Un anno di Covid / IV parte

Proseguo la raccolta dei post sulla pandemia che l’anno scorso ho pubblicato su Facebook, proponendone altri due.

Il post del 22 marzo 2020 si intitolava “Via Vitorchiano 4, Roma – ore 18” e faceva riferimento alla consuetudine quotidiana del collegamento televisivo dal quartier generale della Protezione Civile per l’aggiornamento della situazione epidemiologica.

Osservavo che quel rituale quotidiano evidenziava seri problemi di comunicazione di massa: «La faccia rabbuiata, lo snocciolamento asettico di dati, l’esortazione non seguita da incoraggiamento, il bastone delle notizie senza le carote delle prospettive di speranza (che si trovano, si devono trovare, anche anticipandole forse sui tempi reali), sono controproducenti».

Del resto, il morale degli Italiani cominciava a deprimersi; e in quel contesto mi sembrava giusto rivolgere la più incondizionata lode al personale sanitario: «Ah se la gente cominciasse davvero ad adorarli, i medici, dopo averli bistrattati, insultati, aggrediti fisicamente; dopo avere preteso spesso di rubargli il lavoro (“Me lo scrive questo antibiotico?”), dopo avere accettato senza battere ciglio i delinquenziali tagli alla sanità pubblica».

11) 22.03.20

VIA VITORCHIANO 4, ROMA – ORE 18

Leggo ora questo indirizzo su “Repubblica”. Mai sentito nominare fino a poco fa. In Via Vitorchiano 4, Roma, si trova il quartier generale della Protezione Civile. E da qui ogni giorno alle 18, minuto più minuto meno, si svolge quello che l’articolista Marco Mensurati chiama “la nuova liturgia di un Paese diviso”: «Il rito comincia alle 18. Quello che un tempo ormai lontano e felice si sarebbe detta l’ora dell’aperitivo è invece oggi l’ora che spacca in due l’Italia, da una parte quelli che cantano “Azzurro” in balcone, dall’altra quelli che sperano invano di sentirsi dire che le cose stanno cominciando a migliorare».

L’inquadratura ci è ormai tristemente familiare. Al centro siede Angelo Borrelli, il capo della protezione civile; alla nostra sinistra Silvio Brusaferro, presidente dell’Istituto Superiore di Sanità; alla nostra destra l’immagine meno angosciante, cioè la bravissima Susanna Di Pietra, la ragazza che traduce la conferenza stampa nel linguaggio dei segni per i non udenti.

Il rito dura pochi minuti e in genere si apre con la nota meno dolente, cioè i “guariti”; poi viene dato il bilancio, sempre più tragico di giorno in giorno, dei contagiati e dei deceduti. Ma dopo questi dati crudi e brutali, il rito si limita in genere a reiterare l’appello al senso di responsabilità dei cittadini, che «devono restare a casa come atto d’amore nei confronti dei più deboli». L’articolista commenta: «La natura liturgica e non dunque informativa (tantomeno giornalistica) del Punto diventa smaccata in chiusura, in quello che se fossimo a una vera conferenza stampa sarebbe il momento delle domande. Nonostante le raccomandazioni della fase preparatoria (“però, davvero, ditegli di rispondere, oggi”, è l’accorata richiesta di un giornalista all’ufficio stampa) è impossibile ottenere da Borrelli e Brusaferro affermazioni o precisazioni che chiariscano la situazione, o che spostino di un millimetro il discorso; le risposte sono in realtà solo altre raccomandazioni e altri appelli, per cui l’effetto ottico finale è che la colpa dell’aggravarsi della crisi è da attribuire esclusivamente all’irresponsabilità degli Italiani. Compiendo così una straordinaria inversione dei ruoli: di solito è il popolo a lamentarsi dei governanti».

Ma non è tutto. Ieri, appena il collegamento televisivo si è concluso, è stata rivolta a Borrelli una domanda esplicita: «Ma non è che questi dati dimostrano che la strategia non sta funzionando e che detenere la gente in casa non ha senso se poi la si manda al supermercato senza mascherina?». La risposta non è venuta da Borrelli (che – testuale – “si dilegua all’inglese”), ma dal “povero Brusaferro”: «La verità – alza le braccia – è che i dati si stanno scontrando contro la real life, per questo non ci avete mai sentito attribuire ai numeri alcun valore predittivo».

Due parole vanno aggiunte. Nessuno può dubitare dello stress immenso cui Borrelli e Brusaferro sono sottoposti e soprattutto dell’opera meritoria che svolgono.

Il problema però è di tipo comunicativo. Mi spiego meglio. In guerra è fondamentale tenere alto il morale delle truppe. Il comandante, anche se consapevole che il nemico è forte e pericoloso, deve incoraggiare il soldato, specie se è già sottoposto a una prova durissima. Non deve rimproverarlo per quello che non fa, ma deve elogiarlo per quello che fa. Deve sapergli sorridere (ah, che invenzione rara il sorriso per alcune persone!), anche quando da sorridere non c’è proprio. Perché il sorriso dà speranza, illusoria forse, ma concreta. La faccia rabbuiata, lo snocciolamento asettico di dati, l’esortazione non seguita da incoraggiamento, il bastone delle notizie senza le carote delle prospettive di speranza (che si trovano, si devono trovare, anche anticipandole forse sui tempi reali), sono controproducenti.

Del resto, dopo i primi raduni sui balconi, dopo gli inni nazionali sacri e profani (“Azzurro” e “Volare” inclusi), dopo i concerti in cattività, il morale della truppa comincia inevitabilmente a incrinarsi, come avviene a chiunque sia assediato.

Inoltre, in realtà, il comandante sta più in alto; e c’è da chiedersi perché Conte si presenti su un video Facebook (e chi non ce l’ha?) e non a reti unificate in TV, perché il suo messaggio (“Lo Stato c’è”) arrivi dopo le 22 e non prima. Lunghe ore di lavoro, certo; confronto con le forze produttive, ovvio, con i sindacati, con l’opposizione. Ma 60 milioni di persone aspettano alle 18 una parola e questa arriva ore dopo.

C’è poi da chiedersi quale sia oggi il ruolo del Viminale, passato da un periodo di presenzialismo ossessivo nel precedente governo alla grigia eclissi di oggi (produttiva, per carità, non si discute, grigiore prezioso… ma la comunicazione??!!). In tutto questo, la gente finisce per capire meglio il video di 1’ di Salvini (con la solita inquadratura a 1/3 di schermo che io, da cineamatore, non riesco a digerire in quanto tale), un video in cui il leader leghista chiede 5 cose facili al Presidente della Repubblica, cose che la gente intercetta subito e approva, perché è un messaggio immediato e chiaro (“niente tasse per tutto l’anno”), è quello che la gente si vuol sentire dire (questo è il populismo reale).

Ecco anche perché, nel tristissimo rito delle 18, il maggior successo a livello mediatico va a Susanna di Pietra, la “doppiatrice” nel linguaggio dei segni. Lei è contenta di questo: «Mi dicono che sono brava e rassicurante».

Proprio così. Bisogna essere rassicuranti. Qualcuno dirà: c’è poco da essere rassicuranti. Errore. Ricordo scene viste in ospedale in passato. Davanti a pazienti in gravi condizioni, i medici sapevano sempre parlare loro con un sorriso, dare un conforto, infondere coraggio forse illusorio ma salutare. Ah se la gente cominciasse davvero ad adorarli, i medici, dopo averli bistrattati, insultati, aggrediti fisicamente; dopo avere preteso spesso di rubargli il lavoro (“Me lo scrive questo antibiotico?”), dopo avere accettato senza battere ciglio i delinquenziali tagli alla sanità pubblica.

E speriamo che nel rito delle 18 oggi qualcuno ci regali un sorriso.

Il prossimo post risale al 25 marzo 2020.

In un articolo di Giancarlo Macaluso sul “Giornale di Sicilia” si leggeva quel giorno che a Palermo (come in molte città italiane) la stragrande maggioranza dei cittadini si mostrava rispettosa del rigido lockdown; ma non mancavano le prime ribellioni, le trasgressioni, le proteste: un fruttivendolo-ciclista, “Masaniello dei tempi moderni”, aveva riaperto impunemente la sua attività urlando “Ora basta!”.

Nel frattempo, infuriava la “decretite” (come la chiamava “Repubblica”) del premier Conte e infatti un nuovo decreto (stavamo imparando la sigla DPCM) inaspriva le pene ai trasgressori; da qui derivava un mio collegamento mentale con le “gride” manzoniane, tanto severe quanto inapplicate e inapplicabili.

Riflettevo poi sulle perplessità che in alcuni destava la presunta “militarizzazione” dell’Italia (chi si immaginava che un anno dopo avremmo avuto un generale a dirigere l’emergenza Covid?); e osservavo che invece «l’esercito italiano non è mai stato un pericolo per la democrazia, ma semmai una risorsa mal sfruttata e – al solito – tagliata, rinnegata, ridotta, annichilita”.

Passavo quindi ad una considerazione sul crescente stato di disperazione della gente, sul disastro socioeconomico che si stava verificando sempre più gravemente; e concludevo così: «Incrociamo le dita. E speriamo che alle “gride” si accompagnino atti concreti di solidarietà economica e sociale». La parola “ristori” non era stata ancora coniata.

12) 25.03.20

LA PROTESTA DI MASANIELLO E LE “GRIDE” MANZONIANE

Il “Giornale di Sicilia” di oggi a pag. 16 presenta un articolo di Giancarlo Macaluso intitolato “Le due facce della città tra disciplina e divieti ignorati”. L’articolo si riferisce alla città di Palermo, ma credo sia facilmente estendibile a molti altri luoghi del nostro Paese.

Il pezzo inizia con un confronto fra la quarantena attuata nella famigerata città cinese di Wuhan e quella che dovrebbe essere in corso nel capoluogo isolano: “Palermo ieri, intorno a mezzogiorno. Dieci volte meno il numero di abitanti di quella città alla fine del mondo…, dieci volte in più i cittadini che si vedono per strada”. Facendo un lungo giro in auto “in un’ora di punta” (ma punta de che, verrebbe da chiedersi…), il giornalista nota l’assenza totale di pattuglie e posti di blocco; rileva invece scene surreali: quattro tizi che alla Vucciria brindano (a che?) con birra ghiacciata, molte persone a fare la spesa (necessaria!) davanti ai panifici e ai fruttivendoli, traffico di auto incolonnate in via Cavour, auto parcheggiate in doppia fila in via Papireto.

Addirittura c’è chi proclama autonomamente la fine dell’emergenza: un fruttivendolo-ciclista in via Imera, Masaniello dei tempi moderni, riapre i battenti decretando “Ora basta!”; ovviamente con le dovute misure di prevenzione: “nastro rosso di sicurezza per mantenere la distanza, biglietti elimina code, guanti e mascherine”.

Tutto questo avviene mentre il 90 per cento delle persone sta reclusa in casa, come tanti animali in gabbia, senza diritto neppure all’ora d’aria che spetta ai detenuti che hanno commesso reati.

Vero è che ieri il premier (stavolta finalmente nel pomeriggio e a reti unificate), ha comunicato l’ennesimo decreto (“Repubblica” conia oggi il neologismo “decretite”), che inasprisce le pene per i trasgressori alle attuali restrizioni: multe da 400 a 3000 euro, con possibilità alle Regioni di varare misure più rigide.

Saranno misure efficaci? Speriamo. Per ora, in realtà, vengono in mente le “gride” di manzoniana memoria, quelle leggi terribilmente precise, verbose, minacciose, che però non erano minimamente applicate.

Rileggiamo uno stralcio dal I capitolo dei “Promessi Sposi” (opera di cui non si finirà mai di scoprire il valore inestimabile, rovinato solo dalla maniera insulsa in cui spesso viene proposta nelle nostre scuole): “La forza legale non proteggeva in alcun conto l’uomo tranquillo, inoffensivo, e che non avesse altri mezzi di far paura altrui. Non già che mancassero leggi e pene contro le violenze private. Le leggi anzi diluviavano; i delitti erano enumerati, e particolareggiati, con minuta prolissità; le pene, pazzamente esorbitanti e, se non basta, aumentabili, quasi per ogni caso, ad arbitrio del legislatore stesso e di cento esecutori […]. Con tutto ciò, anzi in gran parte a cagion di ciò, quelle gride, ripubblicate e rinforzate di governo in governo, non servivano ad altro che ad attestare ampollosamente l’impotenza de’ loro autori. […] L’impunità era organizzata, e aveva radici che le gride non toccavano, o non potevano smovere”.

Ieri Conte ha detto che i controlli sul territorio saranno affidati anche ai militari per rafforzare le forze dell’ordine; si è affrettato ovviamente a rassicurare tutti sul fatto che “non c’è nessuna militarizzazione”. Forse c’è ancora qualcuno da rassicurare sul fatto, acclarato ed evidente, che l’esercito italiano non è mai stato un pericolo per la democrazia, ma semmai una risorsa mal sfruttata e – al solito – tagliata, rinnegata, ridotta, annichilita. Abbiamo fatto ospedali da campo in Libia e preziose imprese umanitarie in Paesi in guerra; ora abbiamo paura che in questa guerra che combattiamo a casa nostra ci siano dei “colonnelli” che pensino a conquistare il potere con i carri armati… Pensiamo a far rispettare le leggi, piuttosto…

[…] Conte ha elogiato gli Italiani che rispettano le restrizioni, si è detto “orgoglioso” del loro comportamento ed ha affermato che da questo periodaccio (che spera finisca prima del 31 luglio…) usciremo “migliorati”. Sono parole di speranza ed è importante che i capi rivolgano parole di incoraggiamento e speranza alle truppe in guerra. Però qualche parola in più occorrerebbe rivolgerla a tutta quella gente che, già prima di questa emergenza, viveva in condizioni penose di degrado, ignoranza, povertà, disoccupazione. A chi è stato illuso da elemosine travestite da redditi di cittadinanza, dalla possibilità impunita di lavorare in nero, dall’abusivismo “per necessità”. A chi ha dovuto e deve pagare il “pizzo” alla mafia (anche se il sindaco qualche giorno fa trionfalmente annunciava che la mafia è stata debellata). A chi ora più che mai, in questi giorni, con la paralisi generale, è letteralmente sul lastrico e ogni giorno di più non sa come portare a casa qualcosa da mangiare. Tutto ciò potrebbe e potrà esplodere a livello di ordine pubblico, molto più presto di quanto i burocrati possano immaginare.

Incrociamo le dita. E speriamo che alle “gride” si accompagnino atti concreti di solidarietà economica e sociale.

Fermo restando, ovviamente, che agli imbecilli e agli irresponsabili occorre opporsi fermamente (ed è cosa semplicissima, perché basterebbero pochi esempi a scoraggiare tantissimi emuli del Masaniello di turno).

Di Mario Pintacuda

Nato a Genova il 2 marzo 1954. Ha frequentato il Liceo classico "Andrea D'Oria" e si è laureato in Lettere classiche con 110/110 e lode all'Università di Genova. Ha insegnato nei Licei dal 1979 al 2019. Ha pubblicato numerosi testi scolastici, adottati in tutto il territorio nazionale; svolge attività critica e saggistica. E' sposato con Silvana Ponte e ha un figlio, Andrea, nato a Palermo nel 2005.

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