La presenza di bambini sulla scena si riscontra, oltre che nella “Medea”, in numerosi altri drammi greci: cfr. ad es. “Aiace” ed “Edipo re” di Sofocle e gli euripidei “Alcesti”, “Eraclidi”, “Andromaca”, “Supplici”, “Eracle”, “Troiane”, “Fenicie”, “Ifigenia in Aulide”.
In alcuni casi, i bambini sono semplici “personaggi muti” (kophà prósopa), mentre in altre opere (Alcesti, Medea, Andromaca, Supplici) pronunciano alcune battute; nella Medea, tali battute (francamente poco felici) vengono pronunciate dai bambini mentre la madre si appresta a colpirli: sono in trimetri giambici, ma inserite in un contesto lirico (vv. 1271 ss.) e provenienti dallo spazio retroscenico: in tal caso le parti dei bambini potevano essere sostenute da uno degli attori (che poi costui imitasse la voce infantile è ipotizzabile, anche se francamente grottesco).
In vari momenti dell’azione della Medea, i bambini entrano in scena e ne escono:
1) nella seconda parte del prologo compaiono insieme con il pedagogo (cfr. vv. 46-47 e 105);
2) al v. 894 ritornano, dietro sollecitazione della madre;
3) al v. 929, Giasone chiede a Medea perché ella pianga su “questi figli” (τοῖσδ’ ἐπιστένεις τέκνοις) ove il pronome deittico ὅδε presuppone la presenza dei bambini nello spazio scenico;
4) ai vv. 956-957, ai bambini Medea rivolge l’ordine di prendere in mano il diadema e la veste, da portare alla sposa;
5) ai vv. 974-975, i bambini sono pregati di andare a recare i doni e dunque escono dalla scena;
6) al v. 1002 rientrano insieme con il pedagogo: il servo si rivolge infatti a Medea indicando i figli come vicini;
7) al v. 1020 il servo da solo rientra in casa, ma i figli di Medea permangono sulla scena.
Nel corso del celebre monologo di Medea (vv. 1021-1080), al v. 1053 i figli sono invitati dalla madre ad entrare in casa (χωρεῖτε, παῖδες, ἐς δόμους); ma ai vv. 1069-1070 Medea chiede loro di darle la mano e di poterli abbracciare; quest’ultima richiesta presuppone la presenza dei τέκνα sulla scena e crea una contraddizione con quanto precede.
Il problema è differentemente risolto dagli studiosi:
1) alcuni ritengono che i bambini siano entrati in casa al v. 1053, ma che tornino fuori subito dopo (Murray);
2) altri suppongono invece che essi non ascoltino l’invito della madre a rientrare in casa e che permangano in scena ininterrottamente fino al v. 1076, quando vengono di nuovo invitati ad allontanarsi;
3) altri ancora pensano (con un eccesso di fantasia critica…) che l’ultima parte del monologo sia un delirio irrazionale di Medea, la quale, data la prostrazione emotiva nella quale versa, si rivolgerebbe ai figli assenti come se fossero presenti (fu la soluzione adottata dal regista Giancarlo Sepe nel suo allestimento della Medea con Mariangela Melato nel 1987);
4) secondo Luigi Battezzato, Medea accompagna i figli verso la casa al v. 1053, con l’intenzione di entrare per compiere l’infanticidio, ma si ferma davanti alla soglia al v. 1055, quando pronuncia l’interiezione ἆ ἆ; «l’esclamazione avrebbe in questo modo il suo pieno valore, e sarebbe perfettamente naturale che i figli non proseguano. È infatti normale, nella tragedia attica, che i bambini non si muovano senza essere accompagnati» (L. Battezzato, Scena e testo in Euripide, Med. 1053-1080, in “Rivista di Filologia e di Istruzione Classica”, CXIX, 1991, pp. 429-430); quindi rivolgendosi al proprio θυμός (v. 1056), continua il monologo fino al v. 1069, in cui si rivolge nuovamente ai bambini e, dopo averli abbracciati, li invita ad entrare (v. 1076).
In definitiva si può ritenere che i figli rimangano in scena per tutto il corso del monologo (così ritiene anche Paduano, Euripide: la situazione dell’eroe tragico, Sansoni, Firenze 1974, p. 48), ma che muti la modalità comunicativa di Medea nei loro riguardi: la prima esortazione ad andare via rimane infatti a livello di desiderio inesaudito; in tal senso, l’apostrofe alla mano (“Creature mie, date, date la mano a vostra madre perché possa baciarla. Adorata mano, mia adorata bocca, nobile aspetto e volto delle mie creature!”, vv. 1069-1070, trad. Correale) trova i figli fisicamente presenti sulla scena, quali destinatari indispensabili di un impeto di emotività funzionale all’esternazione del dramma materno. L’invito conclusivo ad uscire (“Andate, andate! Non posso più guardarvi”, vv. 1076-1077) è l’unico che coincide con un’indicazione scenica, visto che solo l’effettiva uscita dei bambini segna anche il termine della tempesta del dubbio, nonché il trionfo dell’energia incontrastata del θυμός.
La presenza dei figli sulla scena genera inoltre un secondo ordine di problemi: come fanno i bambini a non recepire le battute della madre circa l’intenzione di ucciderli? È apparso infatti sorprendente che i παῖδες, pur udendo le terribili battute della madre, non mostrino alcuna reazione.
Anche a questo riguardo, le ipotesi formulate sono state differenti:
1) i versi meno ambigui si potrebbero pensare come pronunciati a parte da Medea;
2) i figli sono troppo piccoli e quindi non sono in grado di cogliere il senso del discorso che si mantiene volutamente ambiguo;
3) di alcuni versi è stata proposta l’espunzione, perché poco verosimili (ma quest’ultima posizione appare la meno rispettosa dello specifico del testo, delle convenzioni sceniche dell’epoca e dei criteri drammaturgici dell’autore).
Probabilmente, Euripide “non si preoccupava di queste incoerenze”, lasciando che l’azione si svolgesse sulla scena “come se i bambini non potessero parlare … e senza curarsi di quello che potevano sentire… Nel caso della Medea era sufficiente, per le esigenzenaturalistiche del teatro, che non si comunicasse direttamente ai bambini il proposito di ucciderli” (L. Battezzato, Scena e testo in Euripide, Med. 1053-1080, in “Rivista di Filologia e Istruzione Classica” n. 119, 1991, p. 426).