Plutarco e la morte di Pan

L’opuscolo “De defectu oraculorum” (“Sul tramonto degli oracoli“, cap. 17, 419 d-e) è un dialogo dei “Moralia” di Plutarco, che tratta il progressivo declino degli oracoli, narrato in prima persona da Lampria, fratello dell’autore.

Oltre allo stesso Lampria, gli interlocutori sono il grammatico Demetrio, il cinico Didimo, lo storico di matrice stoica Filippo, il teologo Cleombroto, il giovane Eracleone ed il filosofo platonico, nonché maestro di Plutarco, Ammonio.

I partecipanti riflettono sulla crisi degli oracoli, proponendo spiegazioni diverse; secondo Cleombroto la divinazione oracolare è ispirata dai “dàimones” (δαίμονες), esseri intermedi fra divinità e uomini, i quali, seppur longevi, sono mortali; così la loro morte determina il tramonto degli oracoli a cui essi presiedono.

A sostegno di tale tesi Filippo racconta un episodio sentito da un uomo “che non era né uno sciocco né un imbroglione”: mentre viaggiava su una nave diretta in Italia, si udì una voce che esortava il pilota Tamo ad annunciare, in prossimità del porto di Palode, la morte di Pan (la nota divinità non olimpica, mezzo uomo e mezzo caprone, dio della campagna, delle selve e dei pascoli).  Quando Tamo, giunto vicino alla costa, gridò: «Il grande Pan è morto», si sentì un gemito “non di una persona sola, ma di tante, pieno di stupore”.

Per il tono arcano la leggenda della morte di Pan, di cui peraltro rimane solo la testimonianza plutarchea, ha suscitato diverse interpretazioni già nell’età antica: per gli apologisti cristiani il racconto simboleggiava la fine della religione pagana e l’avvento del cristianesimo.

Gli studiosi moderni hanno soprattutto tentato di spiegare da dove provenisse l’assimilazione di Pan con un demone mortale. In un articolo del 1907 lo storico Salomon Reinach ipotizzò che la frase udita dal pilota e dai passeggeri della nave non fosse “O Tamus, Pan il grande è morto” (Θαμοῦν… Πὰν ὁ μέγας τέθνηκε), ma “Tamuz l’immenso è morto” (Θαμοῦς πάμμεγας τέθνηκε) e che l’equivoco fosse nato a causa del nome del nocchiero; a giudizio dello storico, il soggetto della frase non sarebbe Pan, ma Tamuz, dio semitico della vegetazione (importato in Grecia con il nome di Adone), di cui ogni anno si celebravano la morte e la resurrezione. Pertanto, sempre secondo Reinach, il lamento ascoltato a Palode sarebbe il pianto rituale che accompagnava la celebrazione del rito in onore di Tamus (cfr. S. Reinach, La mort du grand Pan, in Bulletin de correspondance hellénique 31, 1907, pp. 5-19).

Un altro filone di pensiero ha visto in questa storia un riferimento alla morte di Cristo, ritenuto il figlio di Dio e quindi identificato con il “tutto” (“pan” in greco significava appunto “tutto”). Così scrisse infatti James Hillman nel suo Saggio su Pan: «Pan morì quando Cristo divenne Sovrano assoluto, così che il diavolo non è altro che Pan visto attraverso l’immaginario cristiano. La morte dell’uno significò la vita dell’altro in un contrasto chiaramente espresso nelle iconografie: Pan nella grotta, Cristo sul Monte; l’uno ha la musica, l’altro la Parola» (tr. it., Adelhi 1977).

Al li là delle possibili spiegazioni, il passo spicca per la forza evocativa del mistero e per il sincero turbamento dell’autore: “nel De defectu più che in ogni altra sua opera, l’equilibrata considerazione che Plutarco ha dell’uomo e della società – dei limiti e dei fasti, degli impegni e dei privilegi propri all’uno e all’altra – appare agitata da fosche incertezze. Il dramma di quest’opera sta tanto nel suo tema, quanto nella mente di Plutarco. Mai come qui appare la consapevolezza – pur se egli voglia sbarrarle la strada – che qualcosa è al suo termine: la civiltà della Grecia, insieme a tutto quanto essa ha prodotto” (D. Del Corno, Plutarco – Dialoghi delfici, Milano, Adelphi 2006, p. 16).

Ecco il brano nella traduzione di Marina Cavalli:

A queste parole Eracleone tacque, e si mise a meditare fra sé. Allora Filippo disse: «Non è solo Empedocle, caro Eracleone, ad ammettere l’esistenza di demoni cattivi, ma anche Platone, Senocrate, Crisippo, e ancora Democrito, quando si augura di incontrare solo “benigne apparizioni”: da cui si deduce che ne conosceva anche di ostili, con intenzioni e desideri perversi.

Quanto alla morte di questi esseri, io ho sentito la storia di un uomo che non era né uno sciocco né un imbroglione. Alcuni di voi hanno ascoltato il retore Emiliano, che era figlio di Epiterse, mio concittadino e maestro di grammatica. Proprio lui mi raccontò che una volta si era imbarcato per l’Italia su un mercantile con molti passeggeri a bordo: alla sera, quando già si trovavano presso le isole Echinadi, il vento cadde di colpo, e la nave fu trasportata dalla corrente fino a Paxo. Quasi tutti i passeggeri erano svegli, e molti, terminata la cena, stavano ancora bevendo. All’improvviso si sentì una voce dall’isola di Paxo, come di uno che gridasse il nome di Tamo. Tutti restarono sbalorditi. Questo Tamo era un pilota egiziano, ma quasi nessuno dei passeggeri lo conosceva per nome. Due volte la voce dell’uomo lo chiamò, e lui stava zitto. Alla terza rispose, e allora quello con più alto disse: “Quando sarai a Palode, annuncia che il grande Pan3 è morto”.

A queste parole, diceva Epiterse, tutti restarono sbalorditi, e si domandavano se fosse meglio eseguire l’ordine oppure non darsene cura. Allora Tamo decise che, se ci fosse stato vento, avrebbero costeggiato la riva in silenzio; se invece giunti là avessero trovato bonaccia, avrebbe riferito la notizia. Quando infine arrivarono a Parode, non un soffio di vento, non un’onda. Allora Tamo, sulla poppa, guardò verso terra e gridò: “Il grande Pan è morto”. Non aveva quasi finito di dirlo, che subito si levò un gran gemito, non di una persona sola, ma di tante, pieno di stupore.

In molti avevano assistito al fatto, e ben presto la sua fama si sparse per Roma. L’imperatore Tiberio, allora, mandò a chiamare Tamo, e tanta fu la sua fede nel racconto del marinaio che volle informarsi e fare indagini su questo Pan: i filologi di corte congetturarono che fosse il figlio di Ermes e Penelope». Molti dei presenti confermarono il racconto di Filippo, che già avevano sentito narrare dal vecchio Emiliano.

Di Mario Pintacuda

Nato a Genova il 2 marzo 1954. Ha frequentato il Liceo classico "Andrea D'Oria" e si è laureato in Lettere classiche con 110/110 e lode all'Università di Genova. Ha insegnato nei Licei dal 1979 al 2019. Ha pubblicato numerosi testi scolastici, adottati in tutto il territorio nazionale; svolge attività critica e saggistica. E' sposato con Silvana Ponte e ha un figlio, Andrea, nato a Palermo nel 2005.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *