Pochi minuti fa, al panificio, prima di me doveva pagare una signora anziana (intendo “più anziana di me”). Nel ricevere il resto, lo contava e lo ricontava, perplessa, osservando le monete a una a una (forse nella mente ripensava ancora alle vecchie lire che hanno accompagnato la maggior parte della sua esistenza); la cassiera paziente le faceva notare che il resto era giusto, ma lei diffidava, dubitava, ricontava.
Mentre i controlli erano ancora in corso, mi sono intrufolato e ho pagato 2 euro e 60 di pane; quando sono andato via, la discussione continuava.
La signora era anziana, ma sicuramente non aveva 85 anni come Silvio Berlusconi. Pensavo che se la mandassero al Quirinale, forse passerebbe metà del suo tempo a rifare i conti, senza farli quadrare mai. E questo mi ha fatto fare diverse considerazioni, che sintetizzo qui di seguito.
Quasi tre anni fa, quando avevo 65 anni, lo Stato mi ha messo in pensione d’ufficio perché insegnavo da quarant’anni e avevo maturato il massimo livello contributivo.
Io alla pensione non ci avevo pensato mai (diversamente da tanti miei colleghi che la vagheggiavano ogni giorno e l’aspettavano con ansia, fra “quote cento” e “scivoli”). L’anno prima, invitato ad andare al provveditorato a informarmi sulla mia situazione, mi era stato detto (in dialetto) dall’impiegato: “Ma lei ancuora ccà è?” (“Ma lei è ancora qui?”); infatti avrei potuto già chiedere l’anno precedente di andare in pensione
Dunque, dal 1° settembre 2019 sono stato messo a riposo. E dire che avevo ancora tante idee, tanti progetti, tante attività da realizzare. E dire che non mi sentivo stanco né stufo né – come si dice qui – sufficientemente “disfizziato” (malgrado la scuola italiana dia migliaia di motivi agli insegnanti per essere stanchi, stufi e “disfizziati”).
Ma, “obtorto collo”, tolsi il disturbo e da allora sono qui a casa, dove continuo a lavorare (forse più di prima) coltivando altri miei interessi. Per lo Stato, però, che ho fedelmente servito per decenni, ormai sono un defunto mantenuto con un assegno mensile.
Forse è giusto così: del resto, una famiglia affiderebbe oggi un’alunna o un alunno a un vecchio docente quasi settantenne? O sarebbe pronta al primo inconveniente a dargli dello stolido e del retrogrado? Forse è meglio così. Forse.
Ah se invece fossi stato un politico!
Silvio Berlusconi è nato il 29 settembre 1936, quindi ha 85 anni suonati, quasi 86; nella surreale ipotesi che sia eletto presidente (ma esisteva una serie intitolata “Ai confini della realtà”, ove l’impossibile diventava realizzabile), alla fine del suo mandato avrebbe 93 anni.
Beati i politici, anche per la loro presunzione di eternità!!
Noi “vicchiareddi” contiamo giornalmente i nostri acciacchi, facciamo il bilancino del colesterolo buono e dei cibi da evitare, riduciamo le attività che non sono più adatte alla nostra età. Loro no. Loro sono sempre in gamba: e se finiscono all’ospedale (magari in occasione di qualche processo che – mischinazzi – li fa stare male), si riprendono poi alla grande e totalmente, tanto da poter sperare e credere di poter campare cent’anni. La Regina Elisabetta docet: God save the queen.
Ma, nel caso che il “giovane” Berlusconi (“opzione irricevibile e improponibile” non solo per l’ex leader Conte ma per un’enorme fetta di elettori) fallisca, quali altri nomi emergono fra gli esponenti del centro-destra?
Il fido collaboratore del Cavaliere, Gianni Letta, è ancora più anziano di lui: è nato il 15 aprile 1935. Un altro vecchietto di ferro, dunque, che peraltro ieri mattina se n’è andato di sua iniziativa a Palazzo Chigi a parlare con Mario Draghi (di che? del suo principale? di Draghi stesso da proporre per il Quirinale? o di se stesso?).
Un “picciotteddu” è, al confronto, il quasi settantanovenne Marcello Pera (28 gennaio 1943), un altro dei possibili piani B del centro-destra, evocato come “figura istituzionale” (ma evidentemente hanno dimenticato che nel 1994 Pera dichiarò: “Berlusconi è a metà strada tra un cabarettista azzimato e un venditore televisivo di stoviglie, una roba che avrebbe ispirato e angosciato il povero Fellini”).
Non mancano altri nomi di “baldi giovani” aspiranti al Quirinale, ad esempio Letizia Moratti, l’unica donna in Italia che preferisce il nome del defunto marito al suo (si chiama Letizia Maria Brichetto Arnaboldi): ha appena 72 anni essendo nata il 26 novembre 1949.
E 75 anni ha Maria Elisabetta Alberti Casellati, la presidente del Senato.
Comunque sia, mentre ieri a Villa Grande a Roma sull’Appia antica, nella lussuosa residenza di Berlusconi, il centro-destra si riuniva davanti a un ricco menu (parmigiana, branzino al forno e calamari alla griglia) per decidere (o dare l’impressione di decidere) la candidatura di Berlusconi, sulla sponda opposta il centro-sinistra (ammesso che ancora esista) è in stand-by: e nel silenzio attuale (che nasconde l’evidenza di non saper cavare un ragno dal buco) fra i papabili di centro-sinistra qualcuno ancora propone un ragazzino di nome Giuliano Amato (83 anni).
Potrei qui fare altri nomi di “giovincelli” del genere, più o meno insigni, che potrebbero aspirare al Quirinale; e sembra quasi certo che, da tanto fermento propositivo, verrà fuori comunque un presidente attempato quanto basta. Non l’ottantenne Sergio Mattarella, però, che anche ieri, salutando i giornalisti “quirinalisti”, non ha mancato di rimarcare: “Sono sicuro che da parte vostra anche con il mio successore ci sarà la stessa professionalità”. “Intelligenti pauca”: è inutile tirare per la giacchetta una persona che ha già dato all’Italia tutto quello che poteva nel modo migliore e che già tante volte ha garbatamente chiarito di volersi far da parte. E sarebbe raggelante, per un Paese, credere che non esista nessun altro che possa aspirare di prendere dignitosamente il suo posto.
Rassegnandoci dunque all’ipotesi di un presidente attempato, sembra utile ricordare le parole del “De senectute” (“La vecchiaia”) di Cicerone: “io lodo quella vecchiezza che sta salda sui fondamenti posti nella giovinezza. Di qui risulta quel che io dissi con grande consenso di tutti, cioè che è miserabile quella vecchiezza che si debba difendere con le parole” (“miseram esse senectutem quae se oratione defenderet”, cap. 62). In altre parole, il solo fatto che di un uomo anziano si debbano cercare delle difese più o meno impossibili, per malefatte veniali o gravi che siano, lo rende “impresentabile”, indifendibile, improponibile.
Il che condurrebbe a escludere a priori certe candidature, e “in primis” quella di Berlusconi. E ciò anche se Manfred Weber, capogruppo del Partito Popolare europeo, dichiara al “Corriere della Sera” che Berlusconi “è un leader forte” e invita a lasciargli “l’opportunità di mostrare che è pronto a unire”.
Altro che “unire”: l’ostinata candidatura del Cavaliere spaccherebbe ulteriormente un’Italia già lacerata dalle polemiche sulla gestione della pandemia, rafforzerebbe gli odi e le divisioni, innesterebbe un clima pericoloso (proteste di piazza incluse e inevitabili). E però ipotizzerei che alla sua candidatura sarà pronto realisticamente a rinunciare, quando vedrà che (nonostante le telefonate “porta a porta” del suo galoppino Vittorio Sgarbi) i voti per essere eletto gli verranno a mancare. Salvo assumersi, poi, i meriti di un “kingmaker” salvatore della patria, che incoroni Mario Draghi e “blindi” con un premier di sua fiducia la conclusione della legislatura.
Un’ultima considerazione. In America Ted Kennedy fu “bruciato” per sempre dallo scandalo di Chappaquiddick, in Massachusetts, nel 1969, allorché in un incidente d’auto provocò la morte di Mary Jo Kopechne, sua giovane assistente e amante. Il puritanesimo americano non gli perdonò di avere mentito e di essere stato un adultero.
In Italia invece i bunga-bunga, le notti brave, le olgettine, i conflitti di interesse, le leggi “ad personam”, i processi, ecc. ecc. sono dei titoli di merito; e molte persone considerano queste cose più con invidia che con scandalo.
Non c’è da meravigliarsi di niente, in questo Paese.
Forse sarebbe bene mandare in pensione d’ufficio, come è capitato a me, tutti quelli che hanno raggiunto i limiti d’età e, nel bene o nel male, “hanno già dato”.
Largo ai giovani! Magari anche al Quirinale.
E magari un giorno cambierà così il primo comma dell’art. 84 della Costituzione: “Può essere eletto Presidente della Repubblica ogni cittadino che abbia compiuto trenta anni d’età e goda dei diritti civili e politici”.
Se si fa presto, potrebbe trarne vantaggio il trentacinquenne Luigi Di Maio: almeno per la prima volta al Quirinale si salirebbe con lo zainetto sulle spalle.