Un anno di Covid / XI

Continuo a riproporre alcuni post che ho pubblicato l’anno scorso su Facebook durante il periodo della pandemia. Eccone altri tre.

Il 19 settembre, con riferimento ai rinnovati timori – sempre più fondati – di una seconda e micidiale “ondata” del virus, composi questa riscrittura dell’Infinito leopardiano:

30) 19.09.20

L’INFINITO (CONTAGIO)

Sempre odioso mi fu quest’empio Covid,

e questo virus, che già a tanta gente

di fare altri tamponi ancora impone.

Ma sedendo a distanza, interminati

tempi ancor con quello, e sovrumani

lockdown, e tanti altri decreti

io nel pensier prevengo, ove per poco

il cor non si spaura. E se il governo

odo parlare di vaccino, io quello

infinito contagio alla sua voce

vo comparando: e mi sovvien Arcuri,

e i morti a caterve, e la seconda

ondata, e Locatelli. Così con gran

perplessità s’annega il pensier mio:

e il naufragar m’è triste in questo Covid.

Il post dell’11 ottobre si intitolava “La paura e la speranza”; partendo dall’analisi di un articolo di Sebastiano Messina su “Repubblica”, facevo alcune considerazioni sulla nuova situazione psicologica che dilagava in quel periodo. Nonostante la nuova impennata dei contagi, molta gente era convinta di “avere già dato”, di essere comunque fuori dal peggio, di poter applicare più elasticamente la nuova serie di restrizioni.

Intanto questa era la situazione: “il coronavirus beffardo, camaleontico, talora mimetizzato, tanto più insidioso quanto più negato, sminuito e talora irriso, continua a infettare mezzo mondo senza dare alcun segno di cedimento. Del vaccino, dei vaccini promessi, nessuna notizia sicura”.

31) 11.10.20

LA PAURA E LA SPERANZA

Su “Repubblica” di oggi Sebastiano Messina analizza l’attuale situazione nel nostro Paese con un articolo intitolato “Il doppio fronte della paura nel Paese che non vuole fallire”.

L’articolista si chiede anzitutto perché non bastino i 5724 nuovi casi di coronavirus registrati ieri a farci sentire la stessa paura che sentivamo sei mesi fa, un mese dopo l’annuncio del lockdown. Allora, infatti, “tutti accettavamo di fare una fila di due ore per entrare al supermercato, ci piegavamo con disciplina al divieto di varcare i confini comunali ed eravamo rassegnati a non vedere per un pezzo neanche i nostri figli, mentre i vigili motociclisti di Rimini circondavano in spiaggia, per multarlo, il solitario bagnante che sfidava i Dpcm di Conte”.

Allora, aggiungerei io, si facevano i flashmob dai balconi, si cantava “Azzurro” o si intonava enfaticamente l’Inno nazionale (“poropopò” compreso), si proclamava con fiducia assoluta “Andrà tutto bene” e si dava un’immagine per certi versi sorprendente di un Paese compatto, serio, responsabile. E nel suo discorso dell’11 marzo il premier Conte diceva: “Rimaniamo distanti oggi per abbracciarci con più calore, per correre più veloci domani. Tutti insieme ce la faremo”.

Molta acqua è passata sotto i ponti, in estate sembrava che tutto stesse finendo, l’ineffabile signora Angela poteva proclamare “Nun ce n’è coviddi” suscitando consensi sorridenti, riprendevano viaggi all’estero e in Italia, movide, feste private (compleanni, battesimi, matrimoni, prime comunioni congelati dall’epidemia).

Ma, come aggiunge Messina, “alle 18 di venerdì 10 aprile – esattamente sei mesi fa – si contarono 3951 contagiati più del giorno prima, ovvero 1773 casi meno dei 5724 registrati ieri. Se allora eravamo spaventati, oggi dovremmo essere terrorizzati. E invece non è così, perché le altre cifre di quei bollettini sono assai diverse. I ricoverati in terapia intensiva, per esempio: allora erano 3497, oggi sono solo 390. E poi, soprattutto, i decessi: 570 quel venerdì di aprile, appena 29 ieri. Sono dunque i numeri della morte – che spaventa venti volte di meno di sei mesi fa – a spiegare oggi questa paura a bassa intensità”.

Insomma, si ha l’impressione che il virus sia “più buono”, che gli asintomatici superino i sintomatici, che gli stessi sintomatici siano in genere facilmente guaribili, che la pandemia insomma sia un fastidio con il quale si possa convivere, magari al prezzo (diventato pressoché l’unica forma di cautela per i più) di portarsi appresso la mascherina, anche abbassata sul mento e anche arrotolata sul braccio.

Messina però aggiunge: “Non c’è bisogno di essere un epidemiologo per capire che questo è il vento che precede il temporale, perché i giovani asintomatici di oggi difficilmente finiranno in rianimazione ma di questo passo rischiano di mandarci i loro padri e i loro nonni. E forse anche loro ne sono consapevoli, ma nei vagoni della metropolitana milanese, sugli autobus di Napoli e sui tram di Roma non c’è posto per la paura, giovani e anziani stiamo l’uno addosso all’altro confidando nella mascherina e affidandoci alla buona sorte”.

La conclusione dell’articolista è amara: “La verità è che noi italiani siamo convinti, sotto sotto, di avere già dato. Abbiamo fatto la penitenza del lockdown, abbiamo cantato Fratelli d’Italia dai balconi e ci siamo commossi per le bare di Bergamo che di notte venivano portate via dai camion dell’esercito verso i forni crematori. Ma poi è arrivato il liberi tutti. […] Adesso è difficile rinunciare all’idea di essere usciti dal tunnel, e non bastano le classi messe in quarantena, le residenze per anziani ridiventate cluster del Covid e neppure la crescita esponenziale dei contagi a risvegliare quell’angoscia che inconsciamente abbiamo rimosso. Oggi la voglia di andare avanti vince sulla paura di essere azzoppati dal virus. Il timore di affondare è più forte di quello di ammalarsi. Ma d’altra parte, lo disse Spinoza dopo la peste del Seicento, la paura non può essere senza speranza, né la speranza senza paura”.

L’impressione nefasta di “avere già dato”, la fiducia incosciente nel fatto che “proprio a me deve capitare”, la guardia abbassata a troppi livelli, i troppi ritardi e omissioni sono tutti elementi concomitanti in questo contesto.

E mentre iniziano, anche qui a Palermo, i controlli nelle zone abituali della movida (8 giovani su 10 sono stati trovati senza mascherina davanti ai locali più frequentati e sono state elevate multe per 16.000 euro, oltre ad altri 10.000 euro di contravvenzioni ai gestori dei locali), mentre a Roma duemila sovranisti no-Mask manifestano contro tutte le misure restrittive (semmai se le imporranno da soli contagiandosi liberamente), mentre le file per fare i tamponi sono interminabili, mentre nelle scuole tuttora non arrivano (alla faccia delle promesse azzoliniane) banchi monoposto e personale, mentre i mezzi pubblici viaggiano stracolmi (altro che all’80%), mentre si celebrano feste con oltre 200 persone (al prezzo di lockdown locali come quelli di alcuni paesi siciliani), mentre il governo studia con il contagocce quali misure si possano prendere e non prendere al tempo stesso, il coronavirus beffardo, camaleontico, talora mimetizzato, tanto più insidioso quanto più negato, sminuito e talora irriso, continua a infettare mezzo mondo senza dare alcun segno di cedimento.

Del vaccino, dei vaccini promessi, nessuna notizia sicura. Le promesse dei governanti di mezzo mondo si scontrano con i tempi e i modi della comunità scientifica, che sono diversi da quelli della politica. E noi, come dice Speranza (ma, come citava Messina, “la paura non può essere senza speranza”…), dobbiamo resistere con il coltello fra i denti per sette-otto mesi, arrotondabili a un anno o forse più.

Così va il mondo, o meglio così andava nell’anno del Demonio 2020 dell’era cristiana. Solo, evitiamo per ora, per scaramanzia, di ripetere “Andrà tutto bene” e semmai aspettiamo il momento in cui, a posteriori e a coronavirus annientato dai vaccini (alla faccia dei negazionisti), chi ce l’avrà fatta potrà dire: “È andato tutto bene”.

Il 17 ottobre in un post intitolato “Il ritorno del coprifuoco” commentavo l’imminente adozione del coprifuoco in Italia, sulla scia della decisione già adottata in Francia.

17.10.20 – IL RITORNO DEL COPRIFUOCO

In alcune città medievali, a una determinata ora della sera, si ordinava agli abitanti (con un segnale di campana, di tromba o di tamburo) di spegnere ogni fuoco, lume o lanterna durante le ore notturne, coprendolo sotto la cenere, al fine di evitare incendi.

Da qui il termine “coprifuoco” (che in italiano è un calco dal francese “couvre-feu”), oggi comunemente inteso come “divieto alla popolazione civile di uscire durante le ore della sera e della notte, imposto per ragioni di sicurezza in zone affidate all’autorità militare o occupate direttamente da essa” (dal vocabolario Devoto-Oli).

Ovviamente il “coprifuoco” ai giorni nostri è adottato in situazioni di particolare gravità, ad es. nei periodi di guerra o nei Paesi a regime dittatoriale. Dopo l’orario di inizio del coprifuoco, in epoca antica si chiudevano le porte della città, per cui nessuno poteva entrare o uscire dalle mura; e ancora oggi, in caso di coprifuoco, chi non è autorizzato deve restare a casa; in caso di trasgressione vengono applicate sanzioni secondo le norme militari o civili. Il termine “coprifuoco” era entrato anche nel gergo giovanile, per indicare l’orario di rientro a casa imposto dai genitori (almeno al tempo in cui un orario di rientro imposto dai genitori poteva esistere).

Come è noto, il vocabolo è tornato prepotentemente d’attualità: in Francia l’altro ieri le autorità sanitarie francesi hanno reso noto che 30.621 persone sono risultate positive al coronavirus, per cui il premier Macron ha annunciato il coprifuoco alle 21 nella zona di Parigi, nell’intera regione dell’Ile-de-France e nelle metropoli di Grenoble, Lille, Lione, Aix-Marseille, Rouen, Tolosa e Montpellier.

Altri Paesi studiano misure analoghe e fra queste c’è ovviamente l’Italia. Tuttavia, come si legge oggi sul “Corriere della Sera”, il premier Conte “a un coprifuoco ferreo alla francese preferisce una soluzione meno drastica con chiusura anticipata dei locali pubblici e un rafforzamento dello smart working. Si discute sulle limitazioni allo sport, c’è concordia sul tenere il più possibile aperte le scuole” (alla faccia del governatore campano De Luca, verrebbe da dire).

Conte si rende conto che “i cittadini sono stanchi” e mira a “una strategia diversa, che non prevede più il lockdown” ma semmai chiusure localizzate. Si fa così il censimento delle restrizioni attuabili: stretta sugli sport da contatto, alt a calcetto e basket, possibile stop a piscine, palestre e circoli, stretta su eventi e manifestazioni pubbliche, serrata provvisoria dei “negozi non essenziali” (non essenziali a chi?) e delle sale gioco. In particolare, per quanto riguarda la scuola, la ministra dell’istruzione Azzolina si oppone all’idea di tenere a casa classi intere o di tornare alla didattica digitale per tutti; si pensa dunque a scaglionamenti ulteriori negli orari di ingresso per alleggerire la pressione sui mezzi pubblici.

In realtà sulle misure da applicare non c’è assoluta unanimità e tanto meno ce n’è a livello regionale; intanto però il presidente della Federazione degli Ordini dei medici, Filippo Anelli, pressa per “misure più restrittive”. E tutti indistintamente fanno appello, l’ennesimo appello, al “senso di responsabilità” dei cittadini.

C’è ovviamente chi di questo senso di responsabilità si fida meno, come il suddetto De Luca, che ieri ha categoricamente annunciato: “Sabato prossimo alle 22 si chiude tutto. E sarà il coprifuoco”. Evidentemente allergico a dolcetti e scherzetti, De Luca ha poi inveito particolarmente contro la festa di Halloween, definita “immane americanata” e “monumento all’imbecillità”; ma a parte il fatto che, se volessimo liberarci di tutte le “americanate” che ormai abbiamo introdotto nel nostro uso quotidiano, non sapremmo da dove cominciare, De Luca appare – come scrive il “Corriere” – “in evidente difficoltà”, dato che “si ritrova adesso sotto assedio, con il dilagare impetuoso dei contagi e un sistema sanitario che… appare già prossimo al collasso”.

In questa situazione confusa, in cui basta scorrere i “social” per assistere allo scontro frontale tra negazionisti irriducibili, traumatizzati timorosi e cittadini ossequiosi, in cui troppe cose continuano a non quadrare (valga su tutti l’esempio dei tanto decantati e sbandierati banchi monoposto delle scuole, di cui si sono perse le tracce totalmente), in cui chi governa ha paura sia di governare sia di non governare, in cui i partiti al governo (e soprattutto il Movimento degli Zainetti) si trovano a dover affrontare problemi immensamente più grandi della loro preparazione, delle loro aspettative e forse delle loro capacità, in cui i partiti all’opposizione soffiano sul fuoco dello scontento nella speranza di arraffare voti e consensi, che cosa possiamo fare?

Se si parla di coprifuoco, il nostro immaginario corre alle immagini del coprifuoco che abbiamo visto in molti film o in drammatici servizi giornalistici: quartieri e città blindati, controllati dall’esercito in tenuta antisommossa e con maschere di ossigeno, mitra spianati contro chi viola le regole, arresti e sanzioni ai trasgressori. Io in particolare ricordo le scene drammatiche del film “Missing” di Costa-Gavras (1982), che mostrava il coprifuoco nelle città cilene dopo il “golpe” di Pinochet del 1973, con le persone sparute e terrorizzate che correvano nelle strade tra le sventagliate di mitra dei soldati.

E allora, con in mente quelle immagini, con il ricordo dei tempi di guerra, ci prepariamo ad accettare anche questo provvedimento. Del resto, ormai siamo pronti a fare di tutto, perché di tutto ci è stato richiesto nell’emergenza contingente: possiamo procedere costantemente mascherati, rispettare minuziosamente le solite regole, allontanarci dagli altri a 2 metri di distanza e più; possiamo ancora una volta fare scelte drastiche di riduzione dei nostri margini di socialità, possiamo “fare i bravi” e annullare ogni tipo di festa privata (con buona pace di chi aveva programmato – perché gli si era detto che era possibile farlo – matrimoni con molti invitati, prime comunioni rinviate da maggio, feste di laurea… tutte cose oggi giudicate futili e banali da chi non vi è coinvolto, ma che per famiglie e strutture coinvolte significano soldi buttati al vento). E se possiamo fare questo, possiamo sicuramente accettare anche le eventuali misure di “coprifuoco”: questa con le altre…

E magari, nel frattempo, per consolarci, ripassiamo alcuni versi di una bella poesia di Italo Calvino, intitolata “Oltre il ponte”, in cui il poeta si rivolge ad una ragazza che rappresenta la nuova generazione, narrandole gli eventi degli anni tragici dell’occupazione militare tedesca:

“O ragazza dalle guance di pesca / o ragazza dalle guance d’aurora / io spero che a narrarti riesca / la mia vita all’età che tu hai ora. / Coprifuoco, la truppa tedesca / la città dominava, siam pronti: / chi non vuole chinare la testa / con noi prenda la strada dei monti. / Avevamo vent’anni e oltre il ponte / oltre il ponte ch’è in mano nemica / vedevam l’altra riva, la vita / tutto il bene del mondo oltre il ponte. / Tutto il male avevamo di fronte / tutto il bene avevamo nel cuore / a vent’anni la vita è oltre il ponte / oltre il fuoco comincia l’amore…”.

Speriamo di vederla finalmente “l’altra riva”, di passare presto oltre questo maledetto ponte, “oltre il ponte ch’è in mano nemica”, di traghettare al di là sani e salvi, per poter un giorno raccontare come siamo riusciti, ancora una volta, a cacciare l’invasore.

Di Mario Pintacuda

Nato a Genova il 2 marzo 1954. Ha frequentato il Liceo classico "Andrea D'Oria" e si è laureato in Lettere classiche con 110/110 e lode all'Università di Genova. Ha insegnato nei Licei dal 1979 al 2019. Ha pubblicato numerosi testi scolastici, adottati in tutto il territorio nazionale; svolge attività critica e saggistica. E' sposato con Silvana Ponte e ha un figlio, Andrea, nato a Palermo nel 2005.

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