Draghi senza Draghi?

Come riferisce l’agenzia ANSA, ieri all’Interporto di Nola il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, ha dichiarato: «Al di là dei nomi quello che si sta delineando è un’area di unità nazionale che si contrappone sicuramente a Conte e a Salvini ma anche a una destra che ha scommesso per far cadere questo Governo».

Dunque, in vista delle elezioni del 25 settembre, in contrapposizione al centro-destra Di Maio ipotizza un’ampia coalizione “di unità nazionale”.

Si pone però anzitutto un problema lessicale: come si può chiamare “unità nazionale” una coalizione che tenga fuori lo schieramento avversario che, secondo uno dei sondaggi dell’altro ieri, sembrerebbe contare in questo momento sul 48% dei consensi (23,5% Fratelli d’Italia, 14,6% Lega, 10,6% Forza Italia)?

In altre parole, si avrebbe l’“unità nazionale” di una parte della nazione contro la metà della nazione stessa: e questo, oltre che una contraddizione terminologica, è per lo meno strano, perché si capisce l’intenzione di ripartire dall’esperienza del governo Draghi (quello sì di “unità nazionale” perché – da buon minestrone – assemblava tutte le forze politiche tranne Fratelli d’Italia), ma con un equivoco di partenza, che emerge da una semplice domanda di Matteo Pucciarelli nella sua intervista odierna a Di Maio su “Repubblica”: «Non è però una debolezza andare al voto con l’agenda Draghi quando poi lo stesso presidente del Consiglio non fa parte di questo campo?».

Insomma: riesumare l’“unità nazionale” di Draghi senza unità nazionale e senza Draghi non è una contraddizione insanabile?

Di Maio lo nega, rivendicando anzi la “spersonalizzazione” dell’esperienza di Draghi: «Direi il contrario, perché si mettono al centro gli obiettivi, i temi e un metodo di lavoro, non la singola persona, l’individualismo. Inseguire il merito delle riforme per migliorare la vita delle persone paga sempre. Il risultato del 25 settembre non è deciso, è tutto aperto».

Resta però il dubbio che, inseguendo la chimera di un “Draghi bis senza Draghi”, si rischi di impantanarsi in un sogno poco concreto, facendo così un ulteriore favore alla coalizione avversaria.

Le parole di Di Maio trovano un eco in quelle del ministro dei Beni culturali Dario Franceschini, che parlando del futuro del PD al “Corriere della Sera” ha detto che «le prossime elezioni saranno sostanzialmente una sfida tra chi ha difeso Draghi e chi invece ha buttato tutto a mare. […] Da una parte gli europeisti e i riformisti che hanno sostenuto l’esperienza del governo Draghi e l’avrebbero continuata, dall’altra parte i sovranisti, gli antieuropeisti, il centrodestra senza più centro, perché il partito di Berlusconi è evaporato».

Franceschini appare almeno più prudente e realistico, non evocando “unità nazionali” improponibili o contraddittorie e segnando invece più realisticamente il campo reale dello scontro elettorale.

Il problema sarà assemblare queste forze, in questo momento tutt’altro che unite e concordi.

Commentando il mio post di ieri, il mio caro collega Roberto Picone rifletteva così: «Credo che – per evitare un successo a mani basse delle destre – l’unica speranza stia nel creare un nuovo “Ulivo” che non si chiami più centro-sinistra o PD ma raccolga il meglio della politica progressista, liberale e cattolica fondato sulla competenza e sul rifiuto del qualunquismo di Lega, FI e FDI. Il tempo è poco, ma la strada da percorrere è solo questa. Nella speranza che Draghi voglia riprendere il timone di questa barca nella tempesta».

Credo che sia una proposta ragionevole, anche se sul ritorno del “timoniere” Draghi avrei molti dubbi e qualche riserva. Comunque di questo si tratta: di trovare al più presto un accordo che crei una coalizione alternativa al centro-destra e che riesca a contrapporsi ad esso con qualche speranza di successo. Ma sarà possibile realizzarlo con queste premesse e in questo breve tempo?

Vedremo. Nel frattempo però c’è il rischio che, mentre a Roma si discute, Sagunto venga espugnata con allettanti prospettive (“se potessi avere mille euro al mese”), roboanti proposte ecologiche (il milione di alberi da piantare, che sono comunque assai meno di quelli già previsti nel PNRR e negli impegni del G20), obiettivi demagogico-xenofobi (come ha annunciato Salvini dalla sua sagrestia: “tornare a difendere i confini italiani”, non dai russi ma dai migranti del Terzo Mondo) e via promettendo.

Contro il canto seducente delle sirene occorrerebbe al più presto approntare tappi di cera, che chiudano le orecchie alle facili seduzioni e aprano gli occhi a scelte più costruttive e razionali.

Di Mario Pintacuda

Nato a Genova il 2 marzo 1954. Ha frequentato il Liceo classico "Andrea D'Oria" e si è laureato in Lettere classiche con 110/110 e lode all'Università di Genova. Ha insegnato nei Licei dal 1979 al 2019. Ha pubblicato numerosi testi scolastici, adottati in tutto il territorio nazionale; svolge attività critica e saggistica. E' sposato con Silvana Ponte e ha un figlio, Andrea, nato a Palermo nel 2005.

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