Il vero senso della tradizione

La vittoria elettorale delle forze che si definiscono “conservatrici” induce a una riflessione sul concetto di “tradizione”.

Anzitutto, il termine “tradizione” deriva direttamente dal sostantivo latino “traditio”, il cui primo significato era “consegna”; si legava infatti al verbo “trado” che voleva dire appunto “consegnare, porgere, trasmettere”.

Noi siamo abituati a pensare che “tradizione” significhi “mantenere” qualcosa che c’era prima, “ricordare”, “conservare”; ma per i Latini “traditio” voleva dire invece, prima di tutto, “consegnare qualcosa ad altri”. In altre parole, la “tradizione” ci “consegna” un’eredità passata, ce la “affida” (“tràdĕre” voleva anche dire “affidare, assegnare”), ce la trasmette.

I nostri “ante-nati” (nati prima di noi) sono passati da questa Terra e, prima di lasciarcela, ci hanno passato la fiaccola (“traditio làmpădis” era “il passaggio della fiaccola” tra i corridori olimpici), perché rischiarasse anche a noi il cammino e ci indicasse la strada verso la meta.

Ne deriva che “tradizione” implica il concetto di “andare avanti”, non quello di “fermarsi”. Chi riceve la fiaccola, deve farla sua e portarla avanti per il tratto di percorso che gli spetta.

Potrebbe, certo, rifiutare di riceverla; ma, così facendo, interromperebbe il nesso con i suoi predecessori e, soprattutto, smarrirebbe il senso dell’incarico che essi gli hanno affidato.

D’altro canto, se il destinatario del dono accettasse il dono ricevuto ma si limitasse a “conservarlo”, a preservarlo come una più o meno sacra reliquia, verrebbe meno al suo compito di “consegnare” ad altri quello che gli è stato affidato: rinunciando a compiere il suo tragitto, sceglierebbe anche di non avere dei “posteri” (cioè “gente che viene dopo”). Non guarderebbe indietro, ma neanche avanti. Sarebbe fermo, statico, chiuso in un suo breve presente privo di passato e di futuro.

Il conservatorismo, mentre inneggia alla tradizione, la fraintende e la uccide.

Come si è visto, chi ritiene che “tradizione” significhi solo difesa dell’antico e arroccamento nel passato smarrisce il vero senso del termine, che indica – ribadiamolo – un bene che ci è stato “consegnato” e che sarebbe strano non accettare.

Pochi di voi, suppongo, se suona il postino e vi dice “C’è un pacco-regalo per te” resistono alla tentazione di “ricevere” il dono ed aprirlo. Poi, come è ovvio, il dono può essere più o meno gradito, più o meno rispondente ai nostri gusti; ci può sembrare obsoleto, o “riciclato”; ma, comunque sia, ci “arricchisce”: ci dà una cosa in più che non avevamo.

Molti, soprattutto dopo il 1968, fraintendendo il concetto di “tradizione”, ne hanno fatto una nemica, una sorta di “iper-struttura” che incombe su noi e ci impone la sua “super-visione” rendendoci succubi di essa. In questo equivoco era caduto pure Nietzsche quando aveva definito la tradizione “un’autorità superiore, cui si obbedisce non perché comanda ciò che è a noi utile, ma perché lo comanda». Al filosofo però sfuggiva il suddetto senso “etimologico” della “tradizione”, che implica appunto una “consegna” a un destinatario, un “testimone” da passare di mano in mano, non un dittatoriale “comando” imposto dall’alto (dall’alto di che, poi? di una o due generazioni anagrafiche di differenza? che cosa sono 25-50 anni in una storia di millenni?).

Si obietterà che certe tradizioni possono diventare un limite quando i vecchi modelli cognitivi e operativi non appaiono più efficaci su una realtà come quella odierna, che cambia velocemente, sotto l’impulso del progresso tecnologico e scientifico. Ma è altrettanto vero che nel suddetto “passaggio di consegne” non tutto si mantiene inalterato.

Un vecchio (e un po’ stupido) gioco di società consisteva nel mettersi in fila e nel sussurrare all’orecchio del vicino una frase, che poi era sussurrata all’altro e all’altro ancora, finché l’ultimo della fila comprendeva ormai ben poco della frase originaria. Analogamente, il “dono” che ci è “tra-mandato” dai nostri predecessori può essere “modificato”, forse frainteso, alterato in alcune sue caratteristiche; tuttavia è importante che la “trasmissione” avvenga comunque, per non spezzare il “filo rosso” che collega le generazioni.

In tal senso, destinatario ideale della tradizione è colui che, dopo averla “ricevuta”, la “trasmette” ad altri adattandola ed arricchendola con un suo contributo personale, magari attualizzandone alcuni aspetti e rendendola così più facilmente “trasmissibile” a chi viene dopo di noi. Come scrisse W. Somerset Maugham, «La tradizione è una guida e non un carceriere».

La prima e più grande forma di “tradizione”, di “consegna” di un patrimonio passato è la Storia. Chi non conosce la Storia non ha aperto la porta al “postino” più importante di tutti e ha rifiutato il più prezioso dei pacchi-dono. Purtroppo però sempre meno persone conoscono la Storia, o – se l’hanno studiacchiata – ne hanno ricevuto una visione parziale, acritica, spesso distorta più o meno in malafede; se ciò è avvenuto, è anche perché la Storia è il dono più pericoloso (soprattutto per certi regimi politici), poiché consente, più di tutti gli altri, di imparare dagli errori passati, di inquadrare al meglio la situazione presente e di evitare i mali futuri.

La lodevole attenzione che la scuola di oggi sta (finalmente) riservando all’Educazione civica (ribattezzata “Cittadinanza” per la solita tendenza a chiamare le stesse cose con nome diverso) non dovrebbe prescindere da un rafforzamento della conoscenza della Storia e (diciamolo) da una verifica reale dell’efficacia dei metodi adottati per insegnarla ai giovani.

Qualche anno fa il prof. Vito Lo Scrudato, dirigente del Liceo classico “Umberto I” di Palermo, mi incaricò di creare un motto latino che identificasse il nostro istituto; unica clausola era, per lui, che fosse di tre parole e che al centro ci fosse la congiunzione “ac” (la sua posizione istituzionale lo spingeva evidentemente alla “coordinazione”, all’attenzione ai nessi fra le cose).

Non ho avuto dubbi nell’eseguire l’incarico; e ancora oggi, nel logo del liceo, si legge il mio motto: MEMORIA AC RENOVATIO.

Ricordare e rinnovare. Conoscere il passato per creare il futuro. Accettare il patrimonio culturale che ci è stato consegnato ma farlo nostro e utilizzarlo per migliorare la nostra esistenza.

Credo che questo criterio, che ho sempre tenuto presente nella mia vita, sia da me condiviso con tantissime persone, che capiscono a loro volta il vero valore della memoria e della tradizione e (senza venerarla come un immobile e muto idolo pagano) sono pronti a rinnovarla, per costruire un futuro migliore.

Se poi qualcuno, orwellianamente, dovesse tentare di impedirlo, imponendo una concezione surgelata e mummificata della tradizione, sarebbe destinato al fallimento, perché – come dice la Storia – quel che è stato può essere ancora, nel bene e nel male; e chi ha provato a surgelare e mummificare la mente dei popoli ha in genere ottenuto l’effetto opposto, cioè quello di risvegliarne le coscienze.

Di Mario Pintacuda

Nato a Genova il 2 marzo 1954. Ha frequentato il Liceo classico "Andrea D'Oria" e si è laureato in Lettere classiche con 110/110 e lode all'Università di Genova. Ha insegnato nei Licei dal 1979 al 2019. Ha pubblicato numerosi testi scolastici, adottati in tutto il territorio nazionale; svolge attività critica e saggistica. E' sposato con Silvana Ponte e ha un figlio, Andrea, nato a Palermo nel 2005.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *