Il mito di Pigmalione

Nel X libro delle “Metamorfosi” il poeta latino Ovidio (vissuto al tempo dell’imperatore Augusto) narra la storia delle Propetidi (“Propoetides”); esse erano delle fanciulle nate nella città di Amatunte, nell’isola di Cipro, che avevano osato negare la divinità di Venere; colpite dall’ira della dea, furono indotte ad “inventare” la prostituzione: «furono le prime, a quanto si dice, a far commercio della loro bellezza, prostituendo i loro corpi”; per punirle, la dea le trasformò in pietre» (X 238-242; uso qui la traduzione di Giovanna Faranda Villa).

La vita colpevole delle Propetidi indigna in modo particolare uno scultore cipriota, Pigmalione, che in questa vicenda trova la conferma dei suoi pregiudizi sulle donne, ribadendo così la sua intenzione di vivere “da celibe”: «indignato dai difetti di cui la natura aveva abbondantemente dotato la donna, aveva rinunciato a sposarsi e passava la sua vita da celibe, dormendo da solo nel suo letto» (X 244-246).

L’artista vive una vita solitaria, rischiarata soltanto dal suo talento. Ma un giorno proprio la sua “mira ars” (v. 247), cioè la sua straordinaria abilità artistica, unita al tacito desiderio di metter fine alla sua solitudine, induce Pigmalione a scolpire una statua in avorio, che raffigura una bellissima fanciulla: «scolpì in candido avorio una figura femminile di bellezza superiore a quella di qualsiasi donna vivente» (vv. 248-249).

A questo punto succede una cosa strana e imprevedibile, perché lo scultore “si innamorò della sua opera” (“operisque sui concepit amorem”, v. 249). Ciò dipende dal fatto che la statua è così perfetta e splendida da sembrare viva: «Questa aveva l’aspetto di una fanciulla vera, tanto che la si sarebbe creduta viva e desiderosa di muoversi, se non l’avesse impacciata il pudore» (vv. 250-251).

Insomma, «l’arte era tanto grande da non apparire addirittura» (“ars adeo latet arte sua”, v. 252); in altre parole, «la donna d’avorio sembra addirittura superiore a qualsiasi donna reale […] – necessariamente imperfetta – e può quindi innescare un sottile gioco di scambi e di apparenze con la vita reale e la reale convivenza […]: la “verità” dell’arte si intreccia con la “verità” dell’affetto da essa suscitato» (Luca Canali).

Nelle notizie, più o meno leggendarie, di storia dell’arte non mancano esempi analoghi di opere ritenute così perfette da sembrare vere: Plinio il Vecchio racconta che, quando il pittore Zeusi dipinse un fanciullo che portava l’uva, gli uccelli volarono su di essa credendola vera (“Historia naturalis” XXXV 66); il Vasari riferisce che il giovane Giotto, quando era ancora nella bottega del suo maestro Cimabue, “dipinse una volta in sul naso d’una figura che esso Cimabue avea fatta una mosca tanto naturale, che tornando il maestro per seguitare il lavoro, si rimise più d’una volta a cacciarla con mano pensando che fusse vera, prima che s’accorgesse dell’errore”; è nota poi la leggenda legata alla realizzazione del “Mosè” di Michelangelo, secondo cui lo scultore, contemplando la sua opera e meravigliandosi del realismo delle sue forme, avrebbe esclamato con rabbia «Perché non parli?», percuotendone il ginocchio con il martello che impugnava.

Nella storia ovidiana però c’è qualcosa di insolito, dato che Pigmalione per la sua statua “concepisce una passione ardente”, finendo per autoilludersi e per crederla reale, corteggiandola e amandola come se fosse una ragazza in carne e ossa: «Spesso allunga le mani verso la sua opera per accertarsi se si tratti di carne o di avorio e nemmeno dopo il contatto ammette che sia avorio. La bacia e gli sembra di essere baciato, le parla, la stringe e crede che le sue dita affondino nelle membra che tocca: teme perfino che per la pressione spuntino dei lividi sulla pelle. E la colma di tenerezze, e le porta quei doni che le fanciulle amano: conchiglie, sassolini levigati, piccoli uccelli, fiori variopinti, gigli, palle colorate e gocce d’ambra dall’albero delle Eliadi. Le mette anche addosso dei bei vestiti, le infila anelli mette anche addosso dei bei vestiti, le infila anelli alle dita e lunghe collane intorno al collo; pendono dalle orecchie perle leggere, dal petto catenelle. Tutto le sta bene: però nuda non appare meno bella. Il giovane la depone su tappeti tinti con la porpora Sidonia, la chiama sua amante, le fa appoggiare la testa su morbidi cuscini di piume, come se lei se ne rendesse conto» (vv. 254-269).

“Pigmalione e Galatea” di Jean-Léon Gérôme (1890, olio su tela)

Come si vede, il comportamento di Pigmalione è “romantico” e alieno da ogni eccesso sensuale: egli si limita a colmare di attenzioni e tenerezze la sua creatura, “come se lei se ne rendesse conto” (“tamquam sensura”, v. 269). Questa passione totalizzante ricorda casi analoghi (ma ben più sensuali e morbosi) di “agalmatofilia” (cioè “amore per una statua”) documentati da varie fonti antiche: Valerio Massimo ricorda che Prassitele realizzò una statua nuda di Afrodite, che fu posta nel tempio della dea a Cnido ed “era così bella, che non riuscì a proteggersi dall’amplesso di un maniaco sessuale” (VIII, 11, ext. 4, trad. Faranda); sempre a proposito di questa statua, anche l’apologista cristiano Arnobio (III-IV sec.) ricorda come un giovane di Cnido se ne fosse invaghito, desiderando congiungersi con essa (“Adversus nationes” VI 22); lo stesso racconto ritorna negli “Amori” dello Pseudo-Luciano (cap. 13-16); inoltre nella “Storia varia” di Eliano e nei “Deipnosofisti” di Ateneo sono citati altri esempi di individui attratti irresistibilmente da un “simulacrum”.

Il nostro Pigmalione, però, è presentato da Ovidio come un’anima candida e pudica; c’è da credere perciò che egli vivesse il suo amore impossibile alternando momenti di felicità illusoria ad altri di più amara consapevolezza.

Non a caso, quando giunge il giorno della festa di Venere, Pigmalione porta un dono all’altare della dea; in quell’occasione, rivolto a tutti gli dèi, formula un’appassionata preghiera: «“O dèi, se è vero che voi potete concedere tutto, io ho un desiderio: vorrei che fosse mia sposa…” e non osa dire “la fanciulla d’avorio” ma dice “una donna simile a quella d’avorio!”» (vv. 274-276).

La richiesta dello scultore è esitante, pudica, elusiva: non osa chiedere direttamente il miracolo, cioè la trasformazione della sua statua in una ragazza vera, ma auspica soltanto di poter sposare una donna simile a lei. Gli dèi però capiscono tutto; e Venere, in particolare, «percepisce il significato reale di questa supplica» (vv. 277-278); ecco dunque che nel tempio «la fiamma, interprete della benevolenza della dea, tre volte si riaccende e guizza verso l’alto» (vv. 278-279).

Tornato a casa, Pigmalione si sdraia sul letto accanto alla sua statua e la abbraccia; a questo punto avviene la metamorfosi, descritta da Ovidio con la sua abituale abilità narrativa, che evidenzia soprattutto le sensazioni tattili: «prende a baciarla: gli sembra di incontrare qualcosa di tiepido. Di nuovo accosta la bocca e le tocca il petto con le mani: al tocco l’avorio si ammorbidisce, deponendo la sua rigidità; cede sotto le dita come la cera dell’Imetto si fa morbida al sole e, lavorata dal pollice, assume varie forme e rende di più quanto più la si usa. Il giovane resta attonito, quasi si lascia andare alla gioia ma teme di ingannarsi: pieno d’amore torna a toccare più e più volte l’oggetto dei suoi desideri: è proprio un corpo vivo! Le vene pulsano sotto la pressione del pollice» (vv. 281-289).

“Pigmalione e Galatea” di Anne-Louis Girodet de Roussy-Trioson (1819)

La statua è ormai una ragazza vera, che palpita sotto i baci del suo amante impazzito di gioia: «Finalmente preme le sue labbra su una bocca vera e dà dei baci che la fanciulla sente: arrossendo ella leva timidamente verso di lui lo sguardo e ai suoi occhi appare contemporaneamente la visione del cielo e quella dell’uomo che l’ama» (“ad lumina lumen / attollens pariter cum caelo vidit amantem”, vv. 291-294). Pochi giorni dopo, avvengono le nozze, alla presenza di Venere: «La dea presenzia al matrimonio di cui è stata artefice» (v. 295). Nove mesi dopo la sposa (chiamata in altre fonti “Galatea”) genera un bambino cui viene dato il nome di Pafo, da cui prenderà il nome l’omonima città dell’isola di Cipro.

Ovidio riprende il personaggio di Pigmalione da altre fonti antiche, in particolare da un tale Filostefano di Cirene, vissuto in età ellenistica ed autore di una raccolta di “mirabilia” (cioè di “fatti straordinari”). In questa versione originaria del mito Pigmalione non era uno scultore, ma il re di Cipro, che si innamorava di una statua d’avorio raffigurante Afrodite nuda, arrivando al punto di unirsi con lei in amore.

La trasformazione ovidiana di Pigmalione in un artista modifica ed amplia il significato della vicenda; qui non si tratta più di una sensuale vicenda “boccaccesca”, ma dell’analisi di diversi temi importanti: il rapporto evanescente fra realtà e illusione, la superiorità dell’arte nei confronti della natura, il legame profondo fra artista-creatore e opera d’arte-creatura, l’impossibilità di raggiungere nella realtà l’oggetto del proprio amore; nel mito di Pigmalione, come ha scritto Eduard Fraenkel, “l’artista crea la perfezione che non può trovare nella realtà e umanamente se ne innamora”.

Come è noto, il nome di Pigmalione è stato associato per antonomasia alla figura di chi riesce a sviluppare e valorizzare le qualità e le doti di un’allieva o di un allievo. Il passaggio a questo significato avvenne grazie all’opera teatrale “Pygmalion” (1914) del drammaturgo irlandese George Bernard Shaw, ispirata al mito ovidiano. In “Pygmalion” Henry Higgins, professore di fonetica, scommette con un suo amico, il colonnello Pickering, che riuscirà a trasformare la rozza fioraia Eliza Doolittle in una raffinata donna degna di frequentare i salotti della buona società, insegnandole i modi e il linguaggio usati nelle classi più elevate. Al termine l’impresa riesce perfettamente, ma Eliza annuncia che sposerà un gentiluomo povero ma di nobili sentimenti.

La vicenda è stata riproposta nel famoso musical di Broadway “My fair lady”, da cui fu tratto un fortunatissimo film di George Cukor con Rex Harrison ed Audrey Hepburn (1964); in questo film la svolta decisiva nella “educazione” di Eliza avviene quando lei (che nella versione italiana si è finora espressa con un grottesco accento pugliese) riesce a cantare correttamente la banale canzoncina “La rana in Spagna gracida in campagna”.

Un’ultima importante annotazione: in psicologia esiste il cosiddetto “effetto Pigmalione”. Secondo questa teoria, se i docenti pensano che un bambino sia poco dotato tendono a trattarlo (magari inconsciamente) in modo diverso e meno favorevole; di conseguenza il bambino, percependo la scarsa stima dell’insegnante, tenderà a interiorizzarne il giudizio e a diventare proprio come l’insegnante lo aveva immaginato.

La prospettiva deve essere perciò capovolta: il maestro deve far capire all’allievo, in modo sincero e convincente, che ha fiducia in lui e nei suoi mezzi, anche quando le apparenze sembrerebbero sfavorevoli. L’“effetto Pigmalione” può manifestarsi non solo in ambito scolastico, ma anche in altre situazioni, ad es. nel rapporto di lavoro fra dirigenti e dipendenti, in ambito familiare nelle relazioni fra genitori e figli e, insomma, in tutti quei contesti in cui si sviluppino rapporti sociali.

Queste teorie furono attuate dall’équipe del ricercatore americano Robert Rosenthal negli anni Sessanta del secolo scorso, in una scuola elementare californiana; da qui deriva l’altra denominazione dell’“effetto Pigmalione”, cioè “effetto Rosenthal” o “profezia che si autoavvera”.

Di Mario Pintacuda

Nato a Genova il 2 marzo 1954. Ha frequentato il Liceo classico "Andrea D'Oria" e si è laureato in Lettere classiche con 110/110 e lode all'Università di Genova. Ha insegnato nei Licei dal 1979 al 2019. Ha pubblicato numerosi testi scolastici, adottati in tutto il territorio nazionale; svolge attività critica e saggistica. E' sposato con Silvana Ponte e ha un figlio, Andrea, nato a Palermo nel 2005.

1 commento

  1. Carissimo Prof, la storia di Pigmalione,rappresentata come lei sa fare, stuzzica il lettore ad avere sempre sete di sapere. Quanto alla metafora che se ne deduce mi vede in linea con le sue conclusioni. Motivare, stimolare in maniera sincera o sana si traduce nel far sentire l’altro utile a se stesso e socialmente. Tutti esercitiamo un ruolo in società, tutti siamo collegati ed interdipendenti. Tuttavia questa visione, necessaria nei rapporti umani, è sempre meno presente.

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