Il successore di Don Rodrigo: il buon marchese

Nell’ultimo capitolo dei “Promessi Sposi”, dopo il sospirato ricongiungimento fra Renzo e Lucia nel lazzaretto e dopo che Padre Cristoforo ha liberato la giovane dal vincolo del voto di castità da lei formulato durante la prigionia nel castello dell’Innominato, i due giovani tornano al loro paese e pensano di nuovo alle nozze.

Don Abbondio, però, continua ad essere restio e renitente: anzitutto il curato teme ancora un ritorno di don Rodrigo (benché sia stato visto da Renzo in fin di vita); inoltre incombe ancora sul giovane “quella catturaccia”, cioè il bando di cattura emesso contro di lui due anni prima a Milano durante i tumulti per il pane.

Don Abbondio consiglia ai due giovani di andarsene altrove e lo dice espressamente ad Agnese, che è andata a perorare la loro causa: «Se poi si volesse andar per la più corta, senza imbarcarsi in tante storie; giacché codesti giovani, e qui la nostra Agnese, hanno già intenzione di spatriarsi (e io non saprei cosa dire: la patria è dove si sta bene), mi pare che si potrebbe far tutto là, dove non c’è cattura che tenga. Non vedo proprio l’ora di saperlo concluso questo parentado, ma lo vorrei concluso bene, tranquillamente. Dico la verità: qui, con quella cattura viva, spiattellar dall’altare quel nome di Lorenzo Tramaglino, non lo farei col cuor quieto: gli voglio troppo bene; avrei paura di fargli un cattivo servizio. Veda lei; vedete voi altre».

La situazione pare bloccata, quando improvvisamente arriva Renzo, “con un passo risoluto”, annunciando l’arrivo in paese del “signor marchese”. Si tratta dell’“erede per fidecommisso” di don Rodrigo (si trattava di un vincolo testamentario ideato per non disperdere i patrimoni familiari).

Don Abbondio ha ottime referenze sul nuovo signorotto locale: «l’ho sentito nominar più d’una volta per un bravo signore davvero, per un uomo della stampa antica»; tuttavia il pavido curato esita ancora e pretende dal sagrestano Ambrogio la conferma della morte di don Rodrigo. Alla fine, quando ogni dubbio è fugato, il parroco esulta platealmente per la notizia: «Ah! è morto dunque! è proprio andato! [..] Vedete, figliuoli, se la Provvidenza arriva alla fine certa gente. Sapete che l’è una gran cosa! un gran respiro per questo povero paese! che non ci si poteva vivere con colui. E stata un gran flagello questa peste; ma è anche stata una scopa; ha spazzato via certi soggetti, che, figliuoli miei, non ce ne liberavamo più. […] Non lo vedremo più andare in giro con quegli sgherri dietro, con quell’albagìa, con quell’aria, con quel palo in corpo, con quel guardar la gente, che pareva che si stesse tutti al mondo per sua degnazione. Intanto, lui non c’è più, e noi ci siamo. Non manderà più di quell’imbasciate ai galantuomini. Ci ha dato un gran fastidio a tutti, vedete: ché adesso lo possiamo dire».

L’indomani, inaspettatamente, il “signor marchese” si presenta personalmente da don Abbondio. Il ritratto del nuovo signorotto assume immediatamente caratteri quasi agiografici: «un uomo tra la virilità e la vecchiezza, il cui aspetto era come un attestato di ciò che la fama diceva di lui: aperto, cortese, placido, umile, dignitoso, e qualcosa che indicava una mestizia rassegnata».

Il marchese chiede al curato, per conto del cardinale Borromeo, notizie di Renzo e Lucia; quando apprende che stanno per avvenire le nozze fra i due, esterna la sua piena disponibilità: «io la prego di volermi dire se si possa far loro del bene, e anche d’insegnarmi la maniera più conveniente. In questa calamità, ho perduto i due soli figli che avevo, e la madre loro, e ho avute tre eredità considerabili. Del superfluo, n’avevo anche prima: sicché lei vede che il darmi una occasione d’impiegarne, e tanto più una come questa, è farmi veramente un servizio». Ecco dunque il motivo della “mestizia rassegnata” del marchese: è rimasto solo dopo aver perso per la peste i suoi cari e intende utilizzare i beni abbondanti e addirittura “superflui” di cui dispone per fare del bene.

A questo punto don Abbondio consiglia al marchese di acquistare la vigna di Renzo (“di nove o dieci pertiche”) e le case dei due sposi (che non ne hanno più bisogno perché stanno per trasferirsi nel bergamasco). Il marchese, che evidentemente nelle intenzioni di Manzoni è poco meno che un santo, chiede al curato di  «voler essere arbitro del prezzo, e di fissarlo alto bene».

Non basta ancora: il nobile signore chiede a don Abbondio di accompagnarlo a casa della sposa e, cammin facendo, garantisce il suo influente interessamento per far togliere a Renzo il bando di cattura che ancora sussiste contro di lui.

Quando il marchese entra in casa di Lucia, Manzoni commenta con un’espressione francamente barocca e grottesca, lontana mille miglia dal suo abituale equilibrio: «Trovarono appunto le tre donne e Renzo. Come questi rimanessero, lo lascio considerare a voi: io credo che anche quelle nude e ruvide pareti, e l’impannate, e i panchetti, e le stoviglie si maravigliassero di ricever tra loro una visita così straordinaria».

Non meno surreale risulta la successiva conversazione, nel corso della quale il marchese addirittura raddoppia il prezzo fissato da don Abbondio per la vigna e le due “topaie”; per di più, invita gli sposi «a desinare per il giorno dopo le nozze, al suo palazzo».

Il giorno dopo avviene finalmente il sospirato matrimonio, liquidato (dopo tanta attesa!) in due frettolose righe: «venne quel benedetto giorno: i due promessi andarono, con sicurezza trionfale, proprio a quella chiesa, dove, proprio per bocca di don Abbondio, furono sposi».

Dopo la cerimonia, gli sposi, con Agnese e la buona mercantessa (altro fulgido esempio di vedova dal cuore d’oro), si recano nel “palazzotto” che era stato del perfido don Rodrigo e che ora diventa “location” di una “gran festa”.

Il marchese, dopo aver messo a tavola gli sposi e le due donne, «prima di ritirarsi a pranzare altrove con don Abbondio, volle star lì un poco a far compagnia agl’invitati, e aiutò anzi a servirli».

A questo punto, mentre ci stropicciamo gli occhi, increduli davanti alla sorprendente prospettiva di un marchese ridotto inverosimilmente a cameriere, Manzoni ricorda finalmente di essere un autore attento ai dettagli realistici (più volte omessi in questa fase melensa del romanzo) e dichiara: «A nessuno verrà, spero, in testa di dire che sarebbe stata cosa più semplice fare addirittura una tavola sola. Ve l’ho dato per un brav’uomo, ma non per un originale, come si direbbe ora; v’ho detto ch’era umile, non già che fosse un portento d’umiltà. N’aveva quanta ne bisognava per mettersi al di sotto di quella buona gente, ma non per istar loro in pari». L’autore insomma, accortosi (tardi) di essere scivolato nel raccontino edificante, torna a mostrare al lettore la realtà effettuale di un mondo diviso in classi e dominato dalle radicate gerarchie del potere.

Dopo pranzo, si passa agli affari: «fu steso il contratto per mano d’un dottore, il quale non fu l’Azzecca-garbugli»; dopo di che, Renzo se ne torna a casa con la sua sposa «un po’ incomodato dal peso de’ quattrini che portava via».

Il personaggio del marchese, così “eccessivo” nella sua aura di bontà esasperata, sembra rappresentare il contraltare, auspicato dal cattolico Manzoni, al malgoverno della nobiltà: al posto dell’arroganza e della prepotenza dei don Rodrigo si impone, come già era avvenuto per l’Innominato, l’auspicio di una nobiltà “diversa”, contrassegnata da carità cristiana e senso della giustizia.

Forse però, più che a Manzoni, la colpa della sensazione di “falsità” – che inevitabilmente promana da certe righe di questo capitolo conclusivo – va attribuita al fatto che anche oggi siamo abituati a vedere il peggio del peggio in coloro che rivestono ruoli di potere, per cui ogni atteggiamento “evangelico”, ogni esibizione di bontà gratuita, ogni disponibilità a un disinteressato altruismo, ci appaiono falsi, improbabili, inverosimili.

Del bravo marchese e della sua vita successiva nel borgo dei due protagonisti non si sa più nulla; sarà verosimilmente rimasto lì vita natural durante, facendo qualche visita a don Abbondio (non ci risultano altre sue compagnie).

È fantasia vacua del lettore, allora, quella di immaginare questi due personaggi, il pavido curato e il santo blasonato, intenti a passeggiare insieme, prima del tramonto, per una delle stradicciole vicine al paese, di quelle «strade e stradette, più o men ripide, o piane; ogni tanto affondate, sepolte tra due muri, donde, alzando lo sguardo, non iscoprite che un pezzo di cielo e qualche vetta di monte».

Con la certezza che, stavolta, nessun minaccioso “bravo” li avrebbe attesi al varco.

Di Mario Pintacuda

Nato a Genova il 2 marzo 1954. Ha frequentato il Liceo classico "Andrea D'Oria" e si è laureato in Lettere classiche con 110/110 e lode all'Università di Genova. Ha insegnato nei Licei dal 1979 al 2019. Ha pubblicato numerosi testi scolastici, adottati in tutto il territorio nazionale; svolge attività critica e saggistica. E' sposato con Silvana Ponte e ha un figlio, Andrea, nato a Palermo nel 2005.

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