Le bianche scogliere di Dover

Il film “Le bianche scogliere di Dover” (The White Cliffs of Dover) fu diretto nel 1944 dal regista americano Clarence Brown.

Era ambientato nel periodo 1915-1942 e narrava (in un lungo flash-back) la storia di un’infermiera americana, Susan Dunn (interpretata da Irene Dunne) che, durante una vacanza in Inghilterra in compagnia del padre, conosceva e sposava il baronetto John Ashwood (Alan Marshal). John era poi chiamato alle armi per la prima guerra mondiale e moriva al fronte; Susan decideva allora di restare in Inghilterra per prendersi cura del figlio John jr. (interpretato da Peter Lawford e prima, da ragazzo, da Roddy McDowall, che divenne poi famoso per la saga de “Il pianeta delle scimmie”). Allo scoppio della seconda guerra mondiale, John jr. non vuole tirarsi indietro; anche se la madre trema al pensiero di perderlo, il giovane insiste, perché suo padre non si sarebbe comportato diversamente. La conclusione è tragica: divenuta volontaria della Croce Rossa, Susan deve prendersi cura proprio di suo figlio, rimasto gravemente ferito durante il fallito sbarco a Dieppe nel 1942; non riesce però a salvarlo e resta sola e afflitta, consolata soltanto dall’idea che né suo marito né suo figlio sono morti invano.

Nel cast, in una particina minore (la piccola Betsy Kenney), c’era la dodicenne Elizabeth Taylor (che stava iniziando la sua splendida carriera come “bambina prodigio”): la piccola Liz interpretava il primo amore di John jr.

Il titolo del film derivava dalle splendide falesie di Dover, composte di gesso morbido e friabile, striato di selce nera, costituito da frammenti di conchiglie e antichi piccoli organismi marini. Queste scogliere, alte fino a 110 metri, si estendono per 16 km a est ed ovest di Dover, affacciandosi sul canale della Manica; da lì il continente europeo dista appena 33 km.

Le “white cliffs” sono state immortalate da poeti, cantanti e artisti di ogni parte del mondo e hanno dato il benvenuto a milioni di visitatori diretti in Inghilterra.

Una delle canzoni più popolari tra i soldati inglesi durante la seconda guerra mondiale era intitolata proprio “The White Cliffs of Dover” e preannunciava il momento in cui la guerra sarebbe finita: “There’ll be bluebirds over / the white cliffs of Dover / tomorrow. / Just you wait and see”.

E quasi dispiace che dal 1994 il tunnel della Manica, lungo oltre 50 km (di cui 39 sottomarini), colleghi ormai più velocemente e meno poeticamente l’Inghilterra e la Francia.

Io avevo visto il film di Brown (un po’ lungo ma molto suggestivo) in TV da ragazzo: sulla RAI spesso andavano in onda gloriosi film d’epoca (cosa che sarebbe improponibile nei palinsesti televisivi odierni). Anche grazie a questo film, fui indotto a documentarmi meglio sulle “bianche scogliere di Dover”, a conoscerne la storia e direi la mitologia.

Fui dunque ben felice di avvistarle di persona giovedì 10 luglio 1975, esattamente 46 anni fa, a bordo del traghetto Compiègne proveniente da Calais. Stavo facendo un bel viaggio in compagnia dei miei genitori e dei miei cugini Giovanna e Pietro, con la loro figlioletta Maria di quasi 4 anni. Quel giorno avevamo lasciato Parigi di buon mattino sulla Ford Capri guidata da Pietro; presa l’autostrada per Lille fino ad Arras, proseguimmo poi per Calais.

Ricordando i tempi biblici e problematici delle traghettate sullo stretto di Messina, temevo che ci attendesse una lunga attesa: invece, arrivati al porto di Calais, un concitato funzionario ci indirizzò perentoriamente verso un traghetto in partenza, gridando che l’imbarco avveniva “maintenant”, immediatamente. Ci fu appena il tempo di fare il biglietto (600 franchi, circa 97.000 lire di allora e quasi 100 euro di oggi, per 5 persone e un’auto); e subito ci imbarcammo sul Compiègne, lasciando la Francia.

La traversata durava circa un’ora e mezza. Soffiava un vento gelido e il sole sosteneva con esito dubbio e poca convinzione una lotta impari contro i giganteschi cumulonembi che coprivano il cielo.

10 luglio 1975 – da sinistra: io, la piccola Maria Maggiore e mio padre. Sullo sfondo le bianche scogliere di Dover.

Io fissavo il mare come Cristoforo Colombo dovette fissarlo la mattina del 12 ottobre 1492 (ma lui, in più, era preoccupato di essere buttato giù dal suo equipaggio che stava per ammutinarsi).

A un certo punto ricordo di avere visto emergere dal grigio dello sfondo una macchia bianca, dapprima sbiadita, poi improvvisamente rischiarata da un eroico raggio di sole sfuggito alla spietata mischia con le nuvole. La macchia divenne presto bianchissima, promanando sempre più nitida la sua luce bianca, lampo contraddittorio nell’orizzonte grigio che la circondava.

E apparvero presto nitidamente le falesie, millenarie sentinelle dell’isola di Albione.

Ci sono momenti della vita in cui qualcosa che vedi o che provi ti colpisce fortemente, tanto da restarti dentro per sempre, da fissarsi in modo indelebile nella tua memoria ma, ancor più, nella tua anima. Così avvenne a me in quel momento; e forse un’emozione analoga l’ho riprovata poi soltanto due anni fa, aggirandomi fra i grattacieli di Manhattan.

Le bianche scogliere di Dover sono da allora, per me, metafora potente di ogni “inizio”: arrivi in un luogo dove non sei stato mai e di cui hai sentito parlare tanto, vedi quello che ti aspettavi di vedere ma capisci che solo ora, ora che lo vedi con i tuoi occhi, dal vivo, diventa veramente tuo.

Le scogliere di Dover sono la porta luminosa spalancata sul percorso che stai per fare. Ti gridano silenziosamente “welcome” soltanto apparendoti davanti.

Sembra che aspettino te, che da loro promani lo stesso grido che gli dei rivolsero a Edipo nel bosco di Colono: “Su, Edipo, perché indugiamo ad avanzare? Da troppo tempo ti fai aspettare”. E in effetti le scogliere aspettano anche te, come hanno aspettato migliaia e migliaia di altre persone, di qualunque Paese, in ogni epoca della storia.

Vedi la loro luce bianca e ti senti pronto a sbarcare nell’isola sconosciuta: la vita è questa, è arrivo – sempre – da qualche altra parte, ricordando ciò che lasci alle spalle, ma sempre pronto a tuffarti nella nuova avventura che ti aspetta.

Sbarcammo a Dover alle 15,30 e dopo brevi formalità doganali prendemmo l’autostrada A 2 per Londra.

Pietro si mise al volante e uscimmo dal porto; ma era anche lui emozionato e distratto, per cui si mise a circolare a destra senza riflettere che in Inghilterra si tiene la sinistra; sicché, dopo la silenziosa, mitica e suggestiva accoglienza delle bianche scogliere, ci accolsero i bestemmioni e le invettive degli autisti britannici; ma avevano decisamente ragione…

Di Mario Pintacuda

Nato a Genova il 2 marzo 1954. Ha frequentato il Liceo classico "Andrea D'Oria" e si è laureato in Lettere classiche con 110/110 e lode all'Università di Genova. Ha insegnato nei Licei dal 1979 al 2019. Ha pubblicato numerosi testi scolastici, adottati in tutto il territorio nazionale; svolge attività critica e saggistica. E' sposato con Silvana Ponte e ha un figlio, Andrea, nato a Palermo nel 2005.

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