“Di luglio” di Giuseppe Ungaretti

«Quando su ci si butta lei,

si fa d’un triste colore di rosa

il bel fogliame.

Strugge forre, beve fiumi,

macina scogli, splende,

È furia che s’ostina, è l’implacabile,

sparge spazio, acceca mete,

È l’estate e nei secoli

con i suoi occhi calcinanti

va della terra spogliando lo scheletro».

La poesia “Di luglio” di Giuseppe Ungaretti fu composta nel 1931 e inserita in “La fine di Crono”, una sezione della raccolta “Sentimento del tempo”.

Sembra composta oggi, ai tempi del dominio incontrastato del rovente anticiclone africano.

Il poeta non ha neanche bisogno di nominarla, l’estate: è, per antonomasia, “lei”: un’entità travolgente, che “ci si butta” addosso, che inaridisce e dissecca “il bel fogliame”, dipingendolo con “un triste colore di rosa”.

L’azione di questa spietata potenza è inesorabile ed incalzante: sgretola fossati, dirupi e burroni, “beve” i fiumi prosciugandoli (il Po e gli altri fiumi italiani oggi ne sanno qualcosa…), sgretola gli scogli, brilla di luce accecante in uno “splendore” che non ha niente di gradevole.

È una “furia che s’ostina” (quante settimane durano, oggi, le ondate di calore?), non ha pietà (“è l’implacabile”), si estende dappertutto dilatando gli spazi che invade, impedisce una chiara visione delle cose (“acceca mete”) seminando miraggi e abbagli.

Finalmente, negli ultimi tre versi, la crudele entità viene identificata: “È l’estate”, l’estate che ritorna, inesorabile, “nei secoli”, con i suoi occhi arroventati (“calcinanti”, con un uso preciso del verbo “calcinare” che significa “cuocere ad alte temperature le pietre calcaree per ricavarne la calce”); e riduce la terra a “scheletro”, scarnificandola, prosciugandola, estirpandone ogni traccia vitale.

Uno scenario cupo, devastante, quasi apocalittico o postnucleare, perfettamente reso da un lessico fortemente espressivo e dall’incalzante sequela dei predicati verbali che elencano le azioni distruttive dell’estate (“strugge, beve, macina, splende, s’ostina, sparge, acceca”). L’estate è “personificata”, diventa una creatura viva, dotata di tratti caratteriali e persino somatici (come gli “occhi calcinanti”), assumendo fattezze antropomorfiche ma deformate, dilatate all’estremo oltre l’immaginabile.

I critici hanno scorto in questi versi una patina barocca, per l’enfasi descrittiva e l’accumulo di dati fortemente patetici. Forse il contesto romano avrà influito sul poeta: e dal barocco Ungaretti attinge il sentimento del divenire (nella continua metamorfosi del reale), il senso della dissoluzione e della vanità universale, potentemente espresso prima dal trascolorare delle foglie, dalla luce abbagliante, dal suolo arroventato e infine dall’immagine topica dello scheletro.

Insomma, una poesia da rileggere oggi, 1° luglio, magari con l’augurio che il quadro descritto dal poeta venga presto smentito da qualche (per ora improbabile) rinfrescata salutare.

P.S. n.1: Lo so, lo so che ci sono quelli che amano il caldo, che in inverno tremano appena il termometro scende a 10°, che si coprono come eschimesi ai primi freddi (ammesso che mai arrivino a queste latitudini meridionali…), che gioiscono anche in giornate come quella odierna (con una temperatura minima della notte, qui al centro di Palermo, di 27°).

Ma per me l’estate è ormai davvero “ungarettiana”: una furia rovente, spietata e accecante, che onnubila le menti, prosciuga le energie ed impone il suo bieco dominio assolutista (salvo poi a concedere la costituzione, come diceva Tomasi di Lampedusa, nel mese di ottobre: il “sole costituzionale”…).

P.S. n. 2: Di questi tempi mi tornano anche in mente, immancabilmente, i versi sull’estate composti dall’antico poeta Alceo di Mitilene (che a sua volta si ispirava a un passo di Esiodo di Ascra, “Opere e giorni” vv. 582-596): «Innafffia i polmoni di vino: infatti l’astro compie il suo giro. / La stagione (è) pesante, tutte le cose hanno sete per la calura. / Canta dalle foglie dolcemente la cicala / e fiorisce il cardo. / Ora le donne sono molto vogliose e gli uomini spossati, / poiché Sirio dissecca la testa e le ginocchia» (fr. 347 V.). [Sirio è la stella più splendente della costellazione del Cane Maggiore, che sorge e tramonta con il sole dal 24 luglio al 26 agosto, appunto nel periodo della “canìcola”, da “stella Canicŭla”].

Di Mario Pintacuda

Nato a Genova il 2 marzo 1954. Ha frequentato il Liceo classico "Andrea D'Oria" e si è laureato in Lettere classiche con 110/110 e lode all'Università di Genova. Ha insegnato nei Licei dal 1979 al 2019. Ha pubblicato numerosi testi scolastici, adottati in tutto il territorio nazionale; svolge attività critica e saggistica. E' sposato con Silvana Ponte e ha un figlio, Andrea, nato a Palermo nel 2005.

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