I telefoni di una volta

Questa foto dell’8 dicembre 1962, che mostra mia madre al telefono, può dare un’idea di quella che era l’arcaica e mitica realtà di quei tempi (che nel caso mio si prolungò per tutti gli anni della mia adolescenza e della mia giovinezza).

L’unico telefono di casa era appeso al muro nell’ingresso, accanto alla porta di casa. Alla sua destra, una rubrichetta coi numeri telefonici; nel tavolino sottostante, accanto alla macchina da scrivere Olivetti di mio padre, l’elenco del telefono.

Il concetto di privacy telefonica era inesistente. Quando squillava il telefono di casa, con uno squillo forte, unico e inconfondibile, tutti lo sentivano. Quando si rispondeva, tutti sentivano.

Quando ero al liceo, se telefonava qualche compagno o compagna di scuola, immancabilmente rispondeva mio padre o mia madre. La stessa prassi valeva per me se dovevo telefonare: si chiamava il numero e rispondevano immancabilmente i genitori della ragazza o del ragazzo e si diceva educatamente “Sono M.P., potrei parlare con X?”.

Un film del 1967, diretto dal regista Massimo Franciosa, era intitolato emblematicamente “Pronto… c’è una certa Giuliana per te”.

Non si diceva mai, al telefono, “Dove sei?”. Era ovvio che eravamo a casa. Esistevano le cabine telefoniche, che negli anni subirono varie evoluzioni, passando dai gettoni alle schede telefoniche; ma erano destinate alle emergenze, ai viaggi, a situazioni comunque anomale.

Se si doveva chiamare fuori dalla propria città, almeno fino all’invenzione della teleselezione (che in Italia fu attivata il 31 ottobre 1970), era necessario chiamare il centralino; rispondeva di solito una voce femminile, le si dava il numero che si voleva chiamare e si restava in attesa (a volte anche per mezzora e oltre) che la mitica comunicazione fosse attivata.

Le centraliniste della SIP negli anni ’60

Fra l’altro ricordo che, quando dopo lunga attesa (tanto più spasmodica quando ci si dovevano scambiare notizie urgenti) arrivava il fatidico squillo che metteva in comunicazione il Nord Italia con la lontanissima Sicilia, questo squillo era più prolungato del solito, “diverso”, come a sottolineare il viaggio infinito che quel difficilissimo contatto aveva richiesto.

Non a caso si usavano ancora le lettere, che noi scrivevamo da Genova ai parenti siciliani due volte a settimana (una destinata sempre ai parenti paterni e una a quelli materni); la posta era abbastanza regolare e si aveva la risposta entro 3-4 giorni. Per le comunicazioni urgenti si usavano i telegrammi, che venivano recapitati al più presto, in giornata.

Inutile dire che il telefono era telefono e basta; l’idea stessa che un telefono potesse fare foto, registrare audio, connettersi e interagire con altri, contenere quasi tutti i dati sensibili della nostra vita, era improponibile e impensabile.

Ricordo però che in tante occasioni, quando si andava in gita in più auto, e ci si perdeva immancabilmente al primo svincolo, si rimpiangeva che non esistesse un modo di comunicare agli altri dove si fosse finiti; e a volte solo al ritorno a casa, telefonandoci dal famigerato telefono fisso, si poteva sbottare e dire: “Ma dove eravate finiti?”.

Niente social, niente Internet, niente Facebook, niente Instagram, e chi più ne socializza più ne metta.

Questa era la situazione dei nostri tempi paleolitici. Che aveva i suoi vantaggi, come si è visto, evitandoci dipendenze e paturnie “da telefonino”, ma che mi guarderei bene dal mitizzare più di tanto, perché il progresso è progresso anche quando pare regresso e semmai sta agli uomini non trasformare l’uno nell’altro.

Io acquistai il mio primo telefonino cellulare (in realtà enorme, simile a un attuale telecomando televisivo) nel 1993; le prime vendite di “cellulari” risalivano in Italia al 1990, allorché, alla vigilia del Mondiale di calcio delle “Notti magiche”, Italtel li mise in vendita (il primo modello si chiamava “Rondine” e pesava circa mezzo chilo). E comunque quell’ingombrantissimo oggetto, che non si sapeva dove mettere (in questo era simile ad altre ingombrantissime dotazioni di quell’epoca, ad es. gli “stereo” che si staccavano dalle macchine per non farli rubare), era un telefono e basta: si telefonava da fuori (e questo sembrava un miracolo), ma non si poteva fare nient’altro che questo.

Telefono di epoca paleolitica

Insomma, ne è passata di acqua sotto i ponti.

Ma oggi, rivedendo quella foto di mia madre che risponde un po’ perplessa al telefono di casa, provo una sottile punta di malinconia, inevitabile in soggetti vetusti come me, al pensiero non solo di come il tempo passi, le cose cambino, gli oggetti si trasformino, ma anche e soprattutto di come nell’arco di una semplice vita umana si sia modificato il dna stesso del nostro esistere, siano cambiati i ritmi, le consuetudini e i rituali.

“Fugit irreparabile tempus”, veramente: e meno male che ci sono i ricordi a farci percepire chiaramente quello che eravamo, quello che siamo, quello che ancora potremo essere.

Ora però vi lascio: devo consultare il mio telefonino per vedere le mail, per consultare le app preferite, per sapere che si dice su Facebook, ecc. ecc. ecc. E che diamine: il progresso è progresso.

POST SCRIPTUM – “Molto che noi ignoriamo sarà conosciuto dalla gente dell’evo futuro; molto è riservato a generazioni ancora più lontane da noi nel tempo, quando di noi anche la memoria si sarà cancellata. […] La natura non svela il suo mistero tutto in una volta. Noi ci crediamo degli iniziati e invece siamo ancora nel vestibolo della natura” (Seneca, “Naturales quaestiones”, VII 30, 5).

Di Mario Pintacuda

Nato a Genova il 2 marzo 1954. Ha frequentato il Liceo classico "Andrea D'Oria" e si è laureato in Lettere classiche con 110/110 e lode all'Università di Genova. Ha insegnato nei Licei dal 1979 al 2019. Ha pubblicato numerosi testi scolastici, adottati in tutto il territorio nazionale; svolge attività critica e saggistica. E' sposato con Silvana Ponte e ha un figlio, Andrea, nato a Palermo nel 2005.

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