Continuiamo la rassegna di vocaboli del dialetto siciliano che vengono compresi e utilizzati anche nell’italiano regionale dell’isola e quindi nella conversazione quotidiana.
Eccone altri cinque.
1) “Allazzaràtu” – Stamattina finalmente, 21 ottobre 2023, dopo un periodo interminabile e insopportabile di sole infinito, culminato in due giorni di afa infuocata, a Palermo piove; il cielo è, per l’appunto, “allazzaràtu”, cioè cupo e minaccioso.
Ma sono minacce per me gradite e liete: affacciandosi al balcone si respira, finalmente, aria fresca e pura e non la letale pozione africana che ci veniva somministrata in quantità industriali.
Il termine “allazzaràtu” deriva da “Lazzaro” e ha a che fare con la resurrezione di costui; infatti, se si cerca sul Mortillaro, il vocabolo significa “ulceroso, impiagato, sommamente magro e pallido, emaciato, consunto”: e con il redivivo Lazzaro ci sta, perché un soggiorno nell’aldilà – sia pur temporaneo – deve essere comunque piuttosto stressante; anche Traina scrive che “allazzaràtu” deriva “dal Lazzaro della scrittura, tutto piaghe, e morto”.
Ben venga, per me, il cielo “allazzaràtu”, dopo tanto monotono azzurro; non di sola afa vive l’uomo: si rassegnino i cultori tenaci delle spiagge, i pervicaci adoratori del caldo, i “postatori” di spiagge incontaminate e di tardivi bagni nel mare azzurro. Per fortuna, su questo pianeta sconvolto dai cambiamenti climatici (inutilmente negati da alcuni), esistono ancora scampoli di clima più normale e assaggi sia pur fugaci di autunno: “a questo mondo c’è giustizia, finalmente!” (Tant’è vero che un uomo sopraffatto dal caldo non sa più quel che si dica…).
2) Il “corrivo” (in dialetto “currìvu”) è rimpianto pungente, “dolore, dispiacere di torto ricevuto” (Traina), cruccio che fa indispettire, stizza lancinante.
A volte si sente qualcuno che si lamenta dicendo: “Ne ho un corrivo tremendo”, con riferimento a qualcosa che gli è andata storta, a un rammarico per qualcosa che non ha avuto l’esito sperato.
Il “corrivo” è sensazione amara, spiacevole, affliggente; meglio augurarsi, dunque, di non dire mai “mi è rimasto il corrìvo”, perché non è una bella cosa…
3) Il “cozzo” (con la “o”, stiamo attenti alle vocali…) è la “nuca”, “la parte di dietro del capo” (Traina).
Quando ero sotto le armi, era obbligatorio che il “cozzo” dei militari fosse assolutamente glabro, senza alcun pelo e ben visibile; chi violava questa consegna, poteva essere punito. Ricordo infatti che un sergente siciliano scrisse il seguente biglietto di punizione, indirizzato a un soldato della mia compagnia: “Deteneva il cozzo sporco. Si chiedono giorni due di consegna” (in altre parole, lo “zozzone” con la nuca pelosa non poteva andare in libera uscita per due giorni).
Il termine dialettale “cozzu” ha anche altri usi, piuttosto ricorrenti nella conversazione ordinaria: ad es. l’estremità del filoncino di pane si chiama qui “cuzziteddu” e c’è chi la preferisce (io no).
Inoltre, siccome i monaci erano ben pasciuti (o almeno così voleva la credenza comune) si diceva “cozzu di monacu” per indicare chi avesse una “grassa collottola”.
Infine, se uno voleva mettersi alle spalle qualcosa, dimenticare e archiviare una brutta esperienza, si diceva un tempo: “jittarisilla darreri lu cozzu” (“gettarla dietro le spalle”, come diremmo noi).
4) “Ammuttare” significa “spingere”; e “ammuttune” è la “spinta”.
Qui, soprattutto a Palermo, dove fare la fila disciplinatamente è segno di vergognosa debolezza e di femmineo lassismo, tutti “ammuttano”: si “ammutta” quando si sale su un autobus (rigorosamente dalla porta da cui altri scendono), si “ammutta” allo stadio, si “ammutta” negli uffici pubblici ingorgati di gente in attesa e desolatamente privi di personale, si “ammutta” all’uscita da un cinema o da un teatro. “Senza ammuttare!” (traducibile in “Non dovete spingere!”) è frase ricorrente da parte di persona spintonata più del dovuto.
E tuttavia un “ammuttune” (o “ammuttata”) a volte è utile, ad esempio quando consiste in una “segnalazione”, una raccomandazione che possa far arrivare presto e bene a una meta ambìta (“quello ha avuto il posto perché ha avuto un bell’ammuttune”).
5) Il “manciatario” da queste parti (ma non solo) è persona in ricchissima compagnia: si tratta di chi “mangia, beve, sfrontatamente chiede, o vuol tutto per sé; […] chi, senza esser generoso, pretende sempre il suo utile: ingordo, spilorcio” (Traina).
Più comunemente, “manciatariu” è chi mangia a spese del prossimo: questo “prossimo” poi è in genere lo Stato, visto come ente impersonale e lontano e, in quanto tale, truffabile e spolpabile quanto più è possibile. Un “manciatariu” vive a spese della comunità, ad es. percepisce senza averne diritto il reddito di cittadinanza (se riesce ad averlo), millanta povertà e disperazione, scrocca soldi e favori.
In genere l’epiteto di “manciatariu” si sposa benissimo con quello di “lagnùsu” (che indica chi è pigro e rifugge da ogni fatica o impegno): uno che è “lagnusu e manciatariu” non è certo, come si dice qui, “un bello spicchio”.
Ma si sa, è tutto un “magna magna” (lo ripeto, non solo qui in Sicilia): per cui i “manciatari” proliferano. E anzi sarebbe compito precipuo, di quell’ente impersonale e lontano che è lo Stato, quello di stanarli, additarli al pubblico ludibrio o per lo meno costringerli a cambiare. Ma non sembra che sia un periodo adatto a queste crociate moralistiche, per cui i “manciatari” proliferano indisturbati.
Cerchiamo almeno di non ammirarli.