Montalbano e il “Signori e Questori”

Domani, 17 luglio 2022, saranno passati tre anni dalla scomparsa di Andrea Camilleri. In questa occasione vorrei ricordarlo presentando alcune riflessioni, ispirate dai suoi romanzi, sul rapporto fra il commissario Montalbano e il suo diretto superiore, il questore (anzi, come lo definisce pomposamente l’agente Catarella, “il signori e quistori”).

Come è noto ai lettori e ai telespettatori, Montalbano ha un altissimo senso della giustizia e apprezza enormemente l’onestà: «in quel gran cinematografo di corruttori, corrotti, concussori, mazzettisti, tangentari, mentitori, ladri, spergiuri, a cui ogni giorno s’aggiungevano nuove sequenze, il commissario, verso le persone che sapeva inguaribilmente oneste, da qualche tempo principiava a nutrire un senso d’affetto» (Il cane di terracotta, p. 46).

Proprio per questa insofferenza verso l’ingiustizia, il commissario non esita, se necessario, a sfuggire a certe regole; ad es., sua specialità è il “saltafosso”, cioè il bluff nei confronti di un indiziato, basato sull’esibizione di verità tutte da dimostrare, ma così ben presentate da costringere il reo a confessare. Non di rado, poi, Montalbano (in modo decisamente poco ortodosso) si ritiene appagato dalla scoperta della verità e tollera che alcuni colpevoli restino in libertà o in preda ai loro rimorsi.

Inutile ricordare che è un funzionario assolutamente privo di ambizioni: non pensa a fare carriera, non vuole essere promosso a vicequestore, ha terrore di un trasferimento (che sconvolgerebbe la sua vita abitudinaria), preferisce continuare a vivere tranquillo senza allontanarsi da Vigàta.

Non ha, inoltre, alcuna attitudine all’adulazione e al servilismo; anzi, non manca di sottolineare sarcasticamente certi atteggiamenti di chi ricopre ruoli di potere: «sempri, davanti alla prosopopea, all’arroganza, alla supponenza, alla fàvusa cordialità, alla retorica di un politico di quello stampo che pinsava sulo alli ‘ntiressi so facenno finta di fari li ‘ntiressi di tutti, Montalbano non arrisistiva allo sbromo, alla sisiata, alla scòncica» (Riccardino, p. 239).

Tutte queste caratteristiche, come è ovvio, lo rendono poco gradito a certi suoi superiori, che finiscono per considerarlo una “scheggia impazzita” o comunque un “diverso” all’interno delle forze dell’ordine, anche se difficilmente possono metterne in discussione le eccelse qualità investigative e professionali.

Positiva era, nel primo romanzo della serie (La forma dell’acqua, 1994) la figura del primo questore, che aveva casualmente lo stesso cognome di Livia, cioè Burlando. Questi però viene collocato ben presto in pensione; lo scopo di Camilleri era probabilmente quello di accentuare l’isolamento di Montalbano, contrapponendolo ad autorità sempre più “negative”.

Uno scontro “istituzionale” evidente fra Montalbano e le autorità “deviate” si ha già ne Il ladro di merendine (1996): indagando su un traffico di droga internazionale, Montalbano scopre il ruolo svolto dai servizi segreti, che si sono resi complici dell’uccisione della giovane Karima, la madre del piccolo François (il “ladro di merendine”); un potente esponente dei servizi, il colonnello Lohengrin Pera (grottescamente descritto dall’autore nel suo minuscolo aspetto fisico, in contrapposizione al suo nome roboante), cerca di convincere Montalbano a mantenere la massima riservatezza sui fatti; ma la risposta del commissario è perentoria: «Io e lei abbiamo concezioni diametralmente opposte su che cosa significhi essere servitori dello Stato, praticamente serviamo due stati diversi. Quindi lei è pregato di non accomunare il suo lavoro al mio» (Il ladro di merendine, p. 217).

A partire da La voce del violino (1997), il nuovo questore, Luca Bonetti-Alderighi dei Marchesi di Mirabella, diventa il diretto superiore di Montalbano, instaurando con lui un rapporto teso e difficile, alle soglie del mobbing: «Bonetti-Alderighi era notoriamente un imbecille e che lo fosse l’aveva brillantemente confermato definendo il suo commissariato “una cricca di camorristi”» (La gita a Tindari, p. 59).

L’attore Giacinto Ferro nel ruolo del questore Bonetti-Alderighi nella serie televisiva diretta da Alberto Sironi

Il ritratto di Bonetti-Alderighi (visto con gli occhi di Montalbano) è fortemente irriverente: «Montalbano non lo taliava mai negli occhi, ma tanticchia più sopra, rimaneva sempre infatato dalla capigliatura del suo superiore, abbondantissima e con un grosso ciuffo ritorto in alto, come certe cacate d’omo che si trovano abbandonate campagna campagna» (La gita a Tindari, p. 18).

Il “signori e quistori” (come lo chiama Catarella) fa parte a pieno titolo di una diversa e deleteria categoria di (presunti) “servitori dello stato”, che privilegiano l’apparenza rispetto alla sostanza, amano mettersi in mostra e spesso si comportano in modo profondamente immorale.

Non a caso, Bonetti-Alderighi stima poco e gratifica pochissimo Montalbano e i suoi uomini; deve però fare i conti con l’abilità del suo sottoposto, che spesso riesce a beffarlo e a eluderne i diktat.

Ad es. Montalbano, riferendo al questore il suo colloquio col mafioso Balduccio Sinagra, sfodera volutamente una sequela di frasi fatte e luoghi comuni (non rilevati dall’ottuso superiore): «se lei potesse capire come io sia dilaniato tra il mio dovere da una parte e la parola data dall’altra… occorrerà molta cautela, un passo falso manderebbe in aria tutto, la posta in gioco è altissima» (La gita a Tindari, p. 135). Ma la sfilza di banalità ottiene l’effetto di sedurre il vacuo questore, che già medita di appropriarsi del successo di Montalbano nel caso che questi riesca a indurre il mafioso a “pentirsi”: «Con un sorriso perso, gli occhi sognanti, [Bonetti-Alderighi] contemplava se stesso, circondato da giornalisti rissosi e impazienti, sotto la luce dei riflettori, un grappolo di microfoni protesi verso la sua bocca, mentre spiegava con brillante eloquio come avesse fatto a convincere uno dei più sanguinari boss mafiosi a collaborare con la giustizia» (id., p. 137).

Davanti al questore, Montalbano alterna la presa in giro neanche troppo velata alla teatralità più ostentata: «Montalbano si susì addritta, pigliò un’ariata sdignata, portò il vrazzo destro a mezza artizza come facivano a Pontida. “Signor questore! Questa denunzia è mendace! E aggiungo, nel caso che le guardie giurate giurino di dire sempre la verità, che è anche spergiura! […] I miei uomini hanno combattuto con estremo coraggio contro soverchianti forze! Lo sa? In tre contro cinquanta!”» (Il cuoco dell’Alcyon, p. 42).

Il commissario arriva talora a sfottere apertamente il suo superiore, ma per sua fortuna «Bonetti-Alderighi si ritiniva omo troppo superiori per pinsari che qualichiduno osassi pigliarlo per il c***» (Riccardino, p. 39).

A volte il questore sembra meglio disposto, arrivando addirittura a riconoscere al commissario “quella lealtà e quell’onestà che l’hanno sempre contraddistinta” (Una voce di notte, p. 167); ma c’è sempre un secondo fine nascosto, come lucidamente capisce Livia parlando con Salvo al telefono: «Secondo me il signor Bonetti-Alderighi ti ha dato mano libera perché nel caso che le cose vadano male sarai tu a pagarne le spese. Ti coccola per fare di te un ottimo capro espiatorio» (Una voce di notte, p. 169).

Nel romanzo Il cuoco dell’Alcyon (2019), il questore sembra smantellare il commissariato di Vigàta dopo averlo inviato in ferie forzate; in realtà si tratta di una manovra che intende fornire copertura ad un’operazione di controspionaggio in cui saranno pericolosamente coinvolti il commissario e il fedele Fazio. Quando scopre la verità, Montalbano resta interdetto: «Ancora Montalbano non si era fatto pirsuaso di quello che gli aviva contato il questori. ‘N funno ‘n funno non ci cridiva, gli pariva tutta ‘n’americanata, come quelle pillicule di spionaggio accussì ‘ntricate che non ci accapiva nenti» (Il cuoco dell’Alcyon, p. 139); ma qui sembra di veder sorridere il suo autore che svela il suo gioco, dato che – come rivela nella Nota a fine volume – il racconto era nato una decina di anni prima “come soggetto per un film italo-americano”.

Nel romanzo conclusivo della serie, Riccardino (la cui prima redazione risaliva però al 2004-2005), l’Autore (che è in netto contrasto con Montalbano, nell’ambito di una vera “ribellione” del personaggio nei suoi confronti) fa intervenire in suo aiuto proprio il questore Bonetti-Alderighi.

Infatti, mentre tanti personaggi familiari risultano assenti in questo romanzo (mancano Mimì Augello e Beba, Adelina e Ingrid, Jacomuzzi e Zito; Livia è lontana e vacua, Pasquano viene nominato fugacemente), sempre presente è, fino alla fine, l’odioso questore, che chiude l’indagine sulla morte di Riccardino scavalcando Montalbano, riaffidando l’indagine a un altro poliziotto e precisando di attenersi scrupolosamente alle indicazioni contenute nel fax di Camilleri: «Perché si meraviglia tanto? Ha dimenticato che anch’io sono uno dei suoi personaggi?» (id., p. 271).

Sarà questa la goccia che farà traboccare il vaso, conducendo alla rottura definitiva fra Montalbano e il suo Autore («Tu hai condizionato un altro personaggio, il questore, per non farmi risolvere il caso a modo mio», id. p. 273); ne deriverà l’“unica conclusioni possibili”, con la definitiva e amara scomparsa del personaggio: «Pinsò a Livia, a Fazio, a Mimì Augello, a Catarella e gli venni un groppo. Allura si pirmittì il lusso di una lagrima» (id., p. 272).

La “cancellazione” di Montalbano sembra coincidere con il trionfo delle trame oscure del suo questore, con la vittoria dell’apparenza sulla sostanza, del conformismo sull’indipendenza di pensiero. Ma con questo arguto gioco Camilleri, che in tal modo organizza la “sparizione” del suo personaggio, fa sì che – ancora una volta – noi ci schieriamo con Montalbano, “difendendolo” dal suo Autore e facendolo nostro, nonostante lui e dopo di lui.

E se da “Riccardino” qualcuno esce vincitore, non è certo il viscido questore, bensì il suo scomodo sottoposto, disposto a difendere la sua coerenza fino al punto di scomparire per mantenerla.  

P.S.: Alcune delle precedenti considerazioni sono tratte da un mio saggio di imminente pubblicazione su Camilleri, scritto in collaborazione con Vito Lo Scrudato e Bernardo Puleio.

Di Mario Pintacuda

Nato a Genova il 2 marzo 1954. Ha frequentato il Liceo classico "Andrea D'Oria" e si è laureato in Lettere classiche con 110/110 e lode all'Università di Genova. Ha insegnato nei Licei dal 1979 al 2019. Ha pubblicato numerosi testi scolastici, adottati in tutto il territorio nazionale; svolge attività critica e saggistica. E' sposato con Silvana Ponte e ha un figlio, Andrea, nato a Palermo nel 2005.

2 commenti

  1. Caro Mario, leggo in questo articolo la notizia dell’imminente pubblicazione di un tuo (e altrui) saggio sul Sommo, se ho ben capito. Mi farebbe piacere averne notizia tempestiva, in modo da riportarla su vigata.org. Ebbene sì, esistiamo sempre, e anche dopo tanti anni non ci dimentichiamo della bella esperienza coi tuoi alunni!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *