genetiche”; solo allora il νόστος dell’eroe è finalmente completato.

A questo risultato non si poteva arrivare se non attraverso l’ennesima dolorosa “prova” (πεῖρα), imposta al padre ma anche – forzatamente – a se stesso, perché il figlio replica il padre e, provocandone il dolore, soffre anche lui, profondamente e per l’ultima volta.

P.S.: che Odisseo avesse ereditato la sua astuzia dall’oscuro Laerte era stato messo in dubbio già dai commentatori antichi: semmai l’eroe avrebbe potuto ereditare furbizia e opportunismo dal nonno materno, Autolico, figlio di Hermes, ladro, spergiuro ed esperto di abigeati. Ma c’è di più: secondo una versione del mito, Odisseo era figlio di Sisifo, che era (lui sì) famoso per la sua astuzia spregiudicata e opportunista.

Itaca

Di Mario Pintacuda

Nato a Genova il 2 marzo 1954. Ha frequentato il Liceo classico "Andrea D'Oria" e si è laureato in Lettere classiche con 110/110 e lode all'Università di Genova. Ha insegnato nei Licei dal 1979 al 2019. Ha pubblicato numerosi testi scolastici, adottati in tutto il territorio nazionale; svolge attività critica e saggistica. E' sposato con Silvana Ponte e ha un figlio, Andrea, nato a Palermo nel 2005.

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