52 anni fa, l’8 ottobre 1970, di mattina ero andato regolarmente a scuola; avevo 16 anni e frequentavo il II liceo classico (IV anno) al Liceo D’Oria. Dalle finestre della classe per tutta la mattina vedemmo abbattersi sulla città una pioggia torrenziale. Rientrai a casa bagnato fradicio.
Il quadro era preoccupante: già la sera del giorno prima a Voltri era avvenuta l’esondazione del torrente Leira (13 vittime accertate).
Di pomeriggio verso le 15,30 mio padre era sceso per andare in conservatorio, ma riuscì appena in tempo a ritornare in portineria prima che il fiume Bisagno, che scorreva alle spalle di casa nostra, straripasse e invadesse la strada.
Ci asserragliammo in casa. Il diluvio continuò per tutta la notte, impressionante. La fortissima mareggiata in corso impediva il defluire delle acque dei torrenti che esplodevano letteralmente dentro i loro argini. Caddero 948 mm d’acqua in 24 ore, ci furono 44 vittime e oltre 2000 sfollati.
Mancarono la luce, l’acqua, il gas per giorni. I danni furono incalcolabili. La zona più colpita fu Genova, ma gravissimi danni si ebbero anche in altri 20 comuni della provincia, soprattutto Masone.
L’indomani mattina si vedevano ovunque macerie, autovetture capovolte e accatastate l’una sull’altra, muri crollati, torrenti di melma, devastazione generale. A causa della piena distruttiva del Bisagno, era crollato l’antico Ponte medievale di Sant’Agata, prospiciente il Borgo Incrociati, su cui passavo ogni giorno (l’acqua aveva raggiunto i 3 metri e mezzo di altezza in quella zona). Cedette anche un’ala del grande edificio Gescal chiamato “Biscione” a Quezzi. Dal cimitero di Staglieno furono spazzate via lapidi e perfino alcune salme.
Genova era diventata una Venezia senza monumenti, un unico canale di fango e rovina. Un disastro. Una città in ginocchio.
E i Genovesi? L’indomani mattina uscirono di casa, allibiti e sgomenti. Versarono poche, inevitabili, dignitosissime lacrime. E subito iniziarono a spalare fango, senza aspettare nessun Borrelli di turno (la protezione civile nacque molti anni dopo, con la legge 225 del 1992).
Anche noi ragazzi ci mettemmo a spalare fango, ognuno dove e come poteva. Ragazzi capelloni, che stavano crescendo nella tempesta postsessantottina, una beat generation che aveva destato ironie e diffidenze; ma questi ragazzi (così come era avvenuto pochi anni prima in occasione dell’alluvione di Firenze) mostrarono anche in quella occasione il vero volto di quella generazione, sgobbando dalla mattina alla sera e diventando “gli angeli del fango”.
E quando un giornalista chiese a una ragazza, sudata, sporca, intenta a spalare, perché lo stesse facendo, lei rispose: “Per Genova”. Perché l’amore dei genovesi di ogni età e di ogni tempo per la loro città viene prima di ogni altra cosa (fossero amate così tutte le città italiane dai loro abitanti!).
Genova è città di mare, città internazionale, da sempre aperta a tutto e a tutti, città aperta di testa e di cuore, ma di un cuore che va capito, conosciuto a poco a poco, un cuore ispido, “selvatico” (come diceva Paolo Conte), da conquistare lentamente con una corte discreta, un cuore aspro, lontano da formalismi e pietismi. Per questo non è facile amarla e capirla, per chi non ci è nato o non ci è vissuto; occorre tempo per capirla e farsela entrare nel cuore. Ma quando entra dentro, non ne esce più.