A proposito di primarie in Sicilia

Mentre il centro-destra sbandiera la sua “compattezza” (a prescindere dalle divisioni fra “centro-destra di governo” e “centro-destra di opposizione”, dalle continue defezioni da Forza Italia e dai dissidi minimizzati all’interno della Lega) e pregusta il successo elettorale (dicendo gatto senza averlo ancora nel sacco), sul fronte opposto lo scenario è assolutamente caotico.

Enrico Letta dichiara (finalmente!) la decisione di tracciare una netta linea di confine tra PD e Movimento (o Movimenti?) degli Zainetti. Come si legge oggi su “Repubblica” in un articolo di Stefano Cappellini, «gli elettori non capirebbero un PD che chiede un mandato per governare il Paese andando a braccetto con una forza che ha appena accusato di “aver tradito il Paese”. Nemmeno la chiamata alle urne contro il pericolo delle destre sovraniste e putiniane può giustificare un dietrofront».

Quanto all’ex alleato Giuseppe Conte, preferisce “lasciar sbollire” l’ira funesta dei DEM («è comprensibile che siano arrabbiati») e interrompe le comunicazioni con Letta.

Questo, a Roma. Ma intanto qui in Sicilia domani si vota per le primarie indette da PD, Movimento 5 Stelle e sinistra radicale per la scelta del candidato alla Presidenza della Regione. E, come si legge su oggi “Repubblica/Palermo” in un articolo di Sebastiano Messina, quella che era stata «progettata come la grande festa democratica in cui si sarebbero fusi gli elettori dei tre partiti non di una città ma di un’intera regione, è diventata lo scoglio sul quale la nave Campo Largo può affondare subito dopo il varo».

Il clima è irrespirabile: «il PD non si fida dei cinquestelle, la sinistra-sinistra non si fida del PD, i cinquestelle non si fidano della sinistra-sinistra»; con queste premesse i tre candidati arrivati alla sfida finale (Caterina Chinnici per il PD, Claudio Fava per la sinistra radicale e Barbara Floridia per il Movimento degli Zainetti) si fronteggeranno in una consultazione le cui stesse modalità sono state oggetto di discussione: «il PD voleva i gazebo, i grillini pretendevano il voto online, alla fine si sono accordati su un ibrido che li permette entrambi, ma su prenotazione. Il risultato è che ieri sera si erano registrati quasi 40mila elettori: nove su dieci hanno scelto il voto online. Si capisce la preoccupazione del PD, che un mese fa alle primarie di Enna per due posti in lista ha portato ai gazebo 16mila cittadini, e oggi scopre che a Corleone sono solo in tre a chiedere il voto in presenza, e che in tutta la Sicilia saranno allestiti solo una trentina di seggi con le schede cartacee. Si capisce anche che i grillini siano invece molto ottimisti, perché del voto online loro conoscono bene tutti i segreti».

In questo clima, non meraviglia che vengano fuori esternazioni preventive, come quella di Nuccio Di Paola, referente regionale grillino, che mette le mani avanti: «Il PD dica ora se vuole rompere o meno, senza aspettare il risultato delle primarie» (il che, come decifra giustamente Messina nel suo articolo, equivale a un implicito messaggio: «Non è che se vincete voi le primarie sono valide, e se invece vinciamo noi si annulla tutto»).

Sembrano certe schermaglie fra “picciriddi” quando stabiliscono le regole prima di iniziare a giocare…

Non sarebbe male che i tre candidati di questa strana pseudo-alleanza fra sinistra-sinistra, sinistra-non sinistra e populismo-sovranismo si sedessero (anzi, si fossero già seduti) a uno stesso tavolo per discutere francamente e per dirsi in faccia che cosa li unisce e che cosa li divide. Infatti, come si può chiedere agli elettori di votare per una verità una e trina, per una coalizione che fa acqua prima ancora di salpare, per un accordo fra forze che a livello nazionale hanno fatto e fanno scelte così diverse?

A chi giova, soprattutto? A ottenere “più voti”? Ma davvero questa aspettativa è attendibile?

Vedremo cosa succederà, ma non sono questi gli scenari che possono fermare l’ascesa di Giorgia Meloni verso la presidenza del consiglio (scenario molto verosimile perché, come osserva Debora Serracchiani su “Repubblica”, «Berlusconi ha consegnato Forza Italia alla Lega e Salvini ha consegnato sé stesso e Berlusconi a Giorgia Meloni che ora è il loro capo»).

Quello che, forse, dovrebbe fare il Partito Democratico è chiarirsi bene le idee sulla propria identità (ammesso che mai ne abbia avuta una). Le recenti elezioni amministrative hanno dimostrato che, al di là dell’onestà intellettuale e delle buone intenzioni di molti candidati del “centro-sinistra” (ammesso che lo si possa definire così), la gente non ha recepito certi messaggi e ha votato in senso opposto.

Perché? Perché la gente, soprattutto nelle regioni economicamente più problematiche del Paese, capisce solo cose semplici e immediate (qui in Sicilia, ad es., il “reddito di cittadinanza” riguarda 625.000 persone), vuole che le si parli un linguaggio comprensibile e concreto, crede poco in promesse a lungo termine che non comprende. Non a caso fanno presa i facili slogan populisti; e non a torto lo scrittore Antonio Scurati scrive così oggi su “Repubblica”: «Il populismo si alimenta delle cosiddette “passioni tristi”: rabbia, delusione, sconforto, risentimento, soprattutto paura. La caratteristica della leadership populista, che fu inventata da Benito Mussolini, è di non avere idee, principi, strategie proprie ma di valersi della supremazia tattica del vuoto, di essere come un vaso che si riempie dei malumori dell’elettorato, li fiuta, li asseconda, li alimenta, soffia su di essi. Non li precede, semmai li segue».

Proprio così: è il rovesciamento della politica; non sono i politici a proporre soluzioni e idee, ma sono invece “tabula rasa” e pronti a ricevere dagli umori della massa indicazioni e direttive. Finché non si spezzerà questo meccanismo perverso, parlando alla gente in modo chiaro, onesto, univoco, mai contraddittorio, ascoltandola ma non adulandola, affrontandone i problemi reali, proponendo soluzioni non umorali, saranno sempre le false sirene del populismo a prevalere su ogni volontà di reale progresso civile.

Un’ultima considerazione: il “centro-destra compatto” sarà presto chiamato alla prova dei fatti. La futura leader “in pectore”, dopo aver esaurito finalmente il suo monolitico repertorio (“Elezioni subito”), dovrà ora proporre programmi e idee, dovrà indicare personalità autorevoli adeguate alle più alte responsabilità, dovrà coordinarsi con i suoi alleati (o sudditi), dovrà spiegare al popolo (abituato ai sussidi assistenzialistici come soluzione alla mancanza di soluzioni) come intende creare nuovi posti di lavoro, come ipotizza di gestire una società sempre più multirazziale e sempre più multiculturale (alla faccia dei rinnovati proclami di Salvini contro gli immigrati, solito e unico capro espiatorio dei problemi italiani). Dovrà dire come intende conciliare il garantismo berlusconiano con il tradizionale giustizialismo conservatore, che cosa pensa di pari opportunità, diritti delle minoranze, tutela delle diversità, rispetto del pensiero divergente. Tutte cose che dovrà essere dimostrate sul campo, ammesso che davvero le arrida un successo che in realtà non sarebbe ancora matematico e scontato se soltanto esistessero dei leader politici di livello adeguato a un’emergenza nazionale come quella attuale.

P.S.: Mi accorgo di non aver nominato Mario Draghi, cui dedico un corollario conclusivo. Leggo che Draghi ieri «nel suo breve congedo alla Camera, tra gli applausi si commuove, depone per un momento la sua corazza algida. Per alcuni secondi è un uomo disarmato».

Forse, per risultare meno lontani dalla gente comune, bisogna anche commuoversi, fare vedere che si ha un cuore, non celare le proprie debolezze.

Forse il presidente dello strano “governo-minestrone”, che verosimilmente non si era mai reso conto di quanto certi minestroni possano risultare indigesti, avrà ora modo di riflettere su alcuni elementi emersi negli ultimi giorni.

E chissà se, ripensando ai numerosi appelli che gli erano giunti per indurlo a restare al governo, avrà constatato con sorpresa l’esistenza di un popolo a cui, da austero vecchio banchiere burocrate, non aveva mai sognato di rivolgersi direttamente per fargli capire semplicemente che cosa stesse facendo e che cosa si dovesse fare.

“Whatever it takes” non è mai stato tradotto in italiano; che ci sarebbe voluto a farlo capire al popolo italiano?

Di Mario Pintacuda

Nato a Genova il 2 marzo 1954. Ha frequentato il Liceo classico "Andrea D'Oria" e si è laureato in Lettere classiche con 110/110 e lode all'Università di Genova. Ha insegnato nei Licei dal 1979 al 2019. Ha pubblicato numerosi testi scolastici, adottati in tutto il territorio nazionale; svolge attività critica e saggistica. E' sposato con Silvana Ponte e ha un figlio, Andrea, nato a Palermo nel 2005.

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