Io arrivai alla Caserma “D’Avanzo” in località Aurelia (a 7 km da Civitavecchia) il 18 ottobre 1978. La caserma, sede del “I Battaglione Bersaglieri La Marmora” (motto “Ictu impetuque primus”), era in un posto sperduto, lontano dall’abitato (in libera uscita si andava coi camion). Era una serie di palazzine monopiano, tipo villaggio turistico ma senza alcuna comodità (camerate spartane, docce garantite solo settimanalmente e previo turno tipo vaccinazione anticovid, ambienti spaziosi quanto gelidi).
Venivamo dal CAR (il primo mese di servizio militare), che io avevo fatto ad Orvieto; e ricordo l’impatto traumatico con quella nuova caserma, cui eravamo arrivati dopo otto ore di viaggio su uno scomodissimo treno merci. Al CAR noi bersaglieri avevamo ricevuto un addestramento durissimo (otto ore al giorno di corsa: “questa è una corsa di resistenza, / chi non resiste non va in licenza”); ma ci avevano detto che “al battaglione” le cose sarebbero andate meglio, che avremmo avuto più respiro. Non dico quindi quale fu la mia impressione leggendo a caratteri cubitali, all’ingresso della caserma, la perentoria scritta: “CORRI, CORRI, CORRI!”.
Fummo accolti da alcuni “nonni” (i soldati agli ultimi due mesi), che presero solennemente in giro noi “reclute” (uno di loro si spacciò per un tenente e ci accolse con urla, rimproveri e minacce). I veri ufficiali, arrivati dopo, ci presero per deficienti.
La mattina dopo ci fu consegnato un ciclostile con un enfatico saluto di benvenuto: “Bersagliere! Da oggi fai parte della I Compagnia Bersaglieri La Marmora. Siine fiero! È questa la compagnia che mantiene tutte le regole istituite da Papà [sic!] La Marmora fin dal 1836 […] Nella nostra famiglia vengono apprezzati i sacrifici, rispettati i diritti, pretesi i doveri”. Seguiva la firma del capitano, che si chiamava Renzi (Ottavio, non Matteo).
In effetti i primi tempi furono durissimi: era una “vita militare” a 360 gradi, con regole severissime, nella quale i “sacrifici” richiesti erano durissimi, i “doveri” innumerevoli (si poteva essere puniti se non si attraversava di corsa il cortile), i “diritti” in stand-by.
Nel momento di quella dura prova aiutava molto la solidarietà con gli altri commilitoni; e la mia grande fortuna fu di incontrare là, fra quelle “reclute” spaesate, Enzo Mineo.
Enzo era più grande di me di un paio d’anni; ci conoscemmo pochi giorni dopo, in fila alla mensa, in attesa di riempire la gavetta con il minestrone. Le prime battute scherzose ce le scambiammo lì: l’ironia fu il cemento che ci unì fin dall’inizio; l’ironia salvifica, che ti fa andare avanti nei momenti difficili perché li ridimensiona e li riporta alla giusta misura.
Entrambi, per liquidare al più presto il servizio militare, avevamo rinunciato a fare il corso per allievi sottufficiali (ci sarebbe costato sei mesi di ferma in più); eravamo dunque “soldati semplici”, destinati a una vita dura e senza pause (permessi e licenze erano rarissimi). Ma Enzo cominciò presto ad ambientarsi e ad espletare incarichi d’ufficio diventando indispensabile agli ufficiali (che ne sapevano molto meno di lui in tutti i campi).
Ricordo che in occasione di una delle scoccianti prove di allarme, quando di notte ci si doveva alzare, prendere l’attrezzatura completa di un anno, armarsi e scendere in adunata, al freddo e al gelo, Enzo ebbe un’idea geniale: disse al colonnello che lui e io dovevamo “presidiare la fureria” nel momento dell’allarme. E il colonnello gli diede ragione: sicché, mentre i nostri compagni “scoppiavano” al freddo, carichi come asini, io ed Enzo giocavamo a carte in fureria, “presidiandola” attivamente…
Cominciammo a uscire insieme in libera uscita; il sabato e la domenica, se non eravamo di guardia, ci spingevamo più lontano: il 4 novembre ce ne andammo a Tarquinia; l’11 andai a raggiungere Enzo (che era riuscito magicamente a uscire “in saltorancio” la mattina) a Roma: girammo per il centro, sostando alla Feltrinelli e scambiandoci tantissime opinioni sui libri che avevamo letto e che volevamo leggere. Ci raccontavamo le nostre vite: io ero in un periodo di sbandamento, perché due anni prima avevo dovuto lasciare la mia città d’origine per trasferirmi a Bagheria, dove stentavo ad ambientarmi e a “ingranare”; lui mi consigliava, mi raccontava le sue esperienze, mi dava (senza darlo a vedere) veri e propri insegnamenti, ma sempre con il sorriso, con la disponibilità e l’intelligenza profonda che lo hanno sempre contraddistinto.
Domenica 12 novembre 1978 io ed Enzo eravamo di guardia. Poteva essere una triste domenica: di guardia, in caserma, in “quella” caserma, con un sole beffardo che invitava a saltare il muro e scappare. Ebbene, ricordo quel giorno come uno dei più belli di quell’anno di servizio militare. Infatti nelle pause del PAO (picchetto armato ordinario), che duravano tre ore ciascuna, io ed Enzo girammo la caserma palmo a palmo, con un blocchetto-notes in mano.
Perché? Per annotare coscienziosamente tutte le scritte roboanti che costellavano i muri della caserma. Le ho ancora, conservate scrupolosamente; eccone qualcuna: “Amor di patria sino alla morte / Prontezza sino alla spavalderia / Iniziativa sino alla disubbidienza / Allegria sino alla vecchiezza / Sii più Dio che bersagliere, più bersagliere che diavolo / Carri armati al passo… bersaglieri di corsa! / Il soldato tedesco stupì il mondo, il bersagliere italiano stupì il soldato tedesco / Spirito offensivo sino alla vittoria / Cameratismo sino al sacrificio / Spirito di corpo sino al fanatismo / Piume al vento, nemico in fuga / Ferrea mole ferreo cuore”.
Ricordo che ci sbellicavamo dalle risate, ben poco “patriottiche”: si badi bene, sia lui che io abbiamo sempre creduto nel sacro valore delle “istituzioni”, ma sia lui che io non abbiamo mai sopportato la retorica, l’enfasi e i toni “gridati”.
Il massimo, poi, erano alcune epigrafi che presentavano sublimi esempi di eroismo, che qui non posso trascrivere per motivi di spazio, limitandomi a citare quella che ci colpì di più: esaltava il sacrificio di un eroico bersagliere che, “benché mietuto dalla mitraglia nemica”, avanzava prodigiosamente con la bandiera in pugno. E ricordo che io allora citai a Enzo due versi di autore dubbio (Boiardo, Berni o Ariosto): “Così colui, del colpo non accorto, / andava combattendo ed era morto”.
I ricordi della nostra vita militare sarebbero infiniti; basti qui dire che, dopo tanti mesi insieme, insieme ci congedammo, festeggiando la fine della vita militare con uno “sganascio” epico di pesce in una trattoria di Bagheria.
Ma anche dopo restammo legati: conobbi Ester, che già stava con lui; ci vedevamo spesso, facevamo gite ed escursioni. Ester (come mi ha confermato ieri pomeriggio) era giustamente “abbuttatissima” dei nostri ricordi militari, specialmente quando scoppiavamo a ridere come bambini mentre lei ci guardava inorridita. Quando poi conobbi Silvana ed uscimmo in quattro, le due donne (l’unione fa la forza) riuscivano spesso a dirottare altrove i nostri discorsi; ma, appena potevamo, Enzo e io ci strizzavamo l’occhio e, anche senza parlare, rievocavamo situazioni e momenti di quel periodo lontano.
Ieri Enzo ci ha lasciato improvvisamente.
Il “Giornale di Sicilia” di oggi gli dedica un doveroso ricordo: “Mineo, l’antimafia delle persone per bene”. Viene rievocata la sua figura di magistrato e in particolare la sua attività di responsabile dell’aula bunker dell’Ucciardone (della quale, come dice il sindaco Orlando, “era l’anima”). Si ricordano poi la collaborazione con Giovanni Falcone, il grande lavoro preparatorio per il maxiprocesso, le sue capacità di perfetto organizzatore, il suo essere “memoria storica” di quello storico processo, il suo altissimo senso delle istituzioni, la sua competenza inimitabile, la sua simpatia umana contagiosa.
Tutti stentiamo a credere che non sia più con noi.
Stanotte ci pensavo; e pensavo che tutti, su questa terra, siamo in un segmento di una retta. Un segmento con un inizio e una fine.
Mi ha sempre colpito, studiando le biografie, il trattino che si mette fra l’anno di nascita e quello di morte: Alessandro Manzoni 1785-1873.
Quel trattino è la nostra vita. Ma quante cose ci sono in quella lineetta! Ed è incredibile come alcune persone riescano a fare, di quell’infinitesimale porzione di tempo che ci spetta, qualcosa di altrettanto infinito e indimenticabile!
Prendo in mano Seneca, la “Consolatio ad Polibium” e leggo queste righe a proposito della scomparsa di una persona cara: “Rifletti che è bellissimo averlo avuto, umano averlo perduto: è il massimo dell’incoerenza affliggersi di aver avuto per troppo poco tempo un tale fratello e non rallegrarsi di averlo comunque avuto”.
Enzo, grande uomo, grande sposo, grande padre, grande amico, è stato un dono non solo per la sua famiglia (Ester, Mariangela, Giovanni, Paola, Gabriele), non solo per i suoi colleghi e amici, non solo per Palermo e per il nostro Paese, ma per l’umanità intera, che in lui ha visto incarnare quanto di meglio ci può essere in un uomo.
Scorrendo su Whatsapp i suoi ultimi messaggi, ripercorrendo i nostri ultimi scambi di opinioni e battute su Facebook, rivivendo nella memoria tanti momenti condivisi, leggendo le tante attestazioni di stima e affetto che gli stanno arrivando, pur nel profondo dolore di questo momento sono assolutamente convinto che Enzo sia ancora qui con noi e che qui resterà sempre.
E quando avrò voglia di sorridere, ripenserò a quella domenica in giro con lui per quell’austera caserma, con il blocco-notes in mano, a ridere insieme e con il nostro trattino di vita ancora tutto davanti.