Il pandolce genovese (in dialetto locale “pandöçe”), spesso detto anche un po’ impropriamente “panettone genovese”, è un dolce tipico delle festività natalizie, anche se ormai lo si trova tutto l’anno.
Ha forma circolare e ne esistono due versioni: quella “alta” e ben lievitata, più antica, e quella “bassa” e compatta (più recente, poiché risale alla fine dell’800 e risulta più veloce da preparare).
Molto semplici gli ingredienti: farina, burro, zucchero, uva passa, acqua di fiori d’arancio, semi di anice e lievito naturale, con aggiunte di scorze d’arancia e cedro candite.
Secondo alcuni deriverebbe dall’antico “pan co-o zebibbo”, un dolce ligure con uva secca, cedro o zucca candita; ma la principale leggenda vuole che sia stato il doge Andrea Doria, nel ‘500, a bandire un concorso tra i maestri pasticceri di Genova perché creassero un dolce rappresentativo della ricchezza cittadina. Questo dolce doveva essere coerente con l’anima marinara e previdente dei genovesi: doveva dunque essere nutriente ma di lunga conservazione, così da poterlo da tenere in cambusa durante i lunghi viaggi per mare (fu anche chiamato “pan del pescatore” o “pan del marinaio”). In quell’occasione sarebbe nato il pandolce nella versione “alta”.
Non manca una fonte alternativa più antica, che risale al 1369 e cita un tale “Pietro da Recco speziale”; costui avrebbe confezionato per primo il pandolce e ne avrebbe tramandato l’arte ad altre famiglie genovesi, in particolare ai Romanengo.
In occasione del Natale del 1662, poi, le cronache genovesi riferiscono di una cerimonia solenne organizzata dalla Repubblica per la visita del Cardinale d’Este a Genova; in un grande banchetto, Sua Eminenza ebbe modo di gustare, fra molte prelibatezze, le primizie degli orti bisagnini ed il pandolce genovese, nella sua forma “alta”.
Ma forse l’origine del pandolce è ancora più esotica e antica: secondo lo storico Luigi Augusto Cervetto (1834-1923) il dolce genovese sarebbe infatti un rimaneggiamento di un antico dolce persiano: qui pare che toccasse al paggio più giovane, all’alba di Capodanno, di porgere al sovrano un grande pane dolce a base di canditi, miele e mele da dividere fra i suoi commensali.
L’usanza fu in qualche modo ripresa dai liguri: il dolce infatti era portato in tavola a Natale dal più giovane della famiglia, che lo passava per il taglio al più anziano; di ogni pandolce venivano conservate due fette che non erano consumate: una era lasciata generosamente al primo povero che bussava alla porta (alla faccia di certi luoghi comuni stantii sulla taccagneria genovese), mentre l’altra veniva conservata per essere benedetta nel giorno di San Biagio, protettore “dei mali della gola”, il 3 febbraio.
La madre, in quell’occasione, riceveva la prima fetta per l’assaggio e recitava una formula benaugurale: “Vitta lunga con sto’ pan, prego a tutti sanitæ, comme ancheu, comme duman, affettalu chi assettae, da mangialu in santa paxe, co-i figgeu grandi e piccin, co-i parenti e co-i vexin, tutti i anni che vegnià, cumme spero Dio vurrià” (“Vita lunga con questo pane! Prego per tutti tanta salute, come oggi, così domani, affettarlo qui seduti, per mangiarlo in santa pace coi bambini, grandi e piccoli, coi parenti e coi vicini, tutti gli anni che verranno, come spero Dio vorrà”).
A quei tempi il pandolce doveva essere fatto in casa, mentre i pasticceri lo preparavano solamente su ordinazione dei “foresti”, cioè di coloro che non vivevano a Genova; le massaie lo cucinavano prestando particolare attenzione alla lievitazione: la tradizione vuole che addirittura mettessero l’impasto, ben fasciato in un telo di stoffa, sotto le coperte del letto, accanto allo scaldino, per ottenere la giusta temperatura adatta a favorire lo sviluppo del lievito. Molte lo cuocevano nelle stufe a legna o mattoni; altre lo portavano dal fornaio di fiducia.
Nel Regno Unito esiste una variante del pandolce, chiamata “Genoa Cake” (“torta di Genova”). Ma non basta: a Selkirk in Scozia, nel 1859, il panettiere Robbie Douglas (forse un abile taroccatore che aveva avuto modo di conoscere il dolce genovese) cucinò un pandolce ribattezzandolo “Selkirk Bannock”; era in realtà una varietà spugnosa e burrosa di torta di frutta, a base di farina di grano e contenente una grande quantità di uva passa; e si dice che persino la regina Vittoria, quando visitò nel 1867 ad Abbotsford la nipote di Sir Walter Scott, il celebre romanziere scozzese, ebbe modo di accompagnare il suo tè con una fetta di Selkirk Bannock. Oggi i Bannocks Selkirk sono facilmente reperibili in molti supermercati britannici.
Quando vivevo a Genova, da ragazzo, non impazzivo particolarmente per il pandolce genovese, che invece piaceva moltissimo a mia madre. Se ci capitava di trascorrere il Natale in Liguria, senza scendere a Bagheria per le feste, mio padre comprava immancabilmente il pandolce, senza però destare il mio entusiasmo, che andava invece nostalgicamente al ricordo della cassata siciliana (di cui sono stato sempre ghiotto e che all’epoca a quelle latitudini era pressoché introvabile, almeno nella sua veste “ortodossa”).
Negli ultimi anni sono tornato diverse volte a Genova; e in questi viaggi ho ritrovato, oltre a cari amici e tanti ricordi, anche il pandolce genovese. In ogni viaggio, infatti, ne ho comprato uno da Panarello in Via XX Settembre e devo dire che oggi mi piace il suo gusto semplice e asciutto, che preferisco ormai a certe varianti barocche dei panettoni che spadroneggiano tra i dolci natalizi.
Quest’anno, come già l’anno scorso, abbiamo ordinato un pandolce da Genova proprio alla ditta Panarello; ci è giunto puntualmente e attende di essere consumato nel giorno di Natale. Comunque, nell’improbabile ipotesi che ne dovesse avanzare qualche pezzo, nessun problema: il pandolce si mantiene fresco anche per un mese, poi si secca e si può conservare a lungo e resuscitare con un passaggio in forno.
Dunque, ci prepariamo anche quest’anno a gustare il pandolce, non senza ripetere la formula magica: “Vitta lunga con sto’ pan, prego a tutti sanitæ, comme ancheu, comme duman, affettalu chi assettae, da mangialu in santa paxe, co-i figgeu grandi e piccin, co-i parenti e co-i vexin, tutti i anni che vegnià, cumme spero Dio vurrià”.