Nel II libro delle sue Storie, ai capitoli 65-76, Erodoto presenta le notizie da lui raccolte sugli animali sacri dell’Egitto; rifuggendo dall’addentrarsi nell’analisi delle “cose divine” (τὰ θεῖα πράγματα), l’autore si sofferma sulla descrizione degli animali e su alcune curiosità relative al loro culto.
Riguardo a tale culto, “Erodoto non esagera molto. Gli scrittori antichi menzionano circa trentaquattro specie di animali sacri, ma la documentazione egiziana dimostra che questo numero è troppo basso… Alcuni animali erano ritenuti sacri in tutto il paese, p. es. la vacca di Hathor, l’ibis di Thoth e il falco di Horo. Molti invece solo in alcune regioni specifiche” (A.B. Lloyd, Le Storie – Libro II, Milano 19963, p. 284).
Il culto degli animali era basato sulla credenza che essi possedessero dei poteri misteriosi (ad es. si credeva che l’ibis preannunciasse le piene fecondatrici del Nilo e che la fenice fosse un simbolo di resurrezione); il rituale in onore delle bestie equivaleva dunque a una sorta di captatio benevolentiae nei loro confronti.
In più occasioni Erodoto cita le proprie fonti, che sono quelle da lui solitamente usate: 1) la òpsis (ὄψις), cioè l’osservazione personale, nel caso ad es. del dipinto che raffigura la fenice (73, 1) o del cimitero dei serpenti in Arabia (75, 1); 2) l’akoè (ἀκοή), cioè le narrazioni delle varie popolazioni (a 75, 4 si ha un caso – insolito – di piena concordanza tra fonti arabe ed egizie a proposito delle cause della venerazione dell’ibis). Non vengono citate le fonti letterarie, ma gli antichi commentatori rivelano che per questi capitoli Erodoto seguiva in gran parte Ecateo.
A volte l’autore interviene con una sua ghnòmē (γνώμη), cioè con un commento esplicito; ciò avviene ad es. a 73, 3, ove egli respinge come indegne di fede le notizie sul volo della fenice; in casi del genere, “non credere ciecamente a tutto quanto si dice è il primo passo verso la critica” (D. Asheri, Le Storie – Libro I, Milano 1990, p. XXXVII).
Molte sono le notizie inesatte e le ingenuità sparse qua e là in tutta la sezione: ad es. Erodoto crede davvero che il coccodrillo non mangi nei quattro mesi invernali (68, 1) o che non abbia la lingua (68, 3), ritiene che l’ippopotamo abbia la criniera di cavallo (71) e sbaglia nei dettagli della descrizione dell’ibis.
Occorre però ricordare che la destinazione orale della narrazione erodotea giustificava (e in un certo senso prevedeva) le esagerazioni e le incongruenze, in vista di un maggiore coinvolgimento dell’uditorio; questo sarà rimasto meravigliato e affascinato dalle sorprendenti notizie su queste bestie esotiche, applaudendo incondizionatamente la performance dell’autore.
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Nel cap. 73, in particolare, Erodoto riferisce le notizie sulla fenice; si tratta di un uccello sacro, che l’autore afferma di aver visto solo dipinto poiché, come gli hanno detto gli abitanti di Eliopoli, viene in Egitto ogni 500 anni. Viene descritto il suo aspetto e una sua particolare impresa: dopo averlo avvolto in un letto di mirra, trasporterebbe il padre nel santuario del sole, e ivi lo seppellirebbe.
Ecco il testo del capitolo, nella traduzione di Augusto Fraschetti: «C’è anche un altro uccello sacro: si chiama fenice. Io, però, l’ho visto solo in pittura. Di rado infatti compare tra di loro: come dicono gli abitanti di Eliopoli, ogni cinquecento anni. Dicono che venga quando gli muore il padre. Se è come lo si dipinge, ha queste dimensioni e questo aspetto: alcune delle sue piume sono dorate, altre rosse; nella sagoma e per la grandezza somiglia moltissimo a un’aquila. Dicendo cose per me incredibili, raccontano che la fenice compia questa impresa: muovendo dall’ Arabia, porta il padre tutto avvolto in mirra nel santuario di Helios, e lo seppellisce in quello stesso santuario. Lo porta così. In primo luogo modella un uovo di mirra tanto grande quanto gli è possibile portarlo; quindi prova a portarlo; dopo che ci è riuscito, svuota l’uovo e ci mette dentro il padre; con altra mirra ricopre la parte dell’uovo da cui ha praticato la cavità per introdurvi il padre; quando il padre è nell’uovo, si riproduce il peso di prima. Dopo aver avvolto il padre così, lo porta in Egitto nel santuario di Helios. Ecco l’impresa che questo uccello, a loro dire, compie».
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Qui Erodoto, parlando della fenice, “è combattuto fra il suo amore per il favoloso e il buon senso che lo esorta ad inserire nel racconto almeno qualche espressione dubitativa” (A. Izzo D’Accinni, Antologia erodotea, ed. O. Barjes, Roma 19603, p. 114). Emerge infatti un abbozzo di critica razionalistica allorché egli si dissocia (“dicendo cose per me incredibili”, ἐμοὶ μὲν οὐ πιστὰ λέγοντες, par. 3) dalla notizia relativa alla traslazione, da parte della fenice, del proprio padre defunto nel santuario di Helios.
Come si evince dal testo, la fenice aveva un culto particolare ad Eliopoli (Heliopolis), la città sacra al dio Ra-Atum, che era il corrispettivo del greco Helios, il Sole; il mitico uccello rappresentava infatti simbolicamente il sole nascente e, in senso lato, la resurrezione.
Del favoloso animale, lo storico dà una descrizione sommaria, paragonandolo per la linea del corpo all’aquila e basandosi su pitture da lui viste (“l’ho visto solo in pittura”, οὐκ εἶδον εἰ μὴ ὅσον γραφῇ, par. 1). Le raffigurazioni egizie pervenuteci sono peraltro alquanto diverse, mostrando la fenice come un airone purpureo (Ardea purpurea) o come un airone grigio (Ardea cinerea).
Quanto al termine “phòinix” (φοῖνιξ), esso in greco indica varie cose: “porpora”, “palma da datteri” (cfr. Odissea VI 163), “cetra fenicia”; per indicare la “fenice” compare per la prima volta nel corpus esiodeo (fr. 304, 3 Merkelbach-West). Il vocabolo alludeva al colore purpureo attribuito a questo favoloso uccello e voleva riprodurne il nome egiziano, che era bnw.
La reticenza ad approfondire le tematiche religiose rende confusa e sommaria questa parte; del resto le notizie leggendarie su questo animale e l’interesse nei suoi confronti aumentarono solo nei secoli successivi, caricandolo di significati mistici ed escatologici. In particolare la leggenda secondo cui la fenice si getterebbe su un rogo ardente, rinascendo poi dalle ceneri, è ignota a Erodoto proprio perché di origine abbastanza tarda: ne parlano Luciano (De morte Peregrini 271), Plinio il Vecchio (Naturalis historia X, 2) e Tacito (Annales VI 28).
Alcune notizie sulla fenice, in parte analoghe a quelle erodotee, sono riportate da Ovidio nelle Metamorfosi (XV 392-400): «Ma vi è un uccello che si riproduce dal suo proprio seme: gli Assiri lo chiamano fenice. Non si ciba di grani di frumento o di erba, ma di lacrime d’incenso e di succo d’amomo. Quando quest’uccello ha raggiunto cinque secoli di vita, con le unghie e col suo puro becco si costruisce un nido sui rami di un leccio o in cima a una tremula palma; vi depone a strati sia, spighe di delicato nardo, cinnamomo triturato e fulva mirra; poi vi si sdraia sopra e finisce la sua vita tra i profumi. Si dice che dal corpo paterno nasca allora una piccola fenice, destinata a vivere altrettanti anni. Questa, quando l’età le dà la forza di portare pesi, solleva dai rami dell’alto albero il pesante nido e trasporta piamente quella che è stata la sua culla e che è il sepolcro del padre, per l’aria leggera, fino alla città d’Iperione e là la depone davanti alla sacra porta del tempio del dio» (trad. Faranda Villa; la “città d’Iperione” è Eliopoli in Egitto).
A proposito della testimonianza di Tacito, va detto che nel VI libro degli Annales la trattazione degli eventi della famiglia giulio-claudia è interrotta dal racconto della prodigiosa apparizione della fenice, avvenuta in Egitto nel 34, sotto il consolato di Paolo Fabio e Lucio Vitellio. Si tratta di un capitolo “diverso”, che fa respirare il lettore, oppresso dalle molte pagine cupe e angosciose che precedevano; il carattere di “intermezzo” è sottolineato dalla brusca ripresa che aprirà il capitolo successivo (“intanto, continuavano in Roma le stragi”, VI 29, 1).
Riportiamo anzitutto il capitolo tacitiano nella traduzione di Bianca Ceva: «Sotto il consolato di Paolo Fabio e di L. Vitellio, dopo un lungo spazio di secoli, giunse in Egitto la fenice, offrendo, così, ai più dotti di quel popolo e dei Greci materia di lunghe dissertazioni. Intorno a questo miracolo mi piace esporre quelle notizie che da ogni parte concordano, e molte altre che sono incerte, ma non inutili a conoscersi. Coloro che descrissero la forma della fenice consentono nel ritenere questo animale sacro al sole, e diverso nella testa e nella screziatura delle penne dagli altri uccelli; varie sono invece le notizie sul numero degli anni della sua vita. È diffusa credenza che essa duri cinquecento anni; vi sono poi coloro che credono che fra l’una e l’altra apparizione passino 1461 anni e che le fenici apparse in precedenza siano state prima sotto il regno di Sesoside, poi sotto quello di Amaside e che più tardi, sotto il regno di Tolomeo III della dinastia macedone, essa volò nella città di Eliopoli, seguita da uno stormo di altri volatili, ammirati del suo strano aspetto. Fatti così lontani sono, tuttavia, oscuri; fra Tolomeo e Tiberio vi furono meno di duecentocinquant’anni, per cui alcuni credettero che questa fenice fosse inesistente e che non fosse neppure mai venuta dalle terre degli Arabi, e che non avesse mai compiuto nessuno di quegli atti, che la tradizione ha affermato. Compiuto, dunque, il numero degli anni della sua vita, questo uccello, allorché si avvicina la morte, costruisce il nido nelle sue terre e qui getta il seme, dal quale nascerà il figlio; prima cura della nuova fenice cresciuta è di seppellire il padre; né fa ciò senza un piano prestabilito, ma, caricatosi di un peso di mirra, prova a reggerlo per un lungo spazio, e quando si sente le forze sia per sostenere il pondo, sia per compiere il volo, si addossa il corpo del padre e lo porta sull’altare del sole e qui lo arde. Tutte queste cose sono incerte e deformate da elementi favolosi; non è, però, affatto contestato che talvolta in Egitto sia stata vista la fenice».
Come si vede, in diversi punti lo storico latino si distacca da Erodoto. Riguardo all’apparizione della fenice, Tacito annota razionalisticamente che si tratta di notizie ambigue e incerte, “ma non inutili a conoscersi” (sed cognitu non absurda); anche alla fine del capitolo egli ribadisce che si tratta di “cose…incerte e deformate da elementi favolosi” (haec incerta et fabulosis aucta); tuttavia non vuole negare che in Egitto sia stata vista “talvolta” (aliquando) la fenice.
Rispetto alla descrizione erodotea, viene sottolineata la “sacralità” della fenice, sacra al sole e diversa dagli altri uccelli. Alla sommarietà dell’autore greco si contrappone una maggiore analiticità da parte di Tacito, che doveva però basarsi su un numero più cospicuo di fonti (tra i Romani, ad es., il già ricordato Plinio il Vecchio). Il particolare secondo il quale la fenice vola scortata da tutti gli altri uccelli (multo ceterarum volucrum comitatu), attirati dal suo aspetto, è assente in Erodoto; anche la descrizione del trasporto del cadavere del padre, da parte della fenice, è più dettagliata e completa, concludendosi col particolare relativo al rogo sull’altare del sole (“si addossa il corpo del padre e lo porta sull’altare del sole e qui lo arde”).
Tacito riferisce che sono varie le notizie relative alla durata della vita della fenice: alcuni credono che viva 500 anni, altri addirittura 1461. La precedente apparizione della fenice è riportata al regno di Tolomeo III l’Evergete (247-222 a.C.), circa 250 anni prima del regno di Tiberio; senonché “fatti così lontani sono, tuttavia, oscuri” (sed antiquitas quidem obscura) e per di più l’autore ricorda l’incredulità che circondava tali notizie: “alcuni credettero che questa fenice fosse inesistente e che non fosse neppure mai venuta dalle terre degli Arabi, e che non avesse mai compiuto nessuno di quegli atti, che la tradizione ha affermato”. Come si vede, sulle tradizioni escatologiche relative alla fenice, destinata a divenire (anche per i cristiani) simbolo della resurrezione, lo scettico Tacito sorvola.
La fenice compare in epoca medievale nel bestiario chiamato “Fisiologo” (composto originariamente in greco tra il II e il IV secolo d.C. in contesti culturali siriaci o egiziani), evidenziando influssi cristiani: «C’è un altro volatile che è detto fenice. Nostro Signore Gesù Cristo ha la sua figura, e dice nel Vangelo: “Posso deporre la mia anima, per poi riprenderla una seconda volta”»; non a caso, alla fenice fu associato il motto “Post fata resurgo” (“dopo la morte torno ad alzarmi”); vengono aggiunte altre notizie che rielaborano le fonti precedenti.
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Il ricordo della fenice è presente anche in Dante: «che la fenice more e poi rinasce, / quando al cinquecentesimo anno appressa / erba né biada in sua vita non pasce, / ma sol d’incenso lacrima e d’amomo, / e nardo e mirra son l’ultime fasce» (Inferno XXIV, 107-111). Come scrive il Sapegno, «delle favolose resurrezioni della fenice Dante trovava cenno nelle opere dei naturalisti antichi e nelle enciclopedie dottrinali del medioevo (da Plinio al Tesoro di Brunetto Latini); e come elemento decorativo esse ritornano e ritorneranno anche in seguito, frequenti, nei poeti latini e poi nella lirica provenzale e in quella italiana provenzaleggiante, fino al Petrarca. Qui ha presente in special modo Ovidio, Metam. XV, 392-400» (in “La Divina Commedia – Inferno”, ed. La Nuova Italia, Firenze 197811, p. 270).
Nei secoli successivi, lo scetticismo popolare sulla fenice troverà nel ‘700 la sua espressione più celebre nel paragone del Metastasio: «È la fede degli amanti / come l’araba Fenice: / che vi sia ciascun lo dice, / dove sia nessun lo sa» (Demetrio, atto II, scena III); l’espressione passò in proverbio per indicare cose o persone introvabili.
A Venezia oggi, il teatro “La Fenice” deriva il suo nome proprio dal fatto di essere nato dalle ceneri del precedente teatro di San Benedetto, distrutto da un incendio nel 1773.
Va infine detto che la fenice appare come figura sacra anche in Cina, ove nell’antichità il fenghuang era ritenuto la personificazione delle forze primordiali dei Cieli; un tempo, per la precisione, si credeva che i maschi fossero i feng e le femmine le huang, ma oggi questa distinzione non viene più fatta e Feng e Huang sono accorpati in un’unica entità femminile, spesso associata quella maschile del drago. L’uccello sacro rappresentava il potere e la prosperità ed era un attributo esclusivo dell’imperatore e dell’imperatrice. A settemila anni fa risalgono alcune rappresentazioni di questa “fenice cinese”: spesso si tratta di amuleti di giada, considerati un portafortuna dalle tribù della Cina orientale.