La strana resurrezione di Alcesti

L’Alcesti (Ἄλκηστις) andò in scena nel 438 a.C. in una tetralogia comprendente anche Cretesi, Alcmeone in Psofide, Telefo; Euripide ottenne il secondo premio, dopo Sofocle. La pièce occupava il quarto posto nella tetralogia, quello in genere riservato ad un dramma satiresco. In passato si è giustificata questa stranezza con gli elementi “comici” e farseschi individuabili nell’Alcesti; ma gli studi recenti dimostrano che si tratta di una tragedia a tutti gli effetti (del resto anche altri drammi greci prevedevano l’happy end: si pensi all’Orestea in Eschilo, al Filottete e all’Edipo a Colono in Sofocle, ad alcuni drammi euripidei caratterizzati dall’apparizione finale del “deus ex machina”).

Danilo Nigrelli (Admeto) e Galatea Ranzi (Alcesti) nell’allestimento a Siracusa del 2016 (regia di Cesare Lievi)

Ricordo anzitutto le linee essenziali della trama dell’Alcesti.

Nel prologo Apollo abbandona la casa di Admeto, re di Fere in Tessaglia; costui ha ottenuto dal dio, come ricompensa per l’ospitalità offertagli, il privilegio di sfuggire alla morte purché un altro si offra di morire al posto suo. Ora Thanatos, personificazione della Morte, viene a prendere Alcesti, moglie del re, la quale è l’unica ad aver accettato di morire al posto del marito.

Nel I episodio la donna, rivolta ad Admeto, pronuncia espressioni di notevole autostima, soprattutto quando gli chiede che un’altra donna non “disonori” la sua memoria: μηδ’ ἀτιμάσειν ἐμέ (v. 373, ove il concetto di τιμή ha un certo retaggio “epico”). Alcesti inoltre si definisce “la migliore fra le donne” (v. 324).

Sono state indicate le possibili motivazioni dell’estremo sacrificio di Alcesti:

1) sincero, profondo amore coniugale;

2) azione fatta non per amore ma per dovere (una sorta di riflesso della subalternità della condizione femminile; nell’Ifigenia in Aulide Ifigenia si lascia sacrificare dicendo: “Val più la pena che viva un uomo solo, piuttosto che mille donne”, v. 1394);

3) affetto verso i figli, ai quali occorre conservare il padre (“certo il maschio ha nel padre una valida difesa”, v. 311);

4) desiderio di gloria e “protagonismo”.

Comunque sia, nella successiva scena “strappalacrime”, Alcesti agonizza e muore, pianta anche dal piccolo figlio Eumelo. Le lacrime di un bambino sulla scena sono espediente sicuro di commozione per il pubblico; ma come e da chi fossero rappresentate le parti dei bambini nel teatro greco resta oggetto di discussione…

Nel II episodio Eracle (presentato come un burbanzoso ghiottone, anticipando le connotazioni che assumerà nella “commedia di mezzo”) giunge a Fere; Admeto lo ospita, senza però chiarirgli il motivo del lutto che affligge la reggia.

Nel III episodio, al momento del funerale di Alcesti, si accende una lite tra Admeto ed il padre Ferete, che si accusano reciprocamente di vigliaccheria. Intanto Eracle, ubriacatosi al banchetto, apprende da un servo la vera identità della defunta e decide di affrontare Thanatos per restituire Alcesti ad Admeto.

Nell’esodo, compiuta l’impresa, Eracle conduce al re Alcesti coperta da un velo, presentandogliela come una straniera; Admeto inizialmente la respinge, volendo mantenere la parola data alla moglie; alla fine, però, accetta di scoprirne il volto e riconosce Alcesti, che però resta muta e immobile.

Il mito di Alcesti, già trattato in un dramma di Frinico, rielaborava un antico motivo folklorico, quello della persona che muore al posto di un’altra per un privilegio concesso dagli dèi. Se il dramma euripideo sembra derivare da moduli fiabeschi, è possibile individuare in esso anche un intreccio di tipo “romanzesco”, che anticipa un genere destinato a grande fortuna in epoca imperiale: il tema dei due innamorati costretti a separarsi, che infine si ritrovano dopo aver superato peripezie ed ostacoli.

Tralasciando i numerosi altri spunti di riflessione offerti da quest’opera così intrigante, mi limito a qualche riflessione sulla sconcertante scena finale.

Nell’esodo, come si è detto, Eracle entra in scena conducendo con sé una donna velata; a noi moderni viene in mente il finale del pirandelliano “Così è (se vi pare)”.

Eracle presenta la misteriosa donna ad Admeto, invitandolo a prenderla con sé; afferma (mentendo solo in parte) di averla conquistata in un “agone atletico” (vv. 1025-1036). Admeto cerca di opporsi, dato che la presenza di una giovane donna in casa in quel momento di lutto sarebbe inopportuna; fra l’altro, la donna gli appare molto somigliante alla moglie perduta: “Tu, donna, chiunque tu sia, devi sapere che hai statura identica a quella di Alcesti e le assomigli nel portamento” (vv. 1061-1063).

Eracle consola l’amico e gli propone di pensare al futuro: “Una donna e nuove nozze porranno fine al tuo rimpianto” (v. 1087); a questa prospettiva Admeto si oppone scandalizzato. Eracle torna a invitare l’amico ad accogliere la donna misteriosa, affermando che rifiutarla sarebbe “un grave errore” (v. 1099). Il vedovo infine accetta di tendere la mano alla straniera, pur con estrema riluttanza: “Ecco, tendo la mano, come se dovessi tagliare la testa alla Gorgone” (v. 1118). Solo a questo punto Eracle scopre il viso della donna: Admeto, costernato e felice al tempo stesso, riconosce la sua donna.

La scena costituisce un bizzarro rovesciamento del consueto rito nuziale: paradossalmente, Admeto, capo dell’οἶκος, assume i connotati di una “fanciulla da marito”, cui il suo “tutore” (κύριος) Eracle propone una partner sconosciuta.

D’altro canto, il velo e il silenzio di Alcesti costituiscono elementi inquietanti: chi ha provato l’esperienza del trapasso, chi ha varcato la “linea mortale” (per citare il titolo di un film di Joel Schumacher, 1990), come potrà di nuovo riaprire gli occhi alla vita? che parole potrà dire? che sentimenti potrà provare? Il silenzio di Alcesti, restituita apparentemente alla vita ma muta, fredda e priva di anima, rappresenta un grave ostacolo al “lieto fine”, costituisce un forte segnale di illusorietà che nega comunque la “favola bella”.

Certo, non sono mancate in proposito le giustificazioni dei critici: per Paduano “è difficile pensare all’attendibilità di parole messe in bocca alla resuscitata”; Verrall vede nel silenzio della donna l’emblema dell’incomunicabilità che governa la coppia ricostituita. Si è anche ipotizzato, più banalmente, che nell’Alcesti il silenzio finale della protagonista dipenda dal mancato utilizzo del terzo attore, che avrebbe “costretto” Euripide a far tacere la donna.

Eracle, peraltro, spiega all’ospite il motivo per cui la donna non parla; devono infatti passare tre giorni (tre giorni… come nel Vangelo) per sciogliere la sua consacrazione alle divinità infernali, compiuta da Thanatos all’inizio del dramma” (cfr. vv. 74-76). Il silenzio di Alcesti presenta dunque un carattere mistico-religioso, soprattutto per la presenza del numero magico “tre” (i giorni che devono passare prima che riacquisti la parola).

Al termine del dramma Admeto indice danze e sacrifici per festeggiare il felice “cambiamento” della sua vita: “La mia vita è mutata, è migliore di prima: non potrò negare di essere fortunato” (οὐ γὰρ εὐτυχῶν ἀρνήσομαι, vv. 1157-1158). Il malinconico Admeto (chissà perché, io l’ho sempre assimilato al mesto e inetto Ashley Wilkes di “Via col vento”) si rivela un uomo εὐτυχής “fortunato” e passa a una vita più felice, grazie anche a una sorta di πάθει μάθος che gli ha permesso di migliorare attraverso il dolore.

Post scriptum filologico: A proposito della contestazione del fatto che Alcesti sia velata (indotta da una ben nota osservazione dello scoliaste e da alcune obiezioni critiche), rispondo che i testi teatrali non si “leggono”, si “vedono”. Al di là di quanto dice lo scoliaste (spesso si trattava di pedanti eruditi che non avevano mai messo piede in un teatro), la donna DEVE essere velata. Se no, è ovvio, il marito la riconoscerebbe immediatamente. Ribadisco l’importanza della battuta del v. 1050 (“è giovane, lo si vede dalla veste e dall’ornamento”), una battuta che presuppone che il volto della donna non sia visibile. Inoltre non avrebbe senso alcuno l’invito di Eracle al v. 1115 “Io stesso la metterò nelle tue mani” se la donna fosse immediatamente riconoscibile. Non a caso (attenzione!) Admeto, dopo aver “toccato” la mano della donna (simbolo questo di “riappropriazione” sessuale, del γιγνώσκειν biblicamente inteso), pronuncia un’altra battuta inequivocabile: θαῦμ’ ἀνέλπιστον τόδε – γυναῖκα λεύσσω τήνδ’;  ἐμὴν ἐτητύμως: “E’ una vista insperata… questa donna che vedo è davvero la mia?” (vv. 1123-1124).  Una “vista” insperata: quella del volto ormai palese della donna. Prima non la “vedeva” non perché rimbecillito o obnubilato ma perché aveva il volto coperto.

Seguiamo dunque, più che il bravo filologo Masaracchia, un uomo di teatro sensibile come Guido Paduano: “la donna misteriosa rappresenta agli occhi di Admeto una potenziale rottura della sua promessa: una minaccia tanto più sottile quanto più anche attraverso il velo è visibile la sua identità con Alcesti, fonte di angosciosa nostalgia e di inquietante sospetto”. Infine, vorrei ricordare l’etimologia della parola ἀλήθεια “verità: da ἀ- privativo + λανθάνω, quindi letteralmente “dis-velamento”.

Di Mario Pintacuda

Nato a Genova il 2 marzo 1954. Ha frequentato il Liceo classico "Andrea D'Oria" e si è laureato in Lettere classiche con 110/110 e lode all'Università di Genova. Ha insegnato nei Licei dal 1979 al 2019. Ha pubblicato numerosi testi scolastici, adottati in tutto il territorio nazionale; svolge attività critica e saggistica. E' sposato con Silvana Ponte e ha un figlio, Andrea, nato a Palermo nel 2005.

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