“Il segno del comando” – 1971

Cinquant’anni fa, lunedì 17 maggio 1971, come capitava spesso allora (data la mancanza di alternative, visto che esistevano solo due canali televisivi), a scuola fra compagni commentavamo la prima puntata del sorprendente sceneggiato che era andato in onda la sera prima sul Programma Nazionale (odierna Rai 1): “Il segno del comando”.

Questo thriller esoterico-parapsicologico in cinque puntate, ambientato in una Roma affascinante quanto misteriosa, tenne inchiodati al teleschermo quasi 15 milioni di spettatori a puntata.

Lo sceneggiato nasceva dalla penna di Giuseppe D’Agata (che aveva firmato anche il soggetto del film “Il medico della mutua”) e Flaminio Bollini; collaborarono alla sceneggiatura anche Dante Guardamagna e Lucio Mandarà; la regia era di Daniele D’Anza.

Il protagonista era Lancelot Edward Forster, professore di letteratura inglese presso l’università di Cambridge (interpretato da Ugo Pagliai); questi, avendo scoperto per caso un inedito diario di Lord Byron, scritto durante il suo soggiorno romano nel 1817, era stato colpito da una sua misteriosa annotazione: «21 aprile 1817, notte, ore 11. Esperienza indimenticabile, luogo meraviglioso, piazza con rudere di tempio romano, chiesa rinascimentale, fontana con delfini, messaggero di pietra, musica celestiale, tenebrose presenze».

La piazza descritta da George Byron

Da qui prendeva le mosse un’indagine che si addentrava nel mondo dell’occulto: Forster, nella misteriosa Taverna dell’Angelo a Trastevere, incontrava Lucia, una modella vestita con abiti ottocenteschi (l’attrice Carla Gravina), da cui riceveva in dono un medaglione con l’effigie di una civetta.

Ugo Pagliai e Carla Gravina

Nelle puntate successive Forster scopriva di essere la reincarnazione di un pittore vissuto nell’Ottocento, Marco Tagliaferri (l’amante di Lucia), e prima ancora di un orafo e negromante del ‘700, Ilario Brandani. Entrambi questi personaggi erano morti il 28 marzo di 100 e 200 anni prima, per cui Forster, che doveva tenere la sua conferenza byroniana proprio il 28 marzo, cominciava a sudare freddo…

La vicenda di Forster si incrociava con quelle di un inquietante ed eccentrico nobiluomo romano dedito all’occultismo (il principe Anchisi interpretato da Franco Volpi), di un lestofante irlandese (tale Sullivan, l’attore Carlo Hintermann), di un ambiguo funzionario dell’ambasciata inglese (George Powell, interpretato da Massimo Girotti) e di altri personaggi più o meno misteriosi.

Franco Volpi e Ugo Pagliai
Massimo Girotti e Ugo Pagliai

Nel sorprendente epilogo, restava il dubbio concreto che Lucia fosse un fantasma e si scopriva che il medaglione da lei donato a Forster era il taumaturgico “segno del comando”. Ecco le due famose battute finali: «Lucia, ma tu a quale mondo appartieni?» «Al passato, al presente: non c’è differenza, sai».

Carla Gravina

Per la prima volta nella sua storia, la televisione italiana affrontava temi esoterici e riguardanti il tema dell’occulto, con riferimenti allo spiritismo ed alla reincarnazione. Molte scene erano cariche di un’estrema tensione (ad es. una seduta spiritica), sia pure senza nessuna scena violenta né horror. Noi ragazzi di allora, come unico esempio analogo di una tensione tutta giocata sul piano psicologico, avevamo il ricordo del terrificante sceneggiato francese “Belfagor – Il fantasma del Louvre”, trasmesso cinque anni prima, nel 1966).

“Belfagor, il fantasma del Louvre” (1965)

Come ha scritto Stefania Ulivi nel “Corriere della Sera”, in questo sceneggiato si coniugavano «gotico e spy story, feuilletton e ricostruzione storica, toponomastica e esoterismo, riferimenti colti e pop». Così inoltre si legge nella prefazione al libriccino del DVD: «Quale mistero si celava dietro l’uscio di una vecchia casa romana, in Via Margutta 33? Gli italiani si appassionarono, si impaurirono, si intrigarono. “Il segno del comando” paralizzò il paese, come un grande evento sportivo o di cronaca. […]. Il genere giallo e la detective story, il mistero parapsicologico e l’atmosfera gotica, il fantastico ed il fantasmatico si intrecciano sullo sfondo di una Roma gotica e magica, barocca e sinistra. Al centro della storia, un medaglione che dà l’immortalità a chi lo possiede: la ricerca di questo “segno del comando” viaggia continuamente tra presente e passato, in un gioco di rimandi temporali in cui le avventurose esperienze del protagonista sembrano ripercorrere e svelare misteriose vicende di secoli prima».

Certo, il regista Daniele D’Anza doveva fare i conti con i limiti del mezzo televisivo, che allora non poteva competere con la varietà di inquadrature e il montaggio elaborato tipico del cinema; consapevole di questo, il regista giocò su altri due elementi: lunghi piani-sequenza con un’atmosfera cupa e, soprattutto, il fascino della Roma più insolita e notturna, in luoghi come Via Margutta, Trinità dei Monti, il Caffé Greco, la Taverna dell’Angelo, la Casina Valadier, l’Isola Tiberina, la chiesa di Sant’Onorio, la basilica di Massenzio, i Mercati di Traiano, gli scavi della metropolitana e quella misteriosa «piazza con rudere di tempio romano, chiesa rinascimentale e fontana con delfini».

[Tra parentesi, proprio per influsso delle “location” dello sceneggiato, nacque in seguito per le vie di Roma una sorta di “turismo alternativo”, alla ricerca di questi antichi palazzi, vicoli, stradine buie e misteriose].

Il ritmo delle scene, visto oggi, appare lento, soprattutto nelle sequenze d’azione, rendendole datate; ma l’alto livello della recitazione degli interpreti (tutti ottimi attori di teatro) e la sapiente sceneggiatura garantivano comunque la validità dell’insieme.

Siccome non c’erano erano ancora i videoregistratori, né esisteva qualcosa come Rai Play che consente oggi di rivedere qualunque trasmissione quando si vuole, se uno per disgrazia “si perdeva una puntata” era indispensabile chiedere che cosa fosse successo, con forte rammarico di non avere assistito alle scene raccontate. Lo sceneggiato “paranormale” era oggetto di conversazione, diventava patrimonio della memoria collettiva, entrava nel nostro immaginario; e l’attesa della successiva puntata domenicale era spasmodica.

In definitiva, “Il segno del comando” riuscì anche ad anticipare i temi dei più recenti thriller esoterici alla Dan Brown e Glenn Cooper, in una suggestiva mescolanza di razionalità ed esoterismo.

Un’ultima annotazione: la sigla finale, “Cento campane”, fu scritta da Fiorenzo Fiorentini e da Romolo Grano e interpretata dal cantante Nico (Nico Tirone, siciliano di Sambuca), affermatosi in passato con il gruppo “Nico e i Gabbiani”. Il testo, in romanesco, era a sua volta improntato al tema della “stregoneria”: «Nun me lo di’ stanotte / a chi hai stregato er core. / La verità fa male, / lasciame ‘sta visione pe’ sperà. / Din don din don, amore, / cento campane stanno a dì de no, / ma tu ma tu amore mio / se m’hai lasciato ancora nun lo di’: / no, nun lo di’, nun parlà: / sei una donna o una strega chissà? / Me resta ‘na speranza, la speranza di quer sì… / Din don, din don amore, / cento campane stanno a di’ de no, / ma tu ma tu amore mio / se m’hai stregato dimmelo de sì». In seguito “Cento campane” fu il cavallo di battaglia di Lando Fiorini, diventando uno dei motivi “storici” della canzone romanesca.

Di Mario Pintacuda

Nato a Genova il 2 marzo 1954. Ha frequentato il Liceo classico "Andrea D'Oria" e si è laureato in Lettere classiche con 110/110 e lode all'Università di Genova. Ha insegnato nei Licei dal 1979 al 2019. Ha pubblicato numerosi testi scolastici, adottati in tutto il territorio nazionale; svolge attività critica e saggistica. E' sposato con Silvana Ponte e ha un figlio, Andrea, nato a Palermo nel 2005.

2 commenti

  1. maurizio dal brasile mi piacerebbe assistere il segno del comando del 1971 tutte le 5 puntate ma qua in brasile rai play non funziona potreste mandarmi i video dello sceneggiato via e mail cosi le potrei vedere….sarei felice se voi potreste farmi questo piacere…attendo risposta via e mail….grazie….

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