“L’elogio della mosca” di Luciano

Sotto il nome di Luciano di Samòsata (II sec. d.C.) ci sono giunte 82 opere, chiamate comunemente “Dialoghi” (benché solo alcuni abbiano in effetti forma dialogica); comprendono scritti retorici, satirici, filosofici, letterari-polemici, romanzeschi (ma differenti tematiche si intrecciano spesso all’interno di una stessa opera).

In particolare, gli scritti retorici consistono in declamazioni, proemi ed introduzioni a conferenze pubbliche tenute da Luciano nelle varie città; appartengono al cosiddetto genere “epidittico” o “dimostrativo”, che prevedeva appunto discorsi pubblici pronunciati in varie occasioni (commemorazioni di defunti, encomi di cittadini benemeriti, diffusione di idee di interesse generale, ecc.).

Al tempo di Luciano (II sec. d.C.) le orazioni epidittiche erano ormai vere e proprie conferenze “affascinanti” su temi scolastici o fittizi; queste virtuosistiche esibizioni di abilità retorica su temi paradossali erano finalizzate esclusivamente all’applauso del pubblico o alle esercitazioni delle scuole.

Fra le orazioni epidittiche di Luciano, particolarmente gradevole è l’Elogio della mosca (Μυίας Ἐγκώμιον), un arguto divertissement neosofistico, che presenta notizie curiose sull’insetto, di cui sono evidenziate alcune sorprendenti qualità.

L’inizio è ex abrupto: Luciano presenta la mosca senza descrivere le sue caratteristiche fisiche, ma esaltandola rispetto agli altri volatili e paragonandone le ali addirittura alle stoffe indiane: «La mosca non è il più piccolo dei volatili, se si paragona alle zanzare, ai tafani, e ad altri più tenui insetti; ma di tanto è maggiore di questi, di quanto è minore dell’ape. È alata non come gli altri, che hanno piume per tutto il corpo, e penne più forti per volare, ma come i grilli, le cicale e le api. Ha le ali d’una membrana tanto più delicata delle altre, quanto una veste indiana è più sottile e morbida d’una greca; e di color cangiante, come i pavoni, se si guarda bene quando si compiace di sciorinarle al sole» (utilizzo qui la traduzione di Luigi Settembrini).

L’amplificatio retorica continua nel par. 2, dove il ronzio emesso dalla mosca in volo è ritenuto più armonioso di quello delle api e delle vespe; il concetto è esemplificato dal paragone con il suono dei flauti: «non vola in silenzio, ma fa un certo suono, non acerbo come quello delle zanzare e dei tafani, non ronzante come delle api, non pauroso e minaccioso come delle vespe, ma di tanto più melodioso, di quanto il flauto è più soave della tromba e dei cembali».

Al par. 3 si ha finalmente la descrizione della forma fisica dell’insetto, che l’autore continua ad assimilare ad animali più grandi e nobili, come l’elefante: «Dell’altre parti del corpo la testa piccolissima è attaccata al collo, e gira intorno, e non è fissa come quella dei grilli; gli occhi sporti in fuori, e molto simili al corno; il petto ben formato, da cui si spiccano i piedi, non molto stretti come quelli delle vespe; il ventre è munito anch’esso, come una corazza, di larghe fasce e di squame. Si difende non con la coda, come la vespa e l’ape, ma con la bocca, e la proboscide, che ha come quella dell’elefante, e con la quale si pasce, e piglia, e si attacca, e ci ha come una ciotoletta alla punta: da questa esce un dente, con cui punge, e poi beve il sangue; beve anche il latte, ma il sangue le è dolce, ed ella non fa punture molto dolorose. Ha sei piedi, e cammina con soli quattro, usando dei due davanti come di mani: ed è bello vederla camminare su quattro piedi, portante tra le mani sollevata qualche briciola, proprio a guisa umana e come facciamo noi».

A questo punto la mosca risulta del tutto “umanizzata”; pertanto, come nell’elogio di un essere umano, alla descrizione fisica segue l’elenco delle sue consuetudini quotidiane: «Vivendo in compagnia degli uomini, nella stessa casa, alla stessa mensa, si ciba di ogni cosa, tranne l’olio, che è la sua morte, se ne beve. Ed essendo di corta vita (che brevissimo spazio l’è assegnato a vivere), vuole stare sempre in piena luce, e farvi tutti i fatti suoi. La notte sta cheta, e non vola, né ronza, ma per paura si raccoglie e non si muove» (par. 4).

Nel par. 5 si passa all’esame delle “doti morali” della mosca, prima fra tutte l’intelligenza (in greco σύνεσις, reso da Settembrini con “accorgimento”).

Per lodare il coraggio dell’insetto, poi, Luciano inserisce – dimostrando la sua doctrina letteraria – alcuni riferimenti omerici: 1) Atena ispira in cuore a Menelao, nel momento della sua grande ἀριστεία, l’ardimento della mosca (Il. XVII 570); 2) uno sciame di mosche vola sul latte (Il. II 469-473); 3) Atena allontana un dardo che sta per ferire Menelao “tanto quanto una madre / allontana una mosca dal figlio” (Il. IV 130-131, trad. Calzecchi Onesti).

Nel par. 6 l’autore passa ad esaltare la forza incredibile della mosca, dimostrata dall’enormità fisica delle sue vittime, presentate in una sorta di climax crescente (bue, cavallo, elefante): «Tanto poi è gagliarda che quando morde, trapassa non solo la pelle dell’uomo, ma del bue ancora e del cavallo, e fa male all’elefante entrandogli tra le rughe, e con la sua proboscide, secondo la sua grandezza, offendendolo».

L’ultimo periodo del paragrafo, in cui si dice che la mosca riesce a sopravvivere anche con il capo mozzato, è strettamente collegato al successivo par. 7 poiché introduce la distinzione corpo/anima: «Ma la più gran cosa che è nella sua natura voglio dirla io, perché mi pare che Platone questa sola cosa trascurò nel suo discorso sull’immortalità dell’anima. La mosca morta, sparsavi cenere sopra, risuscita, si rigenera, e rivive un’altra vita da capo; cosa da persuadere tutto il mondo che l’anima anche delle mosche è immortale, perché ella ritorna, e riconosce, e suscita il corpo, e fa volare la mosca». La mosca è dunque una “animŭla vagans”; e Luciano rimprovera Platone di aver trascurato questo insetto nel Fedone; come analogia, il retore cita l’antico filosofo Ermotimo di Clazomene (filosofo del VI sec. a.C., nel quale si diceva che si fosse reincarnata l’anima di Pitagora), “il quale aveva una specie di anima che spesso lo lasciava, e se n’andava pe’ fatti suoi, poi tornava, rientrava nel corpo” (par. 7); di questo personaggio aveva parlato Plinio il Vecchio nella sua Naturalis Historia (VII 174; cfr. anche Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, VIII 5).

A questo punto Luciano trae le conseguenze: tutte le attività umane e animali sono indirizzate alla mosca, che “fruisce delle fatiche altrui” (par. 8); per lei sono munte le capre, per lei (“come per gli uomini”) lavora l’ape, per lei i cuochi condiscono le più saporite vivande, che l’insetto addirittura “assaggia prima dei re”.

La mosca è nomade come gli Sciti, alloggia dove le capita e non nasconde niente di quello che fa: è quindi, a livello morale, addirittura superiore all’uomo (par. 9).

Luciano nomina poi alcune donne che hanno portato il nome di Mosca: 1) una fanciulla bella ma ciarliera e rivale in amore di Selene nel mito di Endimione; 2) una poetessa “molto bella e savia”; 3) un’etera famosa ad Atene celebrata nella poesia comica; 4) la figlia di Pitagora.

L’encomio si avvia alla conclusione ricordando le “mosche-soldato” (par. 12), di dimensioni maggiori delle altre, più rapide e longeve, che possono stare mesi senza cibo e si accoppiano indipendentemente dal sesso cui appartengono (il che consente all’autore un fugace riferimento all’Ermafrodito, figlio di Afrodite ed Hermes).

Il testo si chiude con un riferimento alla saggezza popolare: «Molto avrei da dire, ma basta qui, per non fare, come dice il proverbio, d’una mosca un elefante» (par. 12).

Manca, in ambito greco, una precisa precettistica su questi ἐγκώμια ἄδοξα (cioè “elogi paradossali”, rivolti a personaggi o fatti in genere biasimati); tuttavia, «sebbene non siamo in grado di definirne con certezza il πτρῶτος εὑρετής, le radici di questo genere affondano nella tradizione della Sofistica antica, dove l’elogio di Elena e la difesa di Palamede di Gorgia, accanto ad altre testimonianze risalenti alla fine del V secolo a.C., mostrano indubbi legami con i principi compositivi e le finalità retoriche dell’epoca successiva. L’Elogio del topo e l’Elogio di Busiride di Policrate, l’Encomio di Elena e il Busiride di Isocrate e la Laudatio mortis di Alcidamante, allievo di Gorgia, sono tutte produzioni letterarie che testimoniano come già in epoca classica il passaggio della retorica dalla realtà alla finzione aveva avuto una sua prima manifestazione. […] I componimenti di questo tipo sono molto numerosi in ambito greco: i noti elogi della chioma e della calvizie rispettivamente di Dione di Prusa e di Sinesio di Cirene, il Parassita, la Tragopodagra e l’Elogio di Tersite di Favorino, l’Elogio di Tersite di Libanio e l’Elogio della mosca di Luciano. Abbiamo anche notizie di un Elogio del pappagallo e di un Elogio della zanzara di Dione, nonché di un Elogio della formica di Elio Aristide. Il genere non ebbe invece molta fortuna in ambito latino, tanto che Gellio 17, 12, 2 nomina solo alcuni esempi in lingua greca, come quelli già citati di Favorino di Arelate, ai quali si devono aggiungere le Laudes fumi et pulveris e le Laudes neglegentiae del suo contemporaneo Frontone che, proprio nel proemio a questi componimenti, afferma non senza orgoglio: nullum huiuscemodi scriptum Romana lingua exstat satis nobile, nisi quod poetae in comoediis […] vel Atellanis adtigerunt (p. 215, 9-11 Hout2)» (A. Peri, Teoria e prassi degli ἐγκώμια ἄδοξα, in “Incontri triestini di filologia classica 1, 2001-2002, pp. 25-26).

Dunque, in ambito latino una trattazione teorica sugli “elogi paradossali” si trova nel retore latino Frontone di Cirta (II sec. d. C., Fronto p. 215, 11-28 Hout2), nel quale compaiono tre precetti essenziali, tutti rigorosamente rispettati – come si è visto – dall’Elogio della mosca lucianeo:

1) i pensieri devono essere numerosi, ma uniti tra loro abilmente; non occorre essere prolissi, bensì sobri ed eleganti, concludendo con un breve ed arguto periodo (suavitas);

2) l’oggetto dell’elogio deve essere lodato in modo “esagerato”, assimilandolo a modelli più rilevanti ed importanti (amplificatio);

3) la solennità dell’oggetto elogiato va dimostrata attraverso un’esemplificazione ricavata dalle testimonianze letterarie, dalla saggezza popolare e dalla mitologia (adseveratio).

Di Mario Pintacuda

Nato a Genova il 2 marzo 1954. Ha frequentato il Liceo classico "Andrea D'Oria" e si è laureato in Lettere classiche con 110/110 e lode all'Università di Genova. Ha insegnato nei Licei dal 1979 al 2019. Ha pubblicato numerosi testi scolastici, adottati in tutto il territorio nazionale; svolge attività critica e saggistica. E' sposato con Silvana Ponte e ha un figlio, Andrea, nato a Palermo nel 2005.

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