Altri quattro vocaboli siculo-italiani

Continuiamo la rassegna di vocaboli del dialetto siciliano che vengono compresi e utilizzati anche nell’italiano regionale dell’isola e quindi nella conversazione quotidiana.

Eccone altri quattro, accomunati dalla loro connotazione sostanzialmente negativa.

1) “Abbuttato” – Indica chi è scocciato, contrariato, imbronciato, ma anche sostanzialmente pigro. Il vocabolario del Traina spiega il verbo “abbuttari” con “gonfiare a mo’ di botte”; conseguentemente, chi è “abbuttatu” è anzitutto “gonfio” di sdegno e di fastidio, ha “un’aria annuvolata, minacciosa”, ce l’ha (come direbbe Camilleri) con “l’universo creato”.

In particolare, il termine indica qualcuno a cui scoccia fare una certa cosa (“mi abbutta” vuol dire infatti “non mi va, mi scoccia”); gli “siddìa” anche “a campare”, è sempre annoiato e di mal umore. In genere “abbuttati” sono oggi alunne e alunni nelle aule scolastiche, ma non lo sono di meno, purtroppo, molti docenti “disfizziati”… (mi è scappato un altro vocabolo italo-siculo!).

Renato Castagnetta fornisce una definizione particolarmente icastica dell’abbuttato: “colui che, con reticenza ad ogni sollecitazione, si aggira ciondolando per casa o per la strada, senza una meta fissa non sapendo cosa fare, in preda ad una abulia totale assume uno sguardo dormiente ed il volto inebetito. L’abbuttato si lamenta per ogni cosa che gli si chiede di fare, cercando di scansare le fatiche assumendo una posizione a divano”.

2) “Lanzo” – Se si cerca il termine “lanzu” nel vocabolario di Traina, viene senz’altro spiegato con “vomito”; in effetti il vocabolo allude a qualcosa che dispiace fortemente, che disgusta, che sconcerta. “Mi sta venendo il lanzo” è espressione forte, con cui si confessa un rivoltante disagio verso qualcosa. In effetti, al giorno d’oggi, non sono poche le cose e le persone che fanno venire il “lanzo”; meglio però non esplicitarle, sia perché non siamo al tempo di Nerva e Traiano (epoca in cui, secondo Tacito, “si è liberi di pensare quel che si vuole e di dire quel che si pensa”) sia perché ci vuole poco ormai, specie su questi ineffabili “social”, a scatenare le torve repliche dell’hater intollerante di turno… Meglio tenerci dunque, ognuno, il nostro “lanzo” per noi; almeno però, non togliamoci l’intimo piacere di provarlo quando occorre…

3) “Trùbbolo” – Quando vediamo una persona adombrata, turbata, palesemente contrariata, diciamo che è “trùbbola”. Il termine “trùbbulu” significa propriamente “torbido” (per l’arzigogolato Traina, che è tanto efficace quando parla siciliano quanto contorto nelle traduzioni italiane, significa “che ha in sé mischianza che gli toglie la chiarezza”); “trubbulari” vuol dire “far diventare torbido, intorbidare”. Si è “trùbboli” quando qualcosa ci è andato male, quando siamo preoccupati e ansiosi, quando le prospettive non ci sembrano rosee. L’etimologia è incerta: c’è chi, alquanto verosimilmente, collega il vocabolo a “trouble” (usato in inglese e francese, ovviamente con diversa pronuncia) cioè “guaio, difficoltà”; c’è anche chi risale addirittura al latino “triobolus” che indicava la “moneta da tre oboli”, cioè una somma esigua.

4) “Sanfasò” – Si dice di una cosa fatta alla meno peggio, in modo arrangiato, a casaccio. Deriva dal francese “sans-façon”, che vuol dire appunto “alla buona, senza cura, senza attenzione”. Il termine non è usato solo in Sicilia (ad es. è comune anche a Napoli), ma ha sempre la stessa connotazione di cosa fatta in modo sciatto, alla carlona. Nella Sicilia orientale ho sentito anche dire “alla sinfasò”, con deformazione orale del termine. Comunque sia, l’espressione è usata spesso, anzi troppo spesso, a testimonianza del fatto che in questa nostra epoca ipertecnologica, computerizzata, massificata e globalizzata le cose fatte alla “sanfasò” non diminuiscono, ma anzi continuano ad esistere e a proliferare, insieme al generale pressappochismo dilagante.

Non mi resta che augurare a tutti voi una buona giornata, ovviamente sperando che non siate “abbuttati” e “trùboli”, che non vi dobbiate “lanzare” di niente e che non incappiate in cose fatte alla “sanfasò”. Se si verificassero tutte queste liete condizioni, sarebbe di certo una bella domenica.

Di Mario Pintacuda

Nato a Genova il 2 marzo 1954. Ha frequentato il Liceo classico "Andrea D'Oria" e si è laureato in Lettere classiche con 110/110 e lode all'Università di Genova. Ha insegnato nei Licei dal 1979 al 2019. Ha pubblicato numerosi testi scolastici, adottati in tutto il territorio nazionale; svolge attività critica e saggistica. E' sposato con Silvana Ponte e ha un figlio, Andrea, nato a Palermo nel 2005.

1 commento

  1. Delizioso anche solo il ricordo di espressioni e modi di dire della nostra lingua materna nel senso letterale del termine, che si apprendeva direttamente dalla madre.
    Anche nella mia zona, sudorientale, si dice “alla sanfason”, e il termine abbuttatu è riferito più che a persone a qualcosa di ripieno(melanzane, per esempio), quindi gonfio, lanzu invece non è usato.
    Complimenti

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