Il “Fatto” del commissario Ricciardi

«Il Fatto. Ricciardi si era abituato a chiamare così la connotazione principale della sua vita, quello che lo rendeva così profondamente diverso dagli altri. Il Fatto. Questo Fatto che ho, da quando mi succede il Fatto, mi ha aiutato il Fatto».

Così Maurizio De Giovanni presenta il commissario Ricciardi nel primo racconto che lo ha per protagonista, L’omicidio Carosino, scritto nel 2005 in occasione di un concorso per giallisti esordienti.

Maurizio De Giovanni

Il Fatto è la più originale intuizione dell’autore nella creazione del suo personaggio, divenuto quest’anno ancor più famoso grazie alla fiction televisiva prodotta da Rai Fiction e Clemart, diretta da Alessandro D’Alatri e scritta dallo stesso Maurizio de Giovanni con Salvatore Basile, Viola Rispoli e Doriana Leondeff; attore protagonista era il bravo Lino Guanciale.

La serie ha vinto il Nastro d’argento il 18 settembre scorso come migliore fiction dell’anno, mentre De Giovanni ha ottenuto il Nastro Speciale per la scrittura, anche per le altre fortunate serie tratte dai suoi tanti romanzi (“Mina Settembre” e “I Bastardi di Pizzofalcone”).

Il Fatto consiste nella soprannaturale capacità che Ricciardi ha di “vedere” i morti. Questo surreale “dono”, che in realtà diventa una condanna per il commissario, si era manifestato quando aveva solo cinque anni; una volta, giocando in un cortile con un pezzo di legno “che poteva sembrare una sciabola”, il piccolo era entrato in un vigneto; ad un tratto aveva “visto” un uomo accoltellato mortalmente: «Il bambino lo guardò meglio: aveva la camicia intrisa di sangue, e dal lato sinistro spuntava il manico di un coltello da giardiniere. Abbandonata la sciabola, il bambino scappò gridando» (da L’omicidio Carosino).

Questo drammatico episodio segna per sempre Ricciardi, mette fine prematuramente alla sua spensieratezza, spegne ogni sua gioia, lo rende “diverso” e disperato. Lo stesso commissario, che nel racconto Mammarella riveste insolitamente il ruolo di narratore, racconta con struggente amarezza le terribili manifestazioni del Fatto: «Vedo i morti ammazzati, o per incidente, con violenza insomma, all’improvviso. Li vedo sul posto dov’è successo, per un tempo variabile, dieci giorni, un mese, anche due: vanno sbiadendo come un ricordo, allontanandosi un poco alla volta da questo schifo di mondo dal quale sono stati strappati».

La dannazione del commissario è ereditaria: sua madre, la baronessa Marta, si era resa conto che il figlio aveva preso da lei la drammatica capacità di vedere i morti: «Tutti, allora. Li vedi tutti. Sei maledetto, povero piccolo mio. Maledetto» (da Il posto di ognuno – L’estate del commissario Ricciardi).

Ricciardi perde il padre quando ha solo due anni; sua madre, che soffre di crisi nervose, muore in una casa di cura quando lui va al liceo. Il ragazzo resta allora affidato a un’anziana “tata” cilentana, Rosa Vaglio, che da quel momento diventa una seconda mamma per il suo “signorino”. Ricciardi, che possiede una ricca fortuna in immobili e fondi agricoli, potrebbe vivere di rendita nelle sue tenute cilentane; ma sceglie di studiare Legge (proprio per cercare di fare giustizia delle troppe morti assurde che “vede”) e con la governante si trasferisce a Napoli, prima per gli studi universitari e poi, dopo la laurea a pieni voti, per il suo lavoro di commissario nella Regia questura di Napoli.

Nunzia Schiano nel ruolo di Rosa, nella fiction televisiva “Il commissario Ricciardi”

Sono gli anni in cui il fascismo si afferma in Italia; il contesto è cupo, in un clima irrespirabile di delazioni e pressioni politiche. Su Ricciardi le autorità fasciste hanno pure un minuzioso dossier: «Ricciardi Luigi Alfredo, quarto barone di Malomonte, nato a Fortino, provincia di Salerno, il primo di giugno 1900, residente a Napoli, in via Santa Teresa degli Scalzi numero 107. Scapolo» (da Il giorno dei morti – L’autunno del comm. Ricciardi); nessuna frequentazione, né maschile (evitando così l’accusa di omosessualità, gravissima agli occhi dei fascisti di ogni epoca) né femminile (alla faccia delle leggi contro il celibato).

Sul lavoro Ricciardi è aiutato dal corpulento e generoso brigadiere Raffaele Maione (padre di cinque figli, uno dei quali, poliziotto anche lui, era stato ucciso da un ladro) e dal medico Bruno Modo (convinto antifascista, legato a Ricciardi da amicizia e stima reciproca).

Lino Guanciale (Ricciardi) e Antonio Milo (Maione) nella fiction televisiva

Il commissario, sempre senza cappello e con il suo immancabile impermeabile grigio, è ineguagliabile per impegno, dedizione, umanità e senso della giustizia. Le sue doti “soprannaturali” lo aiutano, ma non condizionano in modo decisivo le sue indagini; infatti, proprio perché vive una condizione profondamente dolorosa, Ricciardi comprende il dolore umano, se ne chiede le ragioni, ascolta con partecipazione le parole delle persone coinvolte nelle sue inchieste, soffre con loro. Tutto questo lo rende strano e antipatico agli occhi dei suoi colleghi (che quasi lo ritengono uno jettatore) e al suo diretto superiore, il mellifluo vicequestore Garzo, viscido esecutore degli ordini del regime.

Quando, nel romanzo Il giorno dei morti, un amico sacerdote gli chiede il motivo della sua costante tristezza, Ricciardi, che indaga sulla misteriosa morte di un povero scugnizzo abbandonato, risponde: «Il giorno che non mi rattristerà più vedere un bambino così piccolo morto e buttato via come un vestito vecchio; il giorno che non mi darà più dolore pensare che a sette, otto anni, si può morire di fame o, come nel caso di questo ragazzo, per fame, riducendosi a mangiare le esche avvelenate; il giorno che non vorrò capire perché di notte e sotto la pioggia un ragazzino girava da solo, a piedi scalzi; il giorno che per me sarà normale trovare un cadavere seduto su  uno scalone all’alba, vegliato soltanto da un cane; quel giorno, ve lo giuro, padre, smetterò di fare mestiere e me ne tornerò al paese mio». Ricciardi pronuncia queste parole appassionate bisbigliando, ma con le mani conserte in petto, «come se fosse stato in preda a un forte dolore all’addome»: il commissario somatizza il dolore, suo e degli altri; non è mai freddo e insensibile, malgrado i suoi occhi verdi dallo sguardo di ghiaccio, ma – al contrario – soffre per la sua “condanna” a vedere il dolore altrui, facendolo proprio e sommandolo al proprio.

A parte la “tata” Rosa, un solo conforto illumina le giornate di Ricciardi. La sera, affacciandosi dalla finestra di casa, vede la sua giovane dirimpettaia, la venticinquenne Enrica Colombo, brava, onesta e seria “figlia di famiglia”: e nasce fra i due giovani un amore castissimo, fatto di sguardi e di silenzi.

Maria Vera Ratti nel ruolo di Enrica

Non credo si possa dubitare che De Giovanni, ottimo conoscitore della tradizione musicale partenopea, sia stato ispirato dalla famosa canzone “Signorinella” del poeta napoletano Libero Bovio (1883-1942), musicata da Nicola Valente (“Signorinella pallida, / dolce dirimpettaia del quinto piano, / non v’è una notte ch’io non sogni Napoli, / e son vent’anni che ne sto lontano”).

Solo dopo mesi e mesi Ricciardi, ispirandosi con la consultazione de “Il segretario galante” (una fortunata raccolta di lettere d’amore), scrive queste poche pudiche righe alla sua vicina: “Gentile signorina, mi permetto di scrivervi per non darvi l’impressione di essere una persona scortese, che si prende l’ardire e la confidenza di salutarvi dalla finestra. […] Mi chiamo Luigi Alfredo Ricciardi, sono commissario presso la questura e, come sapete, abito di là dalla strada, proprio di fronte alle vostre finestre. Questa breve lettera è scritta nell’unico intento di sapere se non vi dà fastidio essere salutata, quando occasionalmente vi vedo da lontano. Se così dovesse essere, vi assicuro che non accadrebbe mai più. Ma devo anche dirvi, in tutta sincerità, che a me piacerebbe molto se non fosse così. Sarò lieto di avere vostre notizie. Nel frattempo, credetemi vostro aff.mo Luigi Alfredo Ricciardi” (da Il giorno dei morti).

Enrica riceve la lettera con il cuore che le scoppia nel petto: “non dubitò nemmeno per un attimo che fosse sua, che finalmente avesse deciso di farsi vivo”.

La storia fra i due prosegue a sbalzi, soprattutto perché Ricciardi è ossessionato dal Fatto, dal suo terrore di dover condividere con qualcuno il suo angosciante segreto, con la paura di perdere Enrica se dovesse esserne inorridita o spaventata. Non è il caso qui di rivelare (dovrei usare l’indigeribile neologismo anglosassone “spoilerare”?) a chi non li conosce gli sviluppi della vicenda, che trova il suo epilogo negli ultimi due romanzi della serie (Il purgatorio dell’angelo e Il pianto dell’alba); basti aggiungere che la storia è sempre raccontata in modo delicato, commovente ed efficace. De Giovanni dimostra una sensibilità notevole e, soprattutto, la capacità (rara) di non commettere anacronismi e di non attribuire a personaggi degli anni Trenta la mentalità spregiudicata dei nostri tempi.

Maria Vera Ratti (Enrica) con Nunzia Schiano (Rosa) in una scena dello sceneggiato “Il giorno dei morti”

Non sarà inutile, in conclusione, aggiungere che la scrittura di De Giovanni si rivela sempre  di alto livello: basti citare la capacità di muoversi su tutti i toni espressivi (drammatici, “gotici”, lirici, elegiaci, ironici), i capitoli “in corsivo” (con apparenti divagazioni, spesso legate alla realtà napoletana, che in realtà aprono splendidi squarci poetici), l’analisi attenta dei personaggi, compresi quelli minori (ad es. il “femminello” Bambinella, confidente del brigadiere Maione, o la bellissima vedova Livia Lucani, perdutamente e vanamente innamorata del fascinoso e misterioso commissario), l’ambientazione storica ineccepibile (ottimamente resa anche nella fiction televisiva).

E sarebbe anche importante discutere sui motivi per cui oggi in Italia molti autori (da Camilleri in poi) raggiungano il meritato successo grazie allo sfondo “poliziesco”.

Un’ultima osservazione. Su Facebook, nel profilo della bravissima attrice napoletana Maria Vera Ratti (che nella fiction ha interpretato Enrica), si può vedere la scena in cui la ragazza trova il coraggio di correre, una sera, incontro al commissario che sta rientrando a casa. Lo sguardo perduto fra i due, il rapido bacio che lei riesce a dargli, la corsa goffa (con tanto di mezzo scivolone) della ragazza che fugge via sono una rara pagina di grande e sensibile recitazione.

Il link è https://www.facebook.com/Il.commissario.ricciardi/videos/248755283547844.

Di Mario Pintacuda

Nato a Genova il 2 marzo 1954. Ha frequentato il Liceo classico "Andrea D'Oria" e si è laureato in Lettere classiche con 110/110 e lode all'Università di Genova. Ha insegnato nei Licei dal 1979 al 2019. Ha pubblicato numerosi testi scolastici, adottati in tutto il territorio nazionale; svolge attività critica e saggistica. E' sposato con Silvana Ponte e ha un figlio, Andrea, nato a Palermo nel 2005.

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