Il filosofo Seneca, vissuto alla corte di Nerone, da giovane abbracciò il vegetarianesimo (di origine pitagorica e ripreso a Roma dalla setta dei Sestii), come scrive nell’epistola 108 a Lucilio: «Non mi vergogno di confessarti la mia passione per le dottrine di Pitagora. Sozione [filosofo pitagorico] mi spiegò per quali motivi quel filosofo si era astenuto dalle carni degli animali, e per quali motivi se ne era astenuto Sestio. I motivi dell’uno erano differenti da quelli dell’altro, ma erano ugualmente nobili. Sestio affermava che l’uomo ha un’alimentazione sufficiente senza bisogno di versare il sangue e che la crudeltà diventa in lui un’abitudine quando ha preso gusto a lacerare le carni. Aggiungeva che era un bene limitare i piaceri sessuali e concludeva che la nostra varietà di cibi è contraria alla salute e poco confacente al corpo umano. Secondo Pitagora c’è una parentela di tutti gli esseri fra loro, poiché le anime trasmigrano continuamente da una forma di vita all’altra. […] Infatti possiamo dire che Pitagora ha ispirato agli uomini la paura di un delitto e di un parricidio, poiché essi potrebbero, senza saperlo, imbattersi nell’anima del genitore e compiere un atto sacrilego uccidendo o mangiando un corpo che ospitava lo spirito di qualche congiunto» (Epistolae ad Lucilium 108, 18-19, trad. Monti).
Seneca racconta poco più avanti i benefici della sua vita da vegetariano: «Incitato dalle sue parole, mi astenni dalle carni (abstinere animalibus coepi); e, dopo un anno, questa abitudine mi era diventata, non solo facile, ma piacevole. Mi sentivo l’anima più agile e oggi non oserei affermare se fosse realtà o illusione” (ibid., 22).
Tuttavia il filosofo smise poi di essere vegetariano e ricominciò a mangiare carne, seppure in minima quantità; a consigliargli ciò fu il padre, timoroso perché in quegli anni (i primi del principato di Tiberio) venivano messi al bando i culti stranieri e l’astinenza dalle carni di certi animali era considerata prova di adesione superstiziosa a quei culti: «senza molta difficoltà, ottenne che io ricominciassi a mangiare un po’ meglio (mihi ut inciperem melius cenare persuasit)» (ibid.).
In seguito, Seneca si scagliò spesso contro l’abuso che i suoi contemporanei facevano di cibi troppo elaborati, “non naturali e non necessari” (come diceva Epicuro) e proprio per questo ritenuti dannosi sia all’anima sia al corpo: il filosofo, fosse stato per lui, avrebbe proibito di mangiare ostriche, di consumare cibi bollenti e di bere vino misto a neve (per renderlo freddo); tutti questi cibi erano sintomi di “luxuria” (da intendere come “eccessivo amore per il lusso”), un’abitudine che rendeva “schiavi” di sé gli uomini. Nella “Consolazione alla madre Elvia” (10, 5) Seneca considera miseri coloro che ormai non provano più alcun gusto a mangiare se non quando sono stuzzicati da pietanze costosissime.
Per il filosofo di Cordova gli abusi alimentari non erano solo la prova tangibile di una corruzione morale, ma influivano concretamente sulla salute “spirituale” degli individui; un’alimentazione corretta, semplice e naturale, era ritenuta invece la base per ottenere un tenore di vita regolato dalla ragione.