Un anno di Covid – V parte

Continuando la rassegna dei miei post sulla pandemia, pubblicati su Facebook l’anno scorso, ne presento qui altri tre.

Il primo è del 3 aprile 2020 e si intitola “Difetti di comunicazione”. Sottolineavo, a poco più di un mese dall’inizio dell’emergenza, la contraddittorietà di certe informazioni, fornite da alcuni e smentite da altri (come la giusta distanza da mantenere dalle altre persone, come la possibilità o meno – in epoca di duro lockdown – di portare a spasso i bambini, come i “verbalini” da portare con sé per giustificare le uscite, come le modalità del decreto “Cura Italia”, ecc.).

Lamentavo in particolare, durante la quotidiana conferenza-stampa delle 18, l’espressione funerea del dott. Borrelli e il linguaggio ermetico del prof. Franco Locatelli, direttore del Consiglio Superiore di Sanità (CSS); pur non avendo dubbi sulla grande preparazione e competenza di quest’ultimo, rimarcavo in lui “il difetto veniale di non saper parlare alla gente comune”. Ci scherzavo anche un po’ su, anticipando di oltre un mese la prima divertente imitazione di Locatelli proposta da Maurizio Crozza.

Segnalavo infine un paradosso: nell’epoca dell’iper-comunicazione, della “connessione” continua, della miriade di canali informativi, mi sembrava incredibile che le notizie essenziali arrivassero alla gente comune “confuse, contraddette, smentite, duplicate”.

13) 03.04.20

DIFETTI DI COMUNICAZIONE

Notizia di oggi: l’Organizzazione mondiale della sanità potrebbe rivedere le sue raccomandazioni sull’uso delle mascherine alla luce dei risultati di un nuovo studio, secondo cui le goccioline emesse con un colpo di tosse o uno starnuto possono viaggiare nell’aria per distanze ben più ampie di quanto si pensi. Attualmente l’Oms raccomanda una distanza minima di almeno un metro da una persona che tossisce o starnutisce, raccomandando che i malati o le persone che mostrano i sintomi della malattia indossino le mascherine; ma il nuovo studio indica che le goccioline emesse con un colpo di tosse o uno starnuto possono raggiungere rispettivamente fino a sei e otto metri di distanza.

Silvio Brusaferro, presidente dell’Istituto superiore di sanità, in una conferenza stampa sull’emergenza coronavirus, ha però dichiarato in proposito: “Sulla trasmissione per via aerea non ci sono evidenze”.

Benissimo. Prima ci viene detto bianco, poi nero, poi magari diranno di nuovo bianco.

Ormai siamo abituati a questo modo di ricevere comunicazioni “fluttuanti”; e non solo a proposito di mascherine (peraltro pressoché introvabili o vendute a peso d’oro).

Che dire del pasticciaccio relativo alla possibilità o meno di portare a spasso i bambini? Il giorno 31 marzo una circolare emanata dal capo di gabinetto del Viminale Matteo Piantedosi chiariva come fossero consentite, entro certi limiti, le uscite di un genitore con i figli o la camminata vicino casa anche per anziani e disabili; ma l’indomani partiva dal Viminale una secca nota di chiarimento del ministro Lamorgese per ribadire che le regole sugli spostamenti per contenere la diffusione del coronavirus non cambiavano.

Chiarissimo, vero? Nel frattempo ovviamente diversi “governatori” avevano emanato circolari in proprio per negare le passeggiate con bambini (correva già voce che, dopo la caccia ai cani da passeggio, si fosse aperta una caccia ai bambini degna dei migliori seguaci del re Erode).

Tutto qui? Purtroppo no, perché si potrebbe disquisire sulle notizie date e negate relativamente al famigerato “picco” o “plateau” (“a metà aprile”, “fra qualche giorno”, “in momenti diversi regione per regione”, “non si sa quando”, ecc. ecc.), sulle modalità e i tempi dell’attuazione del decreto Cura Italia, sui verbalini da portare al seguito quando si è costretti a uscire (modificati più e più volte), su quello insomma che è lecito fare e quello che non lo è e dove lo è (infatti diverse regioni hanno circolari proprie e differenti), ecc.

Come ho già avuto modo di segnalare in un mio post del 22 marzo, il momento del trionfo della comunicazione azzoppata è il quotidiano macabro rituale delle ore 18 da via Vitorchiano in Roma, sede centrale della Protezione Civile. Ho avuto già modo di esprimere l’indubbia stima e l’apprezzamento per il grande, prezioso e logorante lavoro svolto dal dott. Borrelli e dai suoi collaboratori. Una pecca involontaria ma concreta emerge però in loro a livello comunicativo.

Anzitutto, un vecchio detto popolare sottolineava che non c’è matrimonio senza pianto né funerale senza riso: ma Borrelli ha un’espressione perennemente funerea, che è quanto di meno rassicurante ci possa essere a livello comunicativo. Snocciola dati (sempre orribili a udirsi) e chiude ogni intervento con l’invito a non abbassare la guardia e a stare a casa. Accanto a lui si alternano vari funzionari o esperti, che però in genere non sono accreditati per rispondere alle successive domande dei giornalisti, dato che la risposta tipica è: “io non sono esperto in materia”, “non sono un epidemiologo”, “non sono uno pneumologo”, ecc. ecc.

Il massimo della comunicazione ermetica è il prof. Franco Locatelli, direttore del Consiglio Superiore di Sanità (CSS). Locatelli, persona indubbiamente di straordinaria preparazione e competenza, ha il difetto veniale di non saper parlare alla gente comune. È una di quelle persone che per dire “ho fame” direbbe “nel mio organismo biologico si è innestato un processo di carenza alimentare che mi induce a richiedere una fornitura cospicua di vivande”. I suoi interventi, fra l’altro pronunciati con una voce frammentata che scandisce lentamente le sillabe una ad una con un tono da nobiluomo del Settecento, sono ineccepibili dal punto di vista scientifico-contenutistico, ma inavvicinabili e incomprensibili alla gran massa delle persone. Forse perché l’unica cosa chiara che si vuole dire e “comunicare” è: “state a casa”.

Paradossalmente dunque, nel tristissimo rito quotidiano delle 18, il maggior successo a livello mediatico va a Susanna di Pietra, la “doppiatrice” nel linguaggio dei segni… almeno lei “comunica” in modo diretto e inequivocabile.

Siamo nell’epoca della iper-comunicazione. In questo allucinante deserto che è diventato il mondo intero, le comunicazioni stanno raggiungendo livelli mai toccati prima: siamo costantemente connessi, inondati di ogni tipo di notizie, sommersi da migliaia di canali informativi, travolti dal meccanismo aggregante dei social, alluvionati dalle facoltà di Scienze della Comunicazione, protetti dalla sagace sorveglianza di psicologi e psicoterapeuti. Eppure le notizie fondamentali, elementari, semplici, arrivano fino a noi confuse, contraddette, smentite, duplicate. Già abbiamo la testa confusa dalla situazione: ma sembra che l’effetto involontario di tutto questo sia quello di farci perdere del tutto il minimo di lucidità residuo. C’è gente che dice a questo punto: meglio non sapere niente, meglio il black-out, meglio aspettare che la nottata passi mettendosi a dormire. Ma è una soluzione ammissibile questa? O si dovrebbe curare di più l’aspetto comunicativo, evitare le sovrapposizioni, i protagonismi, le polemiche e fornire una e una sola verità?

Ahiahi, ho toccato – mi accorgo – un tasto sbagliato: la verità non è forse colei che la si crede? Pirandello docet…

Del successivo post, del 7 aprile 2020, non ero stato autore ma solo ispiratore. Un mio bravissimo alunno dell’Umberto, Christian Palumbo (allora al quarto anno), su mio invito descrisse una sua giornata in quarantena. In quel mio primo anno “da pensionato”, costretto dall’anagrafe al ritiro a vita privata, pensavo spesso ai miei alunni e (avendo anche l’esperienza di un figlio al ginnasio) cercavo di comprendere meglio come l’epidemia stesse già incidendo negativamente e pesantemente sui ragazzi.  Christian riuscì meravigliosamente a rendere le sue sensazioni, scrivendo queste righe che ritengo tuttora importanti e degne di un’attenta lettura.

14) 07.04.20

LA QUARANTENA VISTA DA UN MIO ALUNNO

PREMESSA – Il mio bravissimo alunno (io non li chiamo mai “ex-alunni”) Christian (IV D del liceo classico Umberto), su mio input, descrive una sua giornata in quarantena.

Grazie a Christian e un abbraccio a tutti i suoi compagni e, più in generale, a tutte le ragazze e i ragazzi che, da casa e in condizioni difficilissime, continuano a impegnarsi con serietà e rigore ogni giorno, mostrandosi disciplinatissimi e motivatissimi. Dovremmo imitarli tutti…

E ora cedo a Christian la parola:

[Caro prof. Pintacuda, le invio il racconto della mia giornata di quarantena. Se devo decidere su due piedi un titolo, magari omaggio il grande Italo Calvino e opto per “Se una giornata di aprile 2020 uno studente”. Ma forse è troppo lungo. Comunque sia, seguono le mie righe].

Volavo su nel cielo fino a sfiorare le candide nuvole, affrontando il vento, destinazione sole, quando a un tratto… Nulla, suona la sveglia: fine del sogno. Divento un’incudine, calarmi giù dal letto e strisciare fino al bagno per una sciacquata è faticoso, ma non posso permettermi esitazioni. D’altra parte mancano dieci minuti alle nove: fra pochissimo comincia la videolezione di filosofia. Maglione sopra, pigiama sotto, e, mentre il professore mi parla dettagliatamente dell’immanentismo panteistico spinoziano, la mamma irrompe nella stanzetta e mi offre con premura un tè al cacao, ché a me piace così. La luce è fortissima e gli occhi non si sono ancora abituati al nuovo mattino (figuriamoci la testa!). Eppure sono contento di avere ancora appuntamento con la scuola così presto, mi aiuta a non cedere all’ozio e a essere produttivo. La giornata non prosegue noiosa, in fin dei conti so come ammazzare il tempo. Latino l’ho fatto, manca Matematica ma tanto la so. Storia mi secca. E, mentre dal mio umile balconcino osservo il cielo azzurro, penso che è un peccato dover sprecare per l’ennesima volta una così bella giornata, ma la responsabilità di non cadere nella tentazione di mettere il naso fuori casa è un dovere morale che non posso ignorare. Dopo pranzo, nonostante la potenza devastante dell’abbiocco, è ora di suonare un po’. Anzi, siccome non voglio disturbare gli altri inquilini magari aspetto un’oretta in più. Ma quando arriva davvero il momento, le prime note ribattute del Grande valzer brillante irradiano l’ambiente e il mondo sfuma. E le preoccupazioni, le ansie, i timori, gli interrogativi irrisolti e quelli irrisolvibili, la nostalgia dei miei cari lontani si dissolvono e lasciano spazio a quel barlume di speranza che Pandora si era dimenticata sul fondo del vaso, e che mi dà forza in questo momento difficile. La mia, come quella di tutti, non è altro che un’attesa infinita, e purtroppo alla fine del tunnel non vedo nemmeno un tenue bagliore. Però mi consola il pensiero che presto o tardi questo stesso tunnel mi riconsegnerà alla mia vita normale, e mi ispira la convinzione che ne uscirò una persona migliore. Nel tardo pomeriggio sento un languorino, così vado a sgranocchiare qualcosa. Mentre aspetto che il tostapane faccia il suo lavoro, mi fermo a giocare con il criceto, che se ne sta sempre buono buono nella sua casetta e pensa solo a dormire, a mangiare e ad amarmi. Fortunato lui, nel suo paradiso di semi di girasole, libero da ogni afflizione e incertezza. I toast nel frattempo si bruciano e mandano una puzza vergognosa, ma io me ne faccio una ragione, tanto di lì a poco avremmo cenato. Arriva papà, da lavoro, mascherina e guanti, con il pane fresco. Satollo di hamburger e melanzane, mi dirigo in camera e d’un tratto i miei amici mi propongono di vederci. In videochiamata, si intende. Così chiudo la giornata in allegria, con noi sette che grazie al Wi-Fi proseguiamo assieme la storia del nostro gioco di ruolo, scambiandoci nel frattempo battute e sorrisi. Sì, è innegabile: mi mancano i banchi di scuola, così come i pomeriggi in giro per la città e le serate a teatro. Eppure, da questo periodo, sto traendo grandi benefici, dedicandomi alle cose che più mi piacciono in assoluta serenità. Secondo me, la peculiarità di giornate come quella che ho appena raccontato è questa: che, benché ripetitive e non proprio entusiasmanti, rimarranno per sempre impresse nella nostra memoria”.

L’ultimo post che ripropongo oggi risale al 10 aprile 2020 e si intitola: “Ma i morti dove muoiono?”.

Di fronte al sempre più catastrofico bilancio delle vittime da Covid (2.917 negli ultimi cinque giorni) e confrontando questo dato con le presenze nelle terapie intensive (1.236, con un calo di 21 nelle ultime 24 ore), facevo una banale domanda: “Dove muoiono questi morti ogni giorno?”. Non in terapia intensiva (come emergeva dai dati). Allora in altri reparti ospedalieri? Nelle case di cura o di riposo? A casa loro? Per strada? Nessuna risposta sapevo darmi e nessuna risposta mi è stata data.

Il post si concludeva con la constatazione di un’Italia (allora) spaccata in due: devastato dall’epidemia il Nord, quasi indenne (per il momento) il Sud; e comunque in tutto il Paese le capacità di resilienza erano sempre più messe a dura prova.   

15) 10.04.20

MA I MORTI DOVE MUOIONO?

C’è un dato che non capisco; da profano e incompetente vorrei che lo chiarisse chi ne capisce di più (medici, personale sanitario, staff medico-scientifico, protezione civile, politici, persone di buon senso, impresari di pompe funebri o non so chi altro).

I dati dei morti per (o con) coronavirus in Italia negli ultimi cinque giorni sono i seguenti: il giorno 5 aprile 525 deceduti, il 6 636, il 7 604, l’8 542, ieri 610. Totale morti in cinque giorni: 2.917. Dunque, la carneficina continua e siamo arrivati a un totale di 18.279 morti nel nostro Paese dall’inizio dell’epidemia.

D’altro canto colpisce la situazione della Lombardia, nella quale sono stati superati i 10.000 morti (300 in più del giorno prima) per un totale 54.802 casi (+1.388); qui però le terapie intensive sono scese a 1.236 (-21).

E io allora mi chiedo: dove muoiono questi morti ogni giorno? Nei reparti di terapia intensiva? Certo, se sono morti, erano in gravissime condizioni, quindi lì sarebbero dovuti stare. E dunque in 5 giorni si sarebbero svuotati quasi 3000 posti di terapia intensiva? Non si direbbe proprio: si parla di diminuzioni, sì, nei ricoveri in terapia intensiva, ma mai di una liberazione di posti così massiccia.

Allora, ripeto: dove muoiono questi malati? Non in terapia intensiva (se non in minima parte). E allora dove? In altri reparti ospedalieri, ove sono stati dirottati per mancanza di posti in terapia intensiva? Nelle case di cura (bella cura…) o di riposo? Oppure a casa loro? E perché sarebbero stati a casa se gravi? O sono morti per strada mentre andavano a fare la spesa o mentre erano in coda al supermercato?

Occorrerebbe una spiegazione da parte del brillante prof. Locatelli, che con la sua ormai notoria chiarezza cristallina e scandendo le sillabe ad una ad una, forse direbbe: “L’implementazione dei pazienti deceduti per cessazione delle funzioni respiratorie è collaterale a una flessione prospettica della curva epidemiologica che induce a ipotizzare scenari di minore pressione sulle strutture sanitarie”. Salvo a chiudere (“delenda Carthago”) con il solito motto: “State a casa”.

Aggiungo un altro dato: in dieci regioni ieri ci sono stati meno di 10 decessi. Quindi abbiamo (tanto per cambiare) un Paese nettamente spaccato in due, con due situazioni opposte a tutti i livelli: sia nelle capacità e nelle prospettive di gestione dell’emergenza, sia nell’effettivo insorgere dell’emergenza stessa. Le modalità di “reazione” sono analoghe (il governatore della Sicilia impone misure ancora più restrittive di quelle nazionali e qualche “federale” locale addirittura legifera in proprio…), ma l’emergenza oggettiva da fronteggiare è, fortunatamente, assai minore (e meno male, visto il contesto).

In attesa del chiarimento del busillis sui deceduti, apprestiamoci all’ennesima giornata di clausura: ormai ci stiamo facendo il callo, a questa lunga fase 1. Del resto, carta canta, morti e contagiati sono sempre in aumento e mai in diminuzione. E stiamo sempre più dimenticando che cosa era la vita al tempo della fase zero; mitizziamo l’attesa della fase 2 e poniamo al sommo delle speranze una fase 3 che per ora sembra molto lontana e improbabile. Le nostre capacità di resilienza sono chiamate a sempre più dura prova.

Ma, come avrebbe detto il mio insigne concittadino Eugenio Montale, «Hic manebimus se vi piace non proprio / ottimamente; ma il meglio sarebbe troppo simile / alla morte (e questa piace solo ai giovani)»; tratto dalla poesia “Al mare (o quasi)”, altro titolo che oggi diventa involontariamente emblematico ed allusivo…

Di Mario Pintacuda

Nato a Genova il 2 marzo 1954. Ha frequentato il Liceo classico "Andrea D'Oria" e si è laureato in Lettere classiche con 110/110 e lode all'Università di Genova. Ha insegnato nei Licei dal 1979 al 2019. Ha pubblicato numerosi testi scolastici, adottati in tutto il territorio nazionale; svolge attività critica e saggistica. E' sposato con Silvana Ponte e ha un figlio, Andrea, nato a Palermo nel 2005.

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