Nella lontana era del pleistocene inferiore, vale a dire quando io ero ragazzo, si usava moltissimo inviare cartoline dai luoghi di vacanza.
Nell’assoluta impossibilità di condividere in tempo reale, come ora, le proprie sensazioni di viaggio (con l’invio sovrabbondante di selfie e orribili video “verticali” con le sbarre nere ai lati), quando si arrivava nell’agognata meta di una gita, di un viaggio o di un soggiorno estivo, subito si andava in una cartoleria e si compravano le cartoline e i relativi francobolli; poi, nelle pause in albergo o nella casa di villeggiatura, si scrivevano le poche righe consentite dallo spazio a disposizione, corredate da sintetiche note di viaggio e da più o meno burocratici “saluti e baci affettuosi”.
Quando qualcuno partiva, gli si chiedeva espressamente: “Mandami una cartolina!”. Non a caso la “cantantessa” catanese Carmen Consoli, quando nel 2009 perse suo padre Giuseppe, gli dedicò una bella canzone intitolata “Mandaci una cartolina”: “Mandaci una cartolina e una ridente foto di te / che prendi il sole sulla spiaggia / con la solita camicia bianca / ed il giornale aperto sulla pagina sportiva / mentre stai sul bagnasciuga / beato tra le braccia di un tramonto”.
Esistevano anche le “cartoline postali” (cartoncini leggeri di forma rettangolare senza illustrazioni e fotografie) che consentivano di scrivere di più (ovviamente senza alcuna garanzia di privacy perché non erano racchiuse in una busta).
Sicuramente, a differenza dei messaggini che sforniamo oggi in quantità esponenziale, la cartolina testimoniava un’attenzione maggiore nei confronti del destinatario: veniva comprata apposta (francobolli compresi), veniva scelta fra tante altre, spesso in funzione dei gusti e delle passioni della persona cui era inviata, richiedeva la conoscenza del suo indirizzo (che a volte era diligentemente annotato in un’agendina portata al seguito), presupponeva un certo tempo per “pensarla” e scriverla, imponeva infine una ricerca più o meno fortunata di una cassetta per le lettere. Chi riuscirebbe, oggi, a percorrere tutte queste faticose tappe pur di inviare un pensiero a una persona cara?
Quante cartoline (illustrate e postali) conservo nel mio immenso archivio! Ne ho qui davanti tantissime, che coprono quasi un secolo di storia familiare e provengono dalle più disparate zone d’Italia o estere.
Ci sono cartoline inviate dai miei genitori, ingiallite dal tempo e con affrancature a prezzi d’altri tempi (nel 1951 si pagavano 8 lire) e con francobolli che farebbero la gioia dei collezionisti; c’è una mia cartolina scritta il 13 settembre 1978 da Orvieto e mandata ai miei zii con tanti “saluti e baci… annajati” (stavo infatti iniziando la “naja”, il servizio militare, in qualità di bersagliere); c’è una mia cartolina a Silvana inviata da Lercara (dove insegnavo), con la facile battuta dialettale “Saluti càvuri da Lercara Friddi”; c’è una mia auto-cartolina del 1984, nella quale (durante il viaggio di nozze) mi inviavo “affettuosi saluti dal Moulin Rouge” (non mancavo di aggiungere un “Egr. Prof.” prima del nome del destinatario); ci sono cartoline mandate da alunne ed alunni; non mancano cartoline variamente commemorative (l’Euroflora di Genova del 1971, il papa Giovanni Paolo I, la prima cartolina mandata da mio figlio Andrea alla nonna, scritta con un’incerta e grossa grafia sperimentale).
Mentre le vado scartabellando, mi colpiscono in particolare tre cartoline che mi strappano per vari motivi un sorriso.
1) C’è una cartolina che il 17 giugno 1951 mia madre mandò a mio padre da Pompei; lei e mio padre, allora, erano fidanzati e distanti: lui insegnava al conservatorio “Paganini” di Genova, mentre lei insegnava Matematica nella provincia di Benevento. Il testo della cartolina è piuttosto laconico («Dal refettorio della casa del Pellegrino ti giungano cari saluti”) e subito seguito dalle firme delle cinque partecipanti alla gita (fra cui mia madre, che per iscritto si firmava “Pina” nel vano tentativo di contrastare il soprannome con cui fu sempre chiamata, cioè “Pupetta”).
All’estrema sintesi della cartolina illustrata si contrappone il diverso tono di una lettera (che è conservata accanto) mandata l’indomani da “Pupetta” allo “zito” lontano, in cui si legge il resoconto dettagliato di quella bella gita: il viaggio d’andata (da Benevento a Pompei) molto divertente (“Il viaggio è stato bellissimo, le ragazze cantavano, Cinzia suonava la fisarmonica”), la visita del santuario (“il campanile altissimo da far girare la testa, a me niente; siamo scese a piedi e non ti so dire le risate perché non si finiva mai di scendere e sembrava di essere sempre in alto”), l’esaltante tappa a Sorrento (“meraviglia delle meraviglie, lungo il viaggio il panorama era stupendo…; ci siamo messe in barca e ci siamo fatte alcune fotografie; abbiamo visitato Sorrento, non c’è vocabolo adatto alla sua bellezza”). Nella lettera l’esternazione dei sentimenti era meno sintetica (“lo sai che tutti i miei pensieri, i miei sogni convergono su di te”) e ne veniva fuori anche un auspicio (“ho pensato una cosa, per non dire che l’ho sognata ad occhi aperti: fare la luna di miele per qualche giorno a Sorrento”). Si sposarono l’anno dopo e andarono a Roma e Napoli; non so se abbiano fatto un salto a Sorrento, ma non lo escludo.
2) Il 10 marzo 2000 Silvana ed io mandammo una cartolina da Roma (dove eravamo per il giubileo) ad alcuni nostri carissimi amici (la famiglia Sparacino); la cartolina era corredata da alcuni miei immancabili versiciattoli, che evocavano i ritmi di uno stornello trasteverino inneggiando alla cucina locale (ampiamente apprezzata dal sottoscritto, notoriamente “liccu”): “Fior giubilare, / a Roma nun se viene pe’ magnare, / però se magna proprio bene assai! / Fior d’ogni fiore, / a Roma te s’allarga pure er core, / e de Palermo qui te puoi scordare. / Fior sparacino, / ce mancan Federica, Fina e Nino, / ma a lor brindiamo con sto dolce vino”.
3) Infine, ecco la prima cartolina che in data 14.01.2008 mi capitò di mandare a mio figlio (che ancora non aveva tre anni) e mia moglie in occasione di una mia trasferta di lavoro a Montecatini al seguito degli editori Palumbo. Vi si legge: “Tanti bacetti da Papà e dal cavallino Andrea” (in una giostra in via Verdi c’era un cavallino di legno omonimo di mio figlio, che lo aveva cavalcato l’anno prima con grande giubilo); seguivano i “bacissimi per Mamma”, la firma “Papà Mario” e due disegni del mio ristretto repertorio animalesco (il mio leggendario “coniglione” e una lumachina).
“C’è stato un periodo in cui tutto pareva immobile nella sua perfezione, come se il tempo non fosse in movimento ma fissato sulla cartolina di un’estate felice” (Giorgio Faletti).