Il 17 febbraio 1946, su “Domenica – Rivista illustrata del Giornale di Sicilia”, mio padre, Salvatore Pintacuda, allora critico musicale del giornale, pubblicò un suo piacevole articolo intitolato “Gazzarre e tumulti al Real Teatro Santa Cecilia”.
Vi era narrato un episodio avvenuto nel 1771 al Teatro Santa Cecilia di Palermo; questo teatro, ubicato nella omonima piazzetta, era stato fondato dall’Unione dei Musici nel 1692, con il contributo della nobiltà e del Viceré Uzeda, diventando il più importante teatro cittadino per gli spettacoli di musica sacra, lirica e sinfonica (e tale restò sino alla costruzione dei teatri neoclassici Politeama, Massimo e Biondo).
Nella stagione musicale del 1771 fra le artiste scritturate c’era “la prima cantante d’Italia”, la soprano romana Caterina Gabrielli, allora quarantunenne; era detta “la Cochetta” poiché suo padre era un cuoco del principe Gabrielli; dal principe, poi, la cantante aveva tratto anche il suo nome d’arte (essendo invece il suo vero cognome Fatta). Aveva studiato canto a Roma con il compositore spagnolo Francisco Javier García Fajer (in Italia noto come Francesco Saverio Garzia) e a Venezia con Nicola Porpora; debuttò a Lucca a 17 anni, nel 1747, dando inizio a una carriera ricca di successi in Italia e all’estero (fu anche a Vienna, ove cantò per il Burgtheater sino al 1758, esibendosi nelle opere di Gluck, a San Pietroburgo e a Londra). In quell’anno 1771 risiedeva a Palermo, da dove poi lo stesso anno si recò a Milano conoscendovi il giovane Wolfgang Amadeus Mozart.
La “Cochetta” aveva un enorme seguito di “fans” che la idolatravano, ma a Palermo alla sua purissima arte canora venivano preferite dai nobili (evidentemente di palato meno raffinato del loro rango) le “piroette” di una seducente ballerina, detta “la Francesina”. Inutile dire che la Gabrielli mal sopportava di doversi contendere il successo “con una volgare ballerina”, a parte il fatto che tra il pubblico nascevano continue polemiche e accesi battibecchi fra i seguaci dell’una e quelli dell’altra.
Lo scandalo era nell’aria ed esplose il giorno in cui il vicerè Fogliani, avendo invitato la Gabrielli a Palazzo Reale per un pranzo d’onore, ne ebbe “un rifiuto netto e reciso”. Il “gran rifiuto” fece scalpore in tutta Palermo e suscitò la protesta dei nobili; essi allora assoldarono “una combriccola, ben retribuita, di scalmanati, armati di chiavi, fischietti, trombette e di nodosi bastoni” e la inviarono allo spettacolo della sera.
A teatro la tensione è altissima ed è soltanto momentaneamente placata dall’arrivo del Capitano giustiziere, Principe di Torremuzza. Quando però la Gabrielli viene in scena, appare “nervosa e fremebonda” e “un timido tentativo di applausi viene subito soffocato da un’irrompente reazione di proteste”. La cantante canta sottovoce, svogliatamente, “senza grazia, senza espressione, senza una pur lieve sfumatura”: insomma una performance davvero agli antipodi della sua fama.
Le proteste si fanno vibranti e piovono insulti (“Mandatela in cucina, la Cochetta!”), che coprono gli applausi dei sostenitori della cantante. Costei, però, ne ha abbastanza: “irritata, rientra nel suo camerino e vi si chiude a chiave imprecando contro tutto e contro tutti in preda ad un violento attacco isterico”.
Il principe di Torremuzza in persona piomba a questo punto nel camerino della Gabrielli invitandola a tornare in scena; ma la donna oppone un ostinato e irremovibile rifiuto; il capitano allora la spedisce nelle carceri del comune, sia pure “con i dovuti riguardi e in elegante portantina”.
Ma non tutto il male vien per nuocere: anzitutto i detenuti del carcere e i poveri della città furono rallegrati per dodici giorni (tanto durò la sua detenzione) dal canto, tornato sublime, della “Cochetta”; poi l’intera Palermo reclamò la liberazione della cantante, che infine fu trionfalmente rilasciata; e alla porta del carcere trovò “un fitto gruppo di mendicanti che la aspetta per ringraziarla, applaudirla e accompagnarla a casa in trionfo”.
Un episodio interessante, come si vede, che ci restituisce in modo vivo e coinvolgente uno spaccato di un’epoca, di una società e di una città; lo stile ironico dell’articolista contribuisce a rendere la lettura piacevole.
Riporto qui di seguito il testo integrale dell’articolo.
GAZZARRE E TUMULTI AL REAL TEATRO SANTA CECILIA
L’impresa del Real Teatro Santa Cecilia non ha badato a spese, e la stagione musicale dell’anno 1771 si svolge ricca di attrattive, con artisti rinomati, con nuove opere e nuovi balli appositamente composti dai musicisti più in voga per i raffinati gusti del rispettabile pubblico palermitano.
Il teatro è tutte le sere insolitamente rigurgitante di spettatori e tra di essi, oltre al popolo minuto, quello cioè uso a ricevere sulle parrucche e sui tabarri lo sgocciolio delle candele, i gusci delle noccioline e le carte dei dolci, vi sono anche le più belle dame, la nobiltà più dorata, i più eletti gentiluomini dell’aristocrazia che hanno disertato il piccolo teatro Santa Lucia della “Calata dei Giudici” (ritrovo preferito di mondani e gaudenti) per affollare la splendida sala del Santa Cecilia.
Fra le artiste di canto scritturate c’è la famosissima Caterina Gabrielli, allieva del Porpora e del Metastasio, la prima cantante d’Italia, l’“Angiolo terrestre” come l’ha chiamata il Parini, suo ardente ammiratore, la “Cochetta” come la chiama il popolo, perché figlia di un cuoco del Principe Gabrielli. È inutile dire che il successo vero della stagione è dovuto a questa virtuosa “cantarina” che ogni sera, con la sua arte incomparabile, fa impazzire d’entusiasmo tutta la platea.
I nobili e blasonati signori invece, che hanno una antipatia istintiva per la musica seria, alla voce purissima della Gabrielli preferiscono le piroette della Francesina, una spigliata e affascinante ballerina che è riuscita ad adescare numerosi zerbinotti con i suoi vezzi e con le sue danze maliarde; e ogni sera, in attesa del balletto finale, per non annoiarsi durante le barbose rappresentazioni tragiche, tutto l’olimpo dei quattro gironi di palchetti rossi non fa che conversare animatamente e rumorosamente, sgranocchiare noccioline, consumare qualche confortevole spuntino, infischiandosene del bel canto della Gabrielli e dei tristi casi di Enea e Lavinia, di Antigone o Armida.
La Cochetta, capricciosa, ambiziosa e bizzarra, mal sopporta di doversi contendere il successo con una volgare ballerina, ed anche il pubblico mal sopporta che le esecuzioni vengano disturbate dagli strepiti e dai cicalecci dei galanti cicisbei, sì che ad ogni rappresentazione, fuori programma, tra palchetti e platea, sono schermaglie di apostrofi, battibecchi, che il gesto autorevole di qualche birro riesce a stento a frenare per il buon andamento dello spettacolo.
«Vedrete – si mormora in platea – vedrete che una di queste sere scoppierà un pandemonio in teatro… – Che teste sventate questi nobili cavalieri!… Si lasciano abbindolare dalle piroette di una ballerina sperperando senza giudizio centinaia e migliaia di onze! – Che tempi !… Che vergogna!… È inutile però che i nobili assoldino i “partitanti” per applaudire la Francesina; la Cochetta ha la voce d’un angelo, vale cento ballerine e gode già tutta la stima e il favore del popolo… – Vedrete però che scandali e che gazzarre una di queste sere !…».
E arriva, infatti, la serata burrascosa. I primi nuvoloni cominciano ad addensarsi fin dal mattino, quando S. E. il Vicerè Fogliani invita la Gabrielli a Palazzo Reale per un pranzo d’onore e si ha da lei un rifiuto netto e reciso.
«Dite a S. E. che ho dimenticato il suo invito e… non posso intervenire al banchetto». Così risponde la capricciosa cantante al lacchè di Palazzo Reale, e la notizia del “gran rifiuto” si diffonde in un baleno in città, gonfiata col lievito della maldicenza e del pettegolezzo.
Per vendicare l’affronto gli elegantoni dei palchi mandano la sera a teatro una combriccola, ben retribuita, di scalmanati, armati di chiavi, fischietti, trombette e di nodosi bastoni, pronti a picchiar sulle spalle di chi potesse trovar qualcosa da ridire. Già un’ora prima dell’inizio dello spettacolo la platea è gremitissima di una folla inquieta, e in quel pigia pigia serrato e rumoroso, in quell’atmosfera arroventata ribollono malumori ostili che mettono in ognuno una sete di scandalo. Nell’attesa tutti fanno un fracasso indiavolato con sussurri, strepiti, tramestio di piedi sotto le panche, risate sgangherate e qualche fischio sibilante, per provare gli strumenti.
L’arrivo inaspettato del Capitano giustiziere, Principe di Torremuzza, seguito da un compatto stuolo di birri, fa per un attimo ammutolire i più infiammati mormoratori, chè tutti sanno quanto ii Principe sia inflessibile e severo nell’esercizio delle sue capitaniali funzioni. Di questo momentaneo silenzio si approfitta per dare inizio alla rappresentazione e dopo un breve preludio orchestrale, su un tremolo sommesso di violini, si ode il cigolio del sipario sulle carrucole, come l’ammainar delle vele di una nave in procinto di affrontare la bufera.
Quando appare sulla scena, nervosa e fremebonda, la Cochetta, scoppia il temporale. Un timido tentativo di applausi viene subito soffocato da una irrompente reazione di proteste e la cantante, per dispetto, canta l’aria sottovoce, con negligenza e ostentata svogliatezza, senza grazia, senza espressione, senza una pur lieve sfumatura. La platea allora comincia ad agitarsi, ad ammusonirsi, a brontolare. Si leva un coro di proteste, un sussurro che a poco a poco diviene mormorio e poi tumulto:
«Più forte! …Voce! – Basta! basta! – Vogliamo il balletto! – Silenzio! – Finiamola! – Viva la Francesina! – Viva la Cochetta! – Mandatela in cucina, la Cochetta! – Giù il sipario!…».
Volano da un campo all’altro grosse contumelie, sulla volta dorata del Santa Cecilia riecheggia furiosamente, tremendamente, un uragano di fischi, si levano in alto, come spade di guerra, i nodosi bastoni. La Gabrielli, irritata, rientra nel suo camerino e vi si chiude a chiave imprecando contro tutto e contro tutti in preda ad un violento attacco isterico:
«Non voglio più cantare, non metterò più piede sulle tavole del Santa Cecilia; sono stanca di vedermi attorno questi musi ingrugniti, questi energumeni d’inferno. Non canterò più neanche se verrà a pregarmi il Vicerè in persona…»
Un calcio furioso sganghera la porticina del camerino e appare, piombato giù dai palchi, il Principe di Torremuzza:
«Che novità son queste? Sentite come protesta il pubblico? Su, presto, rientrate in scena e cantate come sapete cantare».
«Non canto, no, crollasse giù il teatro, io non canto».
« E invece voi canterete perché ve l’ordina il Capitano Giustiziere».
«Me ne infischio della vostra autorità. Non ho paura di nessuno».
«Paura o no, in scena andrete!»
«No, no e poi no. Piuttosto piangere potete farmi, ma non cantare…».
E piange, la Cochetta, piange per la bile e il dispetto nelle carceri del Comune, alla Carboniera, dove il Capitano giustiziere la spedisce per punizione, con i dovuti riguardi e in elegante portantina.
In prigione rimane dodici giorni, e sono, passata la rabbia e svaporato lo sdegno, giorni di festa edi tripudi per i detenuti del carcere e i poveri della città cui la Cochetta prodiga – premurosa e caritatevole – la dolcezza del suo canto, la gioia del suo sorriso e il confortevole sollievo di elemosine e liete imbandigioni.
Tutta la città ne reclama la liberazione, e quando il Vicerè ordina il suo rilascio la Gabrielli trova alla porta del carcere un fitto gruppo di mendicanti che la aspetta per ringraziarla, applaudirla e accompagnarla a casa in trionfo.
SALVATORE PINTACUDA
17 febbraio 1946
Non posso che ammirare la straordinaria competenza e l’abilità narrativa del maestro Pintacuda di cui il figlio è in tutto e per tutto degno erede. Mi pare evidente che alla cantante sia stata tirata una trappola e che la presenza del capitano di giustizia a teatro non sia stata affatto casuale. Anni dopo un analogo episodio si sarebbe verificato al Regio teatro Carlino. Dalla ” Storia dell’Università di Palermo dalle origini al 1860″ di Orazio Cancila:
“Un tale Vincenzo Viviani, presumibilmente studente, aveva mostrato
in aula una sua composizione poetica al professore Castiglia, che
si lasciò andare a un commento irriguardoso nei confronti del
principe di Granatelli al quale era dedicata: «Avete fatto la dedica
al più coglione e briccone degli uomini!». Scalpore in città e intervento
del cavaliere Luigi Maccagnone, fratello del principe, il
quale si mise alla ricerca del Castiglia per un chiarimento, che avvenne
in via Toledo, attuale corso Vittorio Emanuele, nei pressi
dell’Università (25 gennaio 1840). Castiglia non negò l’episodio e
da ambedue le parti si passò alle vie di fatto. Intervento di tale Antonio
D’Onofrio, con invito al Maccagnone di seguirlo alla marina
per un ulteriore chiarimento, conclusosi con nuove contumelie
e nuove reciproche percosse. Mentre Castiglia si allontanava
lungo la via Toledo, all’altezza della libreria di monsieur Beuf incontrò
il principe in persona munito di bastone, contro cui egli
poté opporre solo le mani. Conclusione: tranne il principe, tutti
finirono in carcere, tramutato qualche giorno dopo in arresti domiciliari.
I genitori degli studenti denunciavano quindi episodi ampiamente
noti e giustificavano la forma anonima con il fatto che «il
Castiglia è circuito da tanti giovinastri del partito dell’Hallez, i
quali sarebbero pronti a procedere ad ogni insulto, come hanno
fatto in teatro e come costa al Governo». A margine della lettera
anonima, mons. Balsamo annotò: «si faccia rapporto al Governo
narrando i fatti … onde abilitare la Commissione a mettervi un altro
interino e intanto facciasi al rettore ufficio perché si astenga il
Castiglia fino a nuova disposizione di dar lezioni». E a sua volta il
rettore annotava sotto: «i fatti che si espongono in questa supplica
l’ho inteso dire, e non possono non tornare in disonore dell’Università,
per cui io mi era riserbato informarnela venendo in Palermo». E fu così che Benedetto Castiglia si ritrovò esonerato dall’incarico
di insegnamento dell’Eloquenza latina. Molto probabilmente
il governo colse l’occasione dello scontro con il principe di
Granatelli, mazziniano, per liberarsi di Castiglia. Uno scontro che
non poteva avere motivazioni politiche, perché entrambi, Castiglia
e Granatelli, politicamente si ritrovavano sulle stesse posizioni
ed entrambi dopo il 1848 saranno costretti all’esilio (Granatelli
vi morirà a Genova nel 1857). E d’altra parte anche il trapanese
Gaetano Daita, che nel marzo 1840 prenderà il posto di Castiglia,
era un mazziniano. Alla radice della «baruffa» tra Castiglia e
Granatelli c’era perciò proprio la rivalità tra le due primedonne
del teatro palermitano, la francese Emilia Hallez e l’austriaca
Francilla Pixis, che vedeva i due schierati su opposte posizioni e
che aveva già prodotto non pochi tafferugli e disordini. A Castiglia,
ad esempio, dopo gli schiamazzi del 30 novembre 1839 alla
recita dei Capuleti e Montecchi, conclusisi con parecchi arresti, era
stato inibito l’ingresso al Teatro Carolino. Nei disordini di quel
giorno venne coinvolto anche il sedicenne Salesio Balsano, che
sarà sindaco di Palermo subito dopo l’unificazione. Gli scontri,
non soltanto verbali, continuarono nei mesi successivi e toccarono
anche i circoli cittadini, costringendo nel marzo 1840 il luogotenente
generale ad accettare il consiglio del prefetto di polizia e
ad allontanare le due donne dalla città
Ti ringrazio sempre per la tua attenzione e per i tuoi preziosi contributi. Un abbraccio.