In molte delle sue indagini il camilleriano commissario Montalbano si ritiene appagato dalla scoperta della verità e tollera che alcuni colpevoli restino in libertà o in preda ai loro rimorsi: «In “Sostiene Pessoa” [Montalbano] non solo non arresta un uomo reo confesso dell’omicidio del figlio ma gli permette addirittura di togliersi la vita lasciandolo solo con i suoi esiziali sentimenti. In “L’uomo che andava appresso ai funerali” scopre chi è stato l’assassino ma non lo rende noto essendo ormai morto suicida: crede più giusto non addolorare la vedova perché comprende le ragioni che lo hanno spinto al delitto. In “Il fatto” non arresta l’ottantenne Angela Clemenza perché giustifica l’omicidio che ha confessato» (G. Bonina, Il carico da undici – Le carte di Andrea Camilleri, Barbera editore, Siena 2007, p. 90).
Il racconto Il compagno di viaggio (pubblicato per la prima volta nel 1998 nella prima edizione mondadoriana della raccolta Un mese con Montalbano) rientra in questa tipologia di vicenda; non si tratta nemmeno di una vera indagine, ma di un insolito episodio on the road, che avviene a Montalbano durante un suo viaggio in treno da Palermo a Roma.
Costretto obtorto collo da “un doppio sciopero d’aerei e di navi” a prendere il treno, il commissario rivela inizialmente le sue consuete idiosincrasie: viaggiando in uno scompartimento di un vagone letto a due posti, trema di fronte alla prospettiva di dividere l’angusto spazio con uno sconosciuto e sa che in treno non gli riesce mai di addormentarsi, “macari ingozzandosi di sonniferi sino ai limiti della lavanda gastrica”.
Salito sul treno, Montalbano apprende dall’addetto al vagone che il suo compagno di viaggio salirà a Messina, per cui si immerge nella lettura di un appassionante libro e si corica: fingerà di dormire per non dover scambiare convenevoli con uno sconosciuto. Neanche durante la traversata dello Stretto, però, arriva nessuno; sicché il commissario inizia “a sciogliersi alla contentezza”.
Ma il compagno di viaggio arriva inaspettatamente quando ormai il treno esce dal ferry boat: pur nella semioscurità, e facendo finta di dormire, Montalbano lo esamina attentamente: «ebbe modo di travedere un omo di bassa statura, capelli tagliati a spazzola, infagottato in un cappottone largo e pesante, una valigetta portadocumenti in mano. Il passeggero faceva odore di freddo, evidentemente era sì salito a Messina, ma aveva preferito starsene sul ponte della nave durante la traversata dello stretto».
Dapprima il nuovo venuto si siede sul suo lettino e resta immobile; e il commissario, continuando a simulare il sonno, si assopisce davvero per un paio d’ore. Al risveglio osserva attentamente lo strano comportamento del compagno di viaggio: costui infatti legge una lettera, poi la straccia, quindi la aggiunge al mucchio di altre lettere lacerate; butta poi dal finestrino tutte le lettere, la valigetta “ancora in parte piena di lettere da rileggere e da stracciare” e infine anche “un oggetto scuro”, in cui Montalbano riconosce subito una pistola. Subito dopo, lo sconosciuto si abbatte disperato sul letto e inizia a piangere “senza ritegno”.
Prima di scendere velocemente alla stazione di Napoli per un caffè, Montalbano nota sul pavimento una cartolina postale, la prende con sé e la esamina; è un breve e sgrammaticato messaggio indirizzato al rag. Mario Urso di Patti, in cui una certa Anna comunica al destinatario di pensarlo sempre con amore.
Dopo aver comprato a terra il giornale, il commissario risale sul convoglio e nel corridoio legge subito la notizia di un delitto compiuto a Patti per l’appunto da Mario Urso, “stimato ragioniere cinquantenne”, che aveva colto la giovane moglie Anna in flagrante adulterio con un pregiudicato (che per di più aveva in passato dileggiato pubblicamente il marito cornificato). L’assassino era attivamente ricercato da Polizia e carabinieri.
A questo punto Montalbano dovrebbe e potrebbe arrestare il colpevole, assicurarlo alla giustizia, punirlo per il suo omicidio. Ma, guardandolo, “entra” (come dice efficacemente l’autore) dentro “l’angoscia densa, la desolazione palpabile, la disperazione visibile” di quell’uomo.
La ripetizione dello schema sostantivo-aggettivo, la variatio nel modo di definire lo stato d’animo di Urso, le allitterazioni della “d” e persino gli omoteleuti (“palpabile/visibile”) concorrono a evidenziare, con insistita e palese abilità retorica, la Spannung dell’episodio.
Montalbano allora, uscendo dallo scompartimento, si limita a porre la cartolina sulle ginocchia di Urso, augurandogli buona fortuna e lasciandolo in preda ai suoi rimorsi e al suo dolore.
Anche in questo caso, come in altre occasioni, la decisione del commissario (deplorevole, scorretta e irragionevole dal punto di vista giuridico e professionale, oltre che “politicamente scorrettissima”, se non altro nei confronti della vittima dell’uxoricidio) si gioca tutta su un livello umano ed emotivo; e Montalbano può apparire «l’uomo di legge che professa un’idea legalitaria superiore a quella corrente e praticata; è la versione moderna di una Antigone che ha scelto di non assecondare la volontà di Stato e le sue ragioni materialistiche ma di seguire le ragioni della coscienza umana e spirituale» (G. Bonina, Il carico da undici, cit., p. 153).
Magari riscuote simpatia ad un uomo, ma di certo non ad una donna. L’ho letto in classe e le donne sono le prime che si sono meravigliate e indignate del comportamento di Montalbano. Come puo` aver provato pieta` per un uomo che ha appena ucciso la sua donna, tra l’altro anche senza davvero sapere se la disperazione che provava era rimorso o semplicemente dolore e disperazione per lo scorno subito? Come puo` aver pensato all’uomo di fronte a lui e non alla povera vittima? Mi domando se Camilleri avrebbe scelto un finale diverso se avesse scritto il racconto qualche decennio dopo. Lo voglio sperare.
Lo spero anche io… Ma non mancano per fortuna in Camilleri altri racconti che rendono maggiore giustizia alle donne.