Le “parasonnie” sono comportamenti anomali che si manifestano prima di addormentarsi, durante il sonno o al risveglio. Nella psicologia moderna viene studiata una forma rara di parasonnia del risveglio, che viene chiamata “sindrome di Elpenore” o “ubriachezza da sonno” (“sleep drunkenness”). Consiste nello stato confusionale o sub-confusionale, con amnesia e comportamenti automatici, che può comparire quando ci si sveglia improvvisamente da un sonno molto profondo (cosiddetta “fare REM”). Il fenomeno compare sporadicamente nei bambini e negli adolescenti; più raramente compare in adulti stressati dal superlavoro e in debito di sonno, spesso per l’assunzione occasionale di un ipnotico. Fra le cause possibili ci sono anche le bevute eccessive e/o il risveglio del soggetto in un luogo insolito e sconosciuto.
Il nome “mitico” della “sindrome di Elpenore” trae le sue origini dall’XI libro dell’Odissea. Odisseo, approdato nella nebbiosa terra dei Cimmeri, giunge al luogo indicatogli dalla maga Circe, dal quale gli sarà possibile evocare le anime dei morti. Inizia dunque una penosa processione di larve di defunti: «S’affollarono / fuori dall’Erebo l’anime dei travolti da morte, / giovani donne e ragazzi e vecchi che molto soffrirono, / fanciulle tenere, dal cuore nuovo al dolore; / e molti, squarciati dall’asse punta di bronzo, / guerrieri uccisi in battaglia, con l’armi sporche di sangue. / Essi in folla intorno alla fossa, di qua, di là, si pigiavano / con grida raccapriccianti» (vv. 36-43, trad. Calzecchi Onesti).
L’eroe viene preso da “verde orrore” (χλωρὸν δέος), ma poi ordina ai compagni di scuoiare e ardere le bestie precedentemente uccise; non permette però alle “teste esangui dei morti” di avvicinarsi al sangue, dovendo prima interrogare Tiresia.
A questo punto, però, inopinatamente, si presenta per prima a Odisseo l’anima del suo compagno Elpenore (Ἐλπήνωρ), morto in casa di Circe in circostanze misteriose, che ora vengono chiarite: “Venne per prima l’anima del mio compagno Elpènore, / perché non era sepolto sotto la terra ampie vie; / il corpo in casa di Circe l’avevamo lasciato, / incompianto e insepolto: altro bisogno premeva! / Io piansi a vederlo, provai pena in cuore / e a lui rivolto parole fugaci dicevo: / “Elpènore, come scendesti, sotto l’ombra nebbiosa? / Tu a piedi hai fatto più presto di me su nave nera”. / Così dissi e piangendo mi ricambiava parole: / “Divino Laerzíade, accorto Odisseo, / la mala sorte d’un nume m’ha perso e il vino infinito. / Di Circe sul tetto dormendo, scordai / di tornare all’alta scala per scendere: / a capofitto caddi dal tetto e l’osso del collo / mi ruppi, l’anima scese giù all’Ade” (vv. 51-65).
Come si vede, Elpenore ha avuto una morte accidentale e assai poco nobile: dopo essersi ubriacato, è cascato giù dal tetto della casa di Circe, rompendosi ingloriosamente l’osso del collo. E tuttavia quella morte così banale e inutile provoca una richiesta appassionata e incalzante: si nota infatti un implicito rimprovero all’eroe che nella fretta di partire (“altro bisogno premeva!”) ha lasciato il suo cadavere “incompianto e insepolto”.
Ora Elpenore rivolge a Odisseo una pressante preghiera: «Ora in nome dei vivi ti prego, che non sono qui, / della sposa, del padre che ti nutri bambino, / di Telemaco, l’unico figlio che in casa hai lasciato. / So che partendo di qui, dalla casa dell’Ade, / all’isola Eèa fermerai la solida nave. / Là, signore, ti prego di ricordarti di me; / oh, incompianto, insepolto (ἄκλαυτον καὶ ἄθαπτον) non lasciarmi laggiù, / partendo, ch’io non sia causa dell’ira divina per te, / ma bruciami con le mie armi, tutte quelle che ho, / e un tumulo alzami in riva al mare schiumoso: / ricordo di un uomo infelice, che anche i futuri lo vedano. / Fammi questo, e pianta sul tumulo il remo, / con cui da vivo remavo in mezzo ai compagni» (vv. 66-78).
Elpenore chiede il rituale funebre dovuto a tutti i defunti: proprio la mancanza di questo gli impedisce per ora di entrare nel regno dei morti (analogamente avveniva a Patroclo nel XXIII libro dell’Iliade). Lo sventurato, che come si è visto ha motivi fondati di rancore verso Odisseo, arriva persino a minacciarlo larvatamente: “ch’io non sia causa dell’ira divina per te”; insiste poi per ottenere “un tumulo… in riva al mare schiumoso”; e questo “ricordo di un uomo infelice”, sul quale sarà piantato un remo a memoria del rematore defunto, sarà visto anche dalle generazioni future. Come scrive Silvia Romani, “solo la memoria di chi resta, infatti, è in grado di strappare le ombre alla dimensione incolore e senza peso del regno dei morti e permette loro di riafferrare una parvenza di vita”.
Odisseo, punto sul vivo, promette di esaudire la richiesta: «Tutto, o infelice, ti farò e compirò». E sarà quello che farà immediatamente quando approderà di nuovo a Eea, presso Circe: «allora i compagni mandai al palazzo di Circe, / a prendere il corpo d’Elpenore morto. / […] E come il morto fu arso, e l’armi del morto, / alzato il tumulo, eretta in cima una stele, / piantammo in alto sul tumulo il maneggevole remo» (XII, 9-15). Tutto come era stato chiesto dal misero defunto.
La prima citazione della morte di Elpenore si trovava però alla fine del X libro; qui Odisseo, narrando ai Feaci la sua partenza dall’isola di Circe, aveva anticipato (da narratore interno ormai al corrente dei fatti) la vicenda dello sfortunato compagno: «Ma anche di là non condussi via senza perdite i miei. / Elpènore era il piú giovane, e molto gagliardo / in guerra non era, e nei pensieri non molto connesso; / questi, lontano dai suoi compagni, sul sacro tetto di Circe, / frescura cercando, s’era steso ubriaco; / dei compagni già in moto il chiasso e le voci sentendo, / si destò all’improvviso e scordò nel suo cuore / di ritornare all’alta scala per scendere, / e a capofitto cadde dal tetto: l’osso del collo / gli si spezzò, l’anima scese giù all’Ade» (X 551-560).
A leggere attentamente, in questa parte “prolettica” si notano alcuni dettagli in più rispetto a quelli che l’ombra di Elpenore comunicherà a Odisseo: infatti, se la descrizione fisica e psicologica del compagno (“giovane, e molto gagliardo” ma “nei pensieri non molto connesso”, come a dire che era piuttosto stupidotto) va attribuita tutta all’eroe protagonista, altri particolari (Elpenore che cerca frescura sul tetto e che viene svegliato improvvisamente dal chiasso e dalle voci dei compagni) non rientrano fra le parole del defunto, ma costituiscono un “di più” che logicamente non quadra, anche se di questo ben pochi spettatori della “performance” rapsodica orale si saranno accorti.
La storia del giovane e sventurato Elpenore, comunque la si guardi, è per lo meno curiosa e sicuramente emblematica. Tutti conoscono il Tersite dell’Iliade, ma pochi forse hanno presente quest’altro personaggio umile, destinato per di più a una fine antieroica, più “comica” che “epica” (ammesso che la fine di un essere umano possa mai essere comica).
Elpenore è l’emblema dell’uomo mediocre, ingenuo e avventato, istintivo e poco affidabile, incapace di riflettere, succube dei piaceri (“il vino infinito”) e mal visto dagli dèi (“la mala sorte d’un nume”).
E tuttavia la fortuna letteraria di questo “uomo qualunque” è straordinaria.
Anzitutto Elpenore ispirò Virgilio, che realizzò un “remake” della sua vicenda nell’Eneide, narrando la morte assurda del nocchiero Palinuro: questi era caduto in mare di notte, tradito dal dio Sonno, mentre conduceva la flotta di Enea verso l’Italia; giunto a nuoto in un’isola vicina, vi era stato ucciso dagli indigeni. Anche in questo caso l’ombra di Palinuro chiederà a Enea, quando questi scenderà agli inferi, di dargli una degna sepoltura (VI 365).
Un’ulteriore affinità con Elpenore si può cogliere, sempre nell’Eneide, nella sorte del trombettiere Miseno, morto per la sua empia superbia (ὕβϱις) perché aveva osato sfidare in una gara musicale Tritone, figlio del dio del mare Poseidone (VI 171-174); il dio lo aveva affogato ed il cadavere di Miseno fu ritrovato sulla battigia dai suoi compagni, che gli dedicarono il dovuto rito funebre; in sua memoria fu chiamato Miseno il promontorio campano dove fu ritrovata la salma.
Molti scrittori moderni si ricordarono di Elpenore: basti ricordare qui James Joyce (che nel suo Ulisse si ispirò a lui con il personaggio di Patrick “Paddy” Dignam), Jean Giraudoux (che nel 1919 gli dedicò la novella umoristica Elpénor), Ezra Pound (che fa riferimento a lui nella sua poesia Hugh Selwyn Mauberley e nel primo dei suoi Cantos) e diversi poeti greci: il premio Nobel Yorgos Seferis (nella poesia Il sensuale Elpenore), Takis Sinopulos e soprattutto Yannis Ritsos (nelle sue Testimonianze).
In particolare Ritsos vede in Elpenore e nei suoi compagni gli antenati dei proletari di oggi, devastati dalla cattiva sorte e in balia dei più potenti e dei più ricchi: «Quale il loro guadagno con Odisseo, / andati alla morte dentro il turbine / e dopo tante inutili imprese, / vivendo con carne rubata, incatenati al tavolo dei remi, / tutto ciò perché lui si godesse una bella fama / e giacesse tutta la notte con la dea? / I loro nomi non sono stati incisi sul bronzo».
Infine, come ulteriore consolazione postuma, Elpenore è diventato un personaggio di due odierni videogiochi: “Rock of Ages 3 / Make and break” (dove è addirittura il protagonista) e “Assassin’s Creed Odyssey”, ambientato in Grecia nell’anno 431 a.C. (con prospettiva cronologica per lo meno discutibile). Sicuramente, nell’Ade, il poveraccio sarà consolato da un così grande onore; valeva la pena di rompersi l’osso del collo per fare divertire i ragazzi del XXI secolo…