In questa sciagurata epoca di rinnovate violenze su donne e bambini, mi torna in mente un episodio delle “Troiane” di Euripide, che evidenzia perfettamente come le guerre, tutte le guerre, colpiscano soprattutto (se non esclusivamente) vittime innocenti, mentre i grandi responsabili di esse, impunemente, continuano a farla franca.
Nel II episodio delle “Troiane” di Euripide (415 a.C.) l’araldo Taltibio deve comunicare ad Andromaca la decisione degli Achei di uccidere il piccolo Astianatte, ma è turbato, impacciato, esitante. L’incertezza del messaggero (in greco “ànghelos”, ἄγγελος) costituisce un’indubbia e insolita forma di approfondimento psicologico di un personaggio in genere “burocratico” e asettico.
Il messaggero (in greco “ànghelos”, ἄγγελος), in genere, è un personaggio “burocratico”, addetto a fornire informazioni e (spesso) a raccontare la morte di qualcuno (che non era “rappresentabile” sulla scena, “coram populo”, per non turbare gli spettatori). Ma Taltibio è un araldo insolito: è turbato, impacciato, esitante, dilaziona il momento della comunicazione: “Non odiarmi, moglie di Ettore, l’uomo che un tempo fu il migliore fra i Troiani: non porto volentieri questo annuncio” (vv. 709-710, trad. Guidorizzi).
L’esitazione di Taltibio produce un equivoco, che induce Andromaca a formulare ipotesi: immagina infatti (come male già ritenuto estremo) che Astianatte sarà separato da lei e inviato ad un altro padrone; oppure che il bambino resterà a Troia, come una sorta di reliquia. Come potrebbe immaginare l’inimmaginabile?
La spaventosa verità viene proclamata infine da Taltibio: “Uccideranno tuo figlio: ora sai il tuo grande dolore” (v. 719; nel testo greco c’è κακὸν μέγα, lett. “grande male”). La crudele decisione viene attribuita ad Odisseo, che ha voluto evitare che potesse sopravvivere un figlio di Ettore; il Laerziade è presentato come un sofista spregiudicato e ambizioso.
Un simile spietato cinismo, che non indietreggia neanche alla morte di vittime innocenti, rispecchia il clima asfissiante che si viveva ad Atene nel 415 a.C., documentato anche dal celebre discorso tucidideo dei Meli e degli Ateniesi (V 85-111), nel quale viene proclamata cinicamente la legge del più forte.
Taltibio cerca di dare ad Andromaca gli unici consigli che la situazione suggerisce: la donna non dovrà ribellarsi all’ordine ricevuto, dovrà anzi accettare in silenzio la volontà dei vincitori; solo così potrà evitare che i Greci si accaniscano sul cadavere del bambino: “Non cercare la sfida, non fare nulla di atroce o di odioso, non lanciare maledizioni contro i Greci. Se irriterai l’esercito con le tue parole, tuo figlio non sarà sepolto né riceverà compianti funebri; se taci, accettando il destino, darai una tomba al suo cadavere e ti renderai benevoli i Greci” (vv. 732-739). Va ricordato che per i Greci la sepoltura era ritenuta rito di passaggio fondamentale; la privazione di essa condannava il defunto a vagare per sempre fra le ombre senza mai trovare pace.
Non c’è dunque scampo: la vittima deve accettare la logica del carnefice, deve cedere all’evidenza di un pauroso divario di forze.
I versi in cui Andromaca si congeda da Astianatte sono intensamente patetici, evidenziando l’amore disperato di una madre che si vede strappare crudelmente l’unico figlio, ancora piccolo: “Figlio carissimo, caro più di ogni cosa, morirai per mano nemica, lascerai qui la tua povera madre; ti uccide il valore di tuo padre che salvò molti altri, ma a te non serve a nulla” (vv. 740-744).
A questo punto il bambino si avvinghia alla madre: “Tu piangi, figlio? Senti venire la tua sciagura? Mi abbracci, ti avvinghi con le mani alla mia veste, come un uccellino che si rifugia sotto le ali della madre” (vv. 749-751). Il pianto di Astianatte esaspera il pathos, gioca sulla commozione degli spettatori.
Con una mesta fantasia visionaria, Andromaca immagina i più atroci particolari della morte del figlio e pronuncia un’eclatante invettiva contro la crudeltà dei Greci. Qui Euripide sradica gli stereotipi, attribuendo alla Grecia stessa connotazioni di inciviltà e barbarie, sicuramente per influsso della terribile esperienza bellica contemporanea (la guerra del Peloponneso fra Atene e Sparta, che durava già da quindici anni): “Voi, Greci, avete inventato un’atrocità da selvaggi, voi che uccidete un bambino che non ha colpa di nulla” (vv. 764-765).
Chi è, in una guerra, il barbaro? E chi può essere “civile”, chi può essere innocente in un conflitto?
Altro obiettivo delle imprecazioni dell’infelice madre è Elena, di cui viene negata la paternità divina (“non sei figlia di Zeus”, v. 766), considerandola invece figlia “di molti padri”, che sono tutte personificazioni del male (vv. 768-769).
La conclusione del lamento di Andromaca è segnata da immagini sconvolgenti, apocalittiche, che esprimono la sua esasperazione: “Prendetelo, portatelo via, sfracellatelo, se avete deciso così, mangiate le sue carni. Sono gli dei a rovinarci, e non c’è modo di salvare questo bambino” (vv. 774-778).
Dopo queste ultime parole, l’infelice si allontana, pronunciando un’ultima frase amaramente ironica: “mi avvio a un matrimonio felice, ora che ho perduto mio figlio!” (vv. 778-779; Andromaca era stata destinata a Neottolemo, il figlio di quell’Achille che le aveva ucciso il marito).
Nella scena successiva, Elena si presenterà radiosa ed elegantemente vestita; il suo look seducente sarà un insulto spudorato alle vesti luttuose ed ai capelli rasati delle donne troiane. Per di più (a differenza dell’Elena omerica) la bellissima donna non ammetterà alcuna sua colpa, anzi scaricherà su altri le sue responsabilità, mentendo spudoratamente e chiedendo comprensione. Alla fine si intuirà perfettamente che Elena riuscirà a sedurre ancora una volta il cornificato Menelao e a ottenerne il perdono (come del resto tramandavano tutte le fonti mitiche).
In questa tragedia, dunque, la grande colpevole non paga le sue colpe; a morire è invece un povero bimbo indifeso, Astianatte. Ma così è la guerra: un assurdo meccanismo in cui a pagare sono solo gli innocenti; e di questo poco importa ai “signori della guerra”, che continuano impunemente a spadroneggiare anche 2500 anni dopo Euripide.
In questo cupo contesto, dove sono gli dèi? Dov’è la giustizia divina?
Nelle “Troiane” le divinità comparivano (insolitamente) nella prima scena, nel prologo; lì Poseidone e Atena (che durante la guerra fra Greci e Troiani erano stati avversari) si mettevano d’accordo per tramare rovina e distruzione ai danni dei Greci vincitori. Gli dèi possono cambiare idea, sono incomprensibili e inaffidabili, soprattutto non devono rendere conto a nessuno.
Alla fine del prologo le due spietate divinità se ne andavano via, dopo aver concordato il loro progetto di morte. Era davvero finito il tempo in cui i Greci sentivano la divinità vicina, presente, cooperante: così l’avevano sentita Omero, Solone, Pindaro, Eschilo e, più forte di tutti, Saffo (che chiamava Afrodite “symmachos”, σύμμαχος, cioè “alleata” (1 V., 22).
Due immagini indelebili ci lascia il mondo greco sul piccolo Astianatte:
1) quella di lui neonato, in braccio ad Ettore nel momento dell’addio ad Andromaca, mentre suo padre gli rivolge un affettuoso augurio destinato a non avverarsi (“Zeus, e voi numi tutti, fate che cresca questo / mio figlio, così come io sono, distinto fra i Teucri, / così gagliardo di forze, e regni su Ilio sovrano; / e un giorno dica qualcuno: “È molto più forte del padre!”, / quando verrà dalla lotta. Porti egli le spoglie cruente / del nemico abbattuto, goda in cuore la madre!”, Iliade VI 476-481, trad. Calzecchi Onesti);
2) e quella che ce lo consegna nel suo ultimo momento, scaraventato giù dalle mura di Troia, spiaccicato al suolo, vittima della violenza bestiale di chi non ha rispetto di niente.
Non volle accettare questo finale Matteo Maria Boiardo, che nel suo “Orlando innamorato” (1495) immaginò (con un colpo di scena alla “Beautiful”) che Andromaca riuscisse a sostituire Astianatte con un altro bambino, che fu ucciso dai Greci al posto suo (poveraccio anche questo! il rimedio era più atroce del male): “E cercando Astianatte in ogni parte, / che era di Ettorre un figlio piccolino, / la matre lo scampò con cotale arte: / che in braccio prese un altro fanciullino, / e fuggette con esso a la disparte. / Cercando i Greci per ogni confino, / la ritrovarno col fanciullo in braccio, / e a l’uno e a l’altro dier di morte spaccio” (l. III, c. V, ottava 20); in seguito Astianatte sarebbe stato portato da un amico di Ettore in Sicilia (la “Isola del Foco”), finendo ugualmente assassinato (non senza però aver prima concepito con la regina di Siracusa un figlio, Polidoro, dalla cui stirpe nacque il famoso Ruggero, capostipite degli Estensi).