Il Vangelo di domenica scorsa (Matteo 18, 21-35) presentava il tema del perdono. Ecco il passo iniziale: «In quel tempo, Pietro si avvicinò a Gesù e gli disse: “Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?”. E Gesù gli rispose: “Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette”».
Ho cercato questo passo in latino: «Tunc accedens Petrus ad eum dixit: “Domine quotiens peccabit in me frater meus et dimittam ei usque septies? Dicit illi Iesus: “Non dico tibi usque septies sed usque septuagies septies”».
Come si vede, il verbo latino corrispondente alla traduzione “dovrò perdonargli” è dimittam (congiuntivo dubitativo); il verbo dimittěre infatti, tra i suoi significati, aveva quello di “mandare impunito, liberare”: ad es. dimittere ad bestias damnatos voleva dire “liberare quelli che erano destinati ad essere sbranati dalle belve”.
In questa accezione, dimittěre era perfettamente equivalente al verbo greco aphìēmi (ἀφίημι), non a caso utilizzato nella versione greca del Vangelo di Matteo (Κύριε, ποσάκις ἁμαρτήσει εἰς ἐμὲ ὁ ἀδελφός μου καὶ ἀφήσω αὐτῷ; ἕως ἑπτάκις;).
In entrambi i casi, il concetto su cui si insiste è quello di “lasciare andare”, “liberare”, insomma di “lasciar stare”.
Ora, il verbo “perdonare” (utilizzato nella traduzione italiana) ha un’accezione alquanto diversa e più ampia: «Non tenere in considerazione il male ricevuto da altri, rinunciando a propositi di vendetta, alla punizione, a qualsiasi possibile rivalsa, e annullando in sé ogni risentimento verso l’autore dell’offesa o del danno» (Treccani).
C’è dunque da chiedersi se la traduzione del brano evangelico sia davvero corretta o abbia in qualche modo “dilatato” o “modernizzato” troppo il valore del verbo utilizzato.
A questo proposito, va detto che in latino non esisteva un verbo “perdonare” simile all’italiano; ad esso corrispondeva semmai il verbo ignoscěre: «tibi ignosco quod mihi iniuriam intulisti» (“ti perdono l’offesa che mi hai fatto”). Nel senso di “perdonare qualcosa a qualcuno” si trovano inoltre i verbi conceděre (alĭquid alĭcui conceděre, “perdonare qualcosa a qualcuno”) e condonare (con significato analogo all’identico verbo italiano).
Da dove deriva allora il nostro verbo “perdonare”?
La risposta si trova in un curioso fenomeno linguistico, cioè il cambio di prefisso: infatti in epoca medievale (intorno al X secolo) l’antico verbo “con-donare” è stato sostituito da “per-donare”.
In genere in latino classico il prefisso “per-” era usato per indicare un “attraversamento” (es. per-agrare nel senso di “viaggiare per, attraverso”) o un’azione compiuta del tutto (es. per-ficěre cioè “condurre a termine, realizzare del tutto”). Si potrebbe dunque pensare a un’evoluzione di “con-donare” in “per-donare” nel secondo significato indicato, cioè quello di “donare del tutto”, completamente e senza condizioni.
In questo senso però il verbo, in epoca cristiana, sembra essersi “smaterializzato”, passando da un concetto di “concedere”, legato a un beneficio concreto, a un’indulgenza più totale e “ideologica”, slegata dai beni materiali. Il “per-dono” non è più un semplice “con-dono”, ma assume un valore più ampio e incondizionato.
Da “perdonare” derivò il sostantivo deverbativo “perdono”, anch’esso assente nel latino classico, nel quale invece per esprimere il concetto si usava il termine venia (anche noi diciamo più o meno ironicamente “chiedo venia”) o l’espressione poenae remissio.
La riflessione sul concetto di perdono, però, induce a qualche ricerca supplementare.
Anzitutto occorre ricordare la parabola narrata da Gesù a Pietro nel suddetto brano di Matteo: essa paragona il regno dei cieli a un re che condona a un servo disperato la somma di diecimila talenti (una somma astronomica, equivalente a circa 300.000 chili d’oro); quel servo però, subito dopo, si mostra crudele e intollerante con uno dei suoi compagni che gli doveva soltanto cento denari (un denaro era la paga giornaliera). Quando il padrone apprende l’accaduto, fa chiamare il servo disumano e gli si rivolge con sdegno: “Servo malvagio, io ti ho condonato tutto quel debito perché tu mi hai pregato. Non dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?”. Il servo viene quindi mandato “in mano agli aguzzini”. Gesù conclude dicendo: «Così anche il Padre mio celeste farà con voi se non perdonerete di cuore, ciascuno al proprio fratello».
Il biblista Alberto Maggi commenta così la parabola: «siamo già tutti perdonati da Dio, ma questo perdono diventa operativo ed efficace soltanto quando si trasforma in perdono per gli altri».
A questo punto, per completare la riflessione, ho consultato ancora una volta il prezioso dott. Gaetano Festa, ex DSGA del Liceo Umberto I di Palermo, presbitero cristiano (con il nome di Padre Giovanni) nella tradizione ortodossa e secondo prete a supporto della Parrocchia San Caralampo martire a Palermo (Eparchia Ortodossa Romena in Italia).
Il dott. Festa mi ha fatto notare anzitutto che all’inizio del brano di Matteo «la domanda di Pietro a Gesù è quesito posto da un ebreo osservante ad un altro ebreo osservante». Inoltre «Pietro con la sua richiesta del “fino a sette volte” supera l’usuale nozione ebraica, derivata dal libro del profeta Amos e dal libro di Giobbe, secondo la quale si deve perdonare fino a tre volte, ma non fino a quattro. A tale indicazione Gesù risponde capovolgendo l’orizzonte di senso dell’indicazione biblica: alla nozione della vendetta, Gesù contrappone un perdono senza limiti. Nel vissuto della fede del popolo ebreo “perdonare” è un dovere concreto e non astratto». Dunque nella concezione ebraica «solo l’offeso perdona e nessuno può essere delegato o autodelegarsi in nome dell’offeso e non tutte le offese possono essere perdonate».
Festa mi ha poi segnalato un’interessante riflessione del rabbino Ariel Di Porto: «secondo la tradizione ebraica, il piano divino e quello umano, relativamente al perdono, rimangono nettamente distinti: il perdono divino infatti riguarda unicamente quei peccati che l’uomo compie nei Suoi confronti; i peccati rivolti verso altri esseri umani non vengono perdonati sino a quando colui che è stato offeso abbia perdonato a sua volta. Da qui l’uso di chiedere perdono al proprio prossimo, elemento indispensabile per l’espiazione delle colpe, la vigilia del digiuno del Kippur. D’altro lato chi è stato offeso non deve essere eccessivamente duro. Infatti “chi si comporta con clemenza nei confronti del proprio prossimo sarà trattato con clemenza dal Cielo; chi non si comporta con clemenza nei confronti del proprio prossimo non sarà trattato con clemenza dal Cielo” […]. Se la parte offesa rifiuta per tre volte in presenza di altri di concedere il perdono, diviene lui il peccatore […] ed è chiamato “crudele”».
Un elemento problematico viene però introdotto dal caso specifico della Shoah: «La Shoah ha accentuato con forza la discussione riguardo la posizione ebraica rispetto al perdono, trattandosi di un caso limite, caratterizzato da crimini tanto gravi e efferati da considerare l’eventualità che vi sia una proibizione morale a perdonare. Vi sono due ordini di ragioni per non perdonare: una di ordine metafisico, per cui non è possibile perdonare; e una di ordine morale, per cui non dovremmo perdonare. Solo chi ha subito un’offesa può perdonare, e la maggior parte delle vittime sono morte. Il perdono operato da terzi non può sostituire quello delle vittime. In questo caso vi è una ulteriore difficoltà, collegata al fatto che, secondo la definizione di Hannah Arendt, i nazisti hanno commesso “un crimine contro l’umanità sul corpo degli ebrei”: la Shoah è un crimine troppo grande per essere perdonato, i cui esecutori hanno superato abbondantemente il limite della “perdonabilità”. Un’altra obiezione dipende dall’assenza di pentimento da parte dei criminali».
Il rabbino cita infine un pensiero di Emmanuel Lévinas [filosofo francese di origini ebraico-lituane]: «La colpa commessa verso Dio ha a che fare con il perdono divino, la colpa che offende l’uomo non ha a che fare con Dio»; dunque «il male non è un principio mistico che si può cancellare con un rito: è un’offesa che l’uomo fa all’uomo. Nessuno, nemmeno Dio, può sostituirsi alla vittima. Il mondo in cui il perdono è onnipotente diviene inumano» (“Difficile libertà”, Jaca Book, Milano 2004).
Di Porto conclude dunque così: «Ciò che dobbiamo cercare di fare pertanto, partendo dalla nostra vita ordinaria, è anzitutto coltivare la nostra umanità, pro-muovendo, in ogni manifestazione della nostra esistenza, quella solidarietà umana che è alla base di ogni società sana».
P.S.: A me, al termine di questa discussione, tornano in mente le ultime parole che, nei “Promessi Sposi” manzoniani, Padre Cristoforo rivolge a Renzo e Lucia, dopo aver donato loro il famoso “pane del perdono”: «Lo lascio a voi altri: serbatelo; fatelo vedere ai vostri figliuoli. Verranno in un tristo mondo, e in tristi tempi, in mezzo a’ superbi e a’ provocatori: dite loro che perdonino sempre, sempre! tutto, tutto!». La logica cristiana del “perdonare sempre” e “perdonare tutto”, tanto netta quanto difficile da attuare, è proclamata qui senza mezzi termini e senza tentennamenti.