Yorgos Seferis (Γιώργος Σεφέρης, 1900-1971) fu uno dei più celebri poeti, saggisti e diplomatici greci. Ottenne il Premio Nobel per la letteratura nel 1963.
Quando lavorava al consolato greco di Londra (1931-1934), Seferis conobbe la poesia di Thomas Stearns Eliot, di cui nel 1936 tradusse “La terra desolata” (“The waste land”) intitolandola “I èrimi chòra” (Η έρημη χώρα).
Frutto di questa esperienza fu la raccolta poetica “Mythistòrima” (Μυθιστόρημα, Atene 1935), ove abbandonò i versi tradizionali e la ricerca di musicalità per ottenere una nuova essenzialità espressiva. Il titolo della raccolta si può rendere in italiano con “Romanzo” (μυθιστόρημα è il vocabolo che in greco moderno lo indica comunemente) o “Leggenda”. Il “romanzo” per Seferis era la forma epica dei nostri tempi, ma – come spiegava l’autore stesso – due erano le componenti che gli avevano fatto scegliere il titolo: “mythos perché ho utilizzato in modo abbastanza visibile una certa mitologia; historìa perché ho cercato di esprimere, con qualche coerenza, una situazione altrettanto indipendentemente da me quanto i personaggi di un romanzo” (trad. Vitti).
L’opera è articolata in 24 poesie (tante quanti sono i canti di Iliade e Odissea), per complessivi 1.556 versi. Tuttavia è evidente il contrasto fra i canti omerici, che raccontano imprese gloriose, e queste 24 liriche che invece raccontano disfatte, sconfitte, ingiustizie, sensazioni cupe e paralizzanti.
Probabilmente su Seferis, greco di Smirne (attuale Turchia), pesò molto la tragedia del 1922. Infatti, in seguito a una guerra contro la Turchia nazionalista di Atatürk, durata tre anni, era fallita la “Grande idea” (“Megàli idèa”, Μεγάλη ἰδέα) greca irredentista, che aveva sperato di ricongiungere tutte le popolazioni greche, comprese quelle dell’Asia Minore, ponendo la capitale del nuovo stato unificato a Costantinopoli.
L’esito era stato invece disastroso per i Greci: al termine del conflitto, con il Trattato di Losanna, Turchia e Grecia si accordarono per un gigantesco scambio di popolazioni secondo il criterio dell’appartenenza religiosa: l’afflusso di un milione e mezzo di profughi dell’Asia Minore fu un trauma spaventoso per la Grecia, la cui popolazione era di circa quattro milioni e mezzo di abitanti nell’autunno del 1922 (sarebbe come se oggi arrivassero in Italia altri venti milioni di nostri concittadini!).
Ne derivò una tragedia economica e sociale, ma anche un forte sbandamento culturale, un brusco richiamo alla realtà: da qui derivano anche le scarne liriche di “Mythistòrima”: «i viaggi non portati a termine, i rottami galleggianti, l’affondamento nel mare e nella pietra, le statue e i marmi rotti toccati nel vano sforzo di recuperarne il passato, gli amici periti o assenti, la commovente mediocrità dei compagni, personaggi mitici che parlano di sangue e di sciagure, l’impossibilità dell’eroismo: tutto ciò fa parte di quella sedimentazione di esperienze che confluiscono nella composizione dell’“antichissimo dramma”» (M. Vitti). Proprio l’espressione “antichissimo dramma” (“panàrcheo dràma”, πανάρχαιο δράμα) esprime potentemente questa concezione esistenziale.
Da qui anche le scelte stilistiche: nella raccolta il poeta ricorre a sequenze brevi, usa metonimie, similitudini, analogie, inserisce continue interrelazioni fra i significati, ricorre spesso a “correlativi oggettivi” sul modello di Eliot, utilizza e “riscrive” personaggi mitologici (gli Argonauti, Oreste, Andromeda e anche Elpenore, il compagno di Odisseo che rappresenta l’uomo comune, con la sua incapacità e la sua stoltezza).
Elemento fortemente simbolico, in questa prospettiva, è il paesaggio greco. Come scrive Bruno Lavagnini, «le liriche di questa silloge dicono con varietà di toni e di immagini il rimpianto di una riva perduta, il senso doloroso della grecità nelle peripezie della sua vita millenaria, che si riflette nello stesso paesaggio, arido, contorto, bruciato». Si tratta di un paesaggio “tipico”, contiguo al mare, abbacinante nella sua luce, ma sostanzialmente monotono nella sua bellezza millenaria. E questa monotona essenzialità diviene simbolo della pena costante dei Greci, del loro dramma eterno nei secoli.
Questa concezione emerge bene già nell’incipit della lirica X: “La nostra terra è chiusa, tutta monti, / notte e giorno per tetto cieli bassi. / Non abbiamo né fiumi né pozzi né sorgenti: / poche cisterne vuote, sonanti, venerate. / Suono stagnante e vano, pari al nostro deserto, / al nostro amore, pari ai nostri corpi” (trad. F. Pontani).
Ὁ τόπος μας εἶναι κλειστός, ὅλο βουνὰ
ποὺ ἔχουν σκεπὴ τὸ χαμηλὸ οὐρανὸ μέρα καὶ νύχτα.
Δὲν ἔχουμε ποτάμια δὲν ἔχουμε πηγάδια δὲν ἔχουμε πηγές,
μονάχα λίγες στέρνες, ἄδειες κι αὐτές, ποὺ ἠχοῦν καὶ ποὺ τὶς προσκυνοῦμε.
Ἦχος στεκάμενος κούφιος, ἴδιος με τὴ μοναξιά μας
ἴδιος με τὴν ἀγάπη μας, ἴδιος με τὰ σώματά μας.
L’uso simbolico del paesaggio greco, nella sua monotona essenzialità, è evidente nella XII lirica della raccolta, “Bottiglia in mare”, che presenta appunto diversi elementi caratteristici: rocce, pini, una chiesetta abbandonata, altre rocce, altri pini, una casetta; lo stesso paesaggio poi “si ripete a balze”, a perdita d’occhio. La località si replica sempre, proiettata in uno spazio e in un tempo illimitati.
Nello scenario naturale si innesta ad un certo punto la presenza umana: il poeta, novello Ulisse, ricorda l’approdo in quella spiaggia, con alcuni compagni; era uno sbarco sospirato, dopo un viaggio tormentato attraverso un mare “profondo e inspiegabile” (v. 11), caratterizzato da una (ingannevole?) calma piatta. I viaggiatori intendevano riparare “i remi spezzati” e ristorarsi. Lo “sbarco” e il “viaggio” sono evidenti metafore di una triste condizione esistenziale: il mare, dice il poeta, “ci ha amareggiati” (v. 11); e la sua “calma sconfinata” somiglia pericolosamente alla morte.
Fra i ciottoli, i marinai (o naufraghi?) trovano “una moneta” (v. 13) e subito se la giocano ai dadi; la vince “il più giovane” (v. 15) fra loro, ma la sua vittoria coincide con la sua rovina (“andò perduto”, v. 15). Il dettaglio evidenzia l’illusorietà di ogni consolazione e la fine di ogni speranza (soprattutto in coloro che sono più giovani).
Quando i superstiti riprendono il mare, c’è un’amarezza in più nei loro cuori; essi ripartono ancora “coi remi spezzati” (v. 16). La sosta non ha risolto i problemi; anzi, l’approdo (dopo la prima illusoria consolazione) ha aggiunto un’ulteriore delusione alle precedenti.
Ecco il testo, nella traduzione di Mario Vitti (a seguire il testo originale).
ΙΒ´ (XII)
BOTTIGLIA IN MARE – Μποτίλια στὸ πέλαγο
Tre rocce pochi pini bruciati e una chiesetta deserta e più sopra
lo stesso paesaggio copiato si ripete;
tre rocce a forma di porta, rugginose
pochi pini bruciati, neri e gialli
e una casetta quadra sepolta nella calce;
e più su ancora molte volte
lo stesso paesaggio si ripete a balze
fino all’orizzonte fino al cielo in tramonto.
Qui approdammo col nostro naviglio per riparare i remi spezzati
bere acqua e dormire.
Il mare che ci ha amareggiati è profondo e inspiegabile
e dispiega una calma sconfinata.
Qui tra i ciottoli trovammo una moneta
E la giocammo ai dadi.
La vinse il più giovane e andò perduto.
Ci rimbarcammo coi remi spezzati.
Τρεῖς βράχοι λίγα καμένα πεῦκα κι ἕνα ρημοκλήσι
καὶ παραπάνω
τὸ ἴδιο τοπίο ἀντιγραμμένο ξαναρχίζει
τρεῖς βράχοι σὲ σχῆμα πύλης, σκουριασμένοι
λίγα καμένα πεῦκα, μαῦρα καὶ κίτρινα
κι ἕνα τετράγωνο σπιτάκι θαμμένο στὸν ἀσβέστη
καὶ παραπάνω ἀκόμη πολλὲς φορὲς
τὸ ἴδιο τοπίο ξαναρχίζει κλιμακωτὰ
ὡς τὸν ὁρίζοντα ὡς τὸν οὐρανὸ ποὺ βασιλεύει.
Ἐδῶ ἀράξαμε τὸ καράβι νὰ ματίσουμε τὰ σπασμένα κουπιά,
νὰ πιοῦμε νερὸ καὶ νὰ κοιμηθοῦμε.
Ἡ θάλασσα ποὺ μᾶς πίκρανε εἶναι βαθιὰ κι ἀνεξερεύνητη
καὶ ξεδιπλώνει μίαν ἀπέραντη γαλήνη.
Ἐδῶ μέσα στὰ βότσαλα βρήκαμε ἕνα νόμισμα
καὶ τὸ παίξαμε στὰ ζάρια.
Τὸ κέρδισε ὁ μικρότερος καὶ χάθηκε.
Ξαναμπαρκάραμε μὲ τὰ σπασμένα μας κουπιά.
Commento interessante e coinvolgente come riesci ad essere sempre. Nel testo della poesia ritrovo l’atmosfera di alcuni lirici greci. Mi piace particolarmente leggere i tuoi scritti la mattina. E come se caricassi la mente e il cuore di energia e umanità!
Che bella pagina, grazie! “Romanzo” (μυθιστόρημα) o “Leggenda”…che cos’ è in fondo il Mito? Il Mito è la Realtà. Seferis lo spoglia della musicalità, e del carattere celebrativo, trasforma la narrazione epica classica in un versificare asciutto, quasi netto, definitivo. Il paesaggio diviene metafora di un paesaggio umano, interiore, esistenziale, quindi universale. Come nei versi in cui qui, contrappone il paesaggio monotono, pressoché uguale, alla profondità del mare ( la psiche). Il protagonista eroe di omerica menoria lascia spazio all’ individuo in balia dell’ accadere, sebbene consapevole, ma impotente, sconfitto. Eroica accettazione di una resa, in quanto abbandono cosciente, destino. Lo stile di Seferis, di questi versi, mi rende inevitabile il raffronto con certi aspetti del paesaggio siciliano, esteriormente, e con la psiche insulare, che in Sicilia trova tra le sue espressioni migliori un poeta fin troppo poco apprezzato, e che io amo moltissimo: Bartolo Cattafi. “La Terra desolata”, e assolata, e del Mito… cosa altro è, se non come la Grecia, la Sicilia
Grazie veramente tanto