Il tema della morte nel “Gattopardo” è trattato allusivamente o esplicitamente in più di un’occasione.
1) Il cap. I (maggio 1860) si apre con la recita del rosario, con le parole «Nunc et in hora mortis nostrae. Amen» (p. 17; cito dall’edizione originale Feltrinelli del 1958).
2) Sempre nel cap. I si ricorda il rinvenimento, nel giardino della villa del Principe, del cadavere di un giovane soldato del 5° Battaglione Cacciatori: «lo avevano trovato bocconi nel fitto trifoglio, il viso affondato nel sangue e nel vomito, le unghie confitte nella terra, coperto dai formiconi; e di sotto le bandoliere gl’intestini violacei avevano formato pozzanghere» (p. 23).
3) Nel cap. II, nel palazzo di Donnafugata, il Principe, mentre fa il bagno, discute con Padre Pirrone, che gli comunica che sua figlia Concetta si è scoperta innamorata del cugino Tancredi; ma «ad un tratto ebbe freddo. L’acqua che aveva addosso evaporava, e la pelle delle braccia era gelida. Le punte delle dita si raggrinzivano… Si alzò e passò nella stanza di toletta. Dalla Madre Chiesa vicina giungevano tetri i rintocchi di un “mortorio”. Qualcuno era morto a Donnafugata, qualche corpo affaticato che non aveva resistito al grande lutto dell’estate siciliana, cui era mancata la forza di aspettare la pioggia. “Beato lui” pensò il Principe… “Finché c’è morte c’è speranza”» (pp. 90-91).
4) La sera stessa il Principe prima di andare a letto si sofferma sul balconcino dello spogliatoio e osserva le stelle (è un bravissimo astronomo): «L’anima del Principe si slanciò verso di loro, verso le intangibili, le irraggiungibili, quelle che donano gioia senza poter nulla pretendere in cambio, quelle che non barattano; come tante altre volte fantasticò di poter presto trovarsi in quelle gelide distese» (p. 104).
5) Nel cap. IV (novembre 1860), durante il colloquio con il cavaliere piemontese Chevalley di Monterzuolo, venuto a proporre a don Fabrizio un seggio nel Senato del nuovo regno d’Italia, il Principe rifiuta esprimendo le sue considerazioni pessimistiche sul futuro della Sicilia: «Il sonno, caro Chevalley, il sonno è ciò che i Siciliani vogliono, ed essi odieranno sempre chi li vorrà svegliare, sia pure per portar loro i più bei regali… Tutte le manifestazioni siciliane sono manifestazioni oniriche, anche le più violente: la nostra sensualità è desiderio di oblio, le schioppettate e le coltellate nostre, desiderio di morte; desiderio di immobilità voluttuosa, cioè ancora di morte…» (p. 210).
6) Nel cap. VI (novembre 1862), durante il ballo a casa Ponteleone, don Fabrizio si rifugia in biblioteca, dove osserva una copia del quadro “La morte del giusto” di Greuze (pittore francese settecentesco, autore piuttosto lezioso di dipinti a sfondo moralistico e sentimentale; in realtà il quadro era intitolato “Il figlio ingrato”). Il Principe ritiene assurdo il modo “idilliaco” in cui è ritratta la morte di un “vegliardo” circondato dai parenti: «chiese a sé stesso se la propria morte sarebbe stata simile a quella: probabilmente sì, a parte che la biancheria sarebbe stata meno impeccabile (lui lo sapeva, le lenzuola degli agonizzanti sono sempre sudice, ci son le bave, le deiezioni, le macchie di medicine…)» (p. 267). Subito dopo Tancredi, al braccio della fidanzata Angelica, sorprendendo lo zio gli chiede ironicamente:«Zione… Corteggi la morte?» (p. 268).
7) Alla fine dello stesso capitolo, il Principe verso le sei del mattino torna a casa a piedi e osserva ancora una volta lo spazio infinito: «Da una viuzza traversa intravide la parte orientale del cielo, al disopra del mare. Venere stava lì, avvolta nel suo turbante di vapori autunnali. Essa era sempre fedele, aspettava sempre Don Fabrizio alle sue uscite mattutine, a Donnafugata prima della caccia, adesso dopo il ballo. Don Fabrizio sospirò. Quando si sarebbe decisa a dargli un appuntamento meno effimero, lontano dai torsoli e dal sangue, nella propria regione di perenne certezza?» (p. 279).
Nel cap. VII, il penultimo del romanzo, la scena si svolge nel luglio 1883, con un salto temporale di ventuno anni dal precedente capitolo (il ballo a Palazzo Ponteleone nel novembre 1862).
Il protagonista, l’ormai settantatreenne Principe Fabrizio di Salina, tornato a Palermo da un consulto medico a Napoli, in seguito ad un grave malore non può rientrare nel suo palazzo e viene condotto dai familiari all’albergo Trinacria, dove trascorre le sue ultime ore di vita.
Sono pagine molto intense, che ricordano altre grandi descrizioni di un’agonia: si pensa alla morte di Mastro don Gesualdo in Verga, a quella di Ivan Il’ič in Tolstoj, ad Adriano nel libro della Yourcenar, alle ultime ore di Aschenbach nella Morte a Venezia di Thomas Mann.
All’inizio del capitolo, don Fabrizio “riconosce” perfettamente i segnali della morte imminente e comprende che il suo “corteggiamento” della morte si avvia ormai alla conclusione: «Don Fabrizio quella sensazione la conosceva da sempre. Erano decenni che sentiva come il fluido vitale, la facoltà di esistere, la vita insomma, e forse anche la volontà di continuare a vivere andassero uscendo da lui lentamente ma continuamente come i granellini che si affollano e sfilano ad uno ad uno, senza fretta e senza soste, dinanzi allo stretto orifizio di un orologio a sabbia… Talvolta si sorprendeva che il serbatoio vitale potesse ancora contenere qualcosa dopo tanti anni di perdite… Tal altra volta, più spesso, si era inorgoglito di esser quasi solo ad avvertire questa fuga continua mentre attorno a lui nessuno sembrava sentire lo stesso; e ne aveva tratto motivo di disprezzo per gli altri, come il soldato anziano disprezza il coscritto che si illude che le pallottole ronzanti intorno siano dei mosconi innocui… Forse solo Tancredi per un attimo aveva compreso quando gli aveva detto con la sua ritrosa ironia: “Tu, zione, corteggi la morte”. Adesso il corteggiamento era finito: la bella aveva detto il suo sì, la fuga decisa, lo scompartimento nel treno, riservato» (pp. 283-285).
Il Principe, durante la sua agonia, ripensa a tutta la sua vita: «Faceva il bilancio consuntivo della sua vita, voleva raggranellare fuori dall’immenso mucchio di cenere delle passività le pagliuzze d’oro dei momenti felici» (p. 294). E alla fine conclude amaramente: «Ho settantatrè anni, all’ingrosso ne avrò vissuto, veramente vissuto, un totale di due… tre al massimo”. E i dolori, la noia, quanto erano stati? Inutile sforzarsi a contare: tutto il resto: settant’anni» (p. 296).
Come osserva Romano Luperini, Don Fabrizio aveva cercato per tutta la vita «di sottrarsi al tempo storico: il senso della tradizione nobiliare era per lui anche quello di una possibile “perennità”, quale si esprimeva, per esempio, nelle mura dei suoi palazzi… Per questo ha sempre corteggiato la morte: la contemplazione delle stelle […] aveva per lui il significato di una contemplazione della morte… La vista delle stelle gli garantiva un distacco rassicurante dagli uomini, dagli eventi e dalla storia. Ora, facendo un bilancio della propria vita nel momento dell’agonia, si rende conto di avere avuto torto: il tempo non si è congelato, la tradizione non si è conservata, i figli e i nipoti hanno assunto consuetudini borghesi: “quel Garibaldi, quel barbuto Vulcano aveva dopo tutto vinto”. La sua mente stessa rivela tale fallimento: egli muore in un ambiente estraneo e ostile, in un albergo gestito da uno “svizzerotto” (un borghese, insomma) scontento e allarmato per dover ospitare un moribondo. La situazione rievoca quella verghiana della morte di Gesualdo, un borghese, in un palazzo nobiliare di Palermo».
Il Principe si aggrava ulteriormente, i parenti riuniti attorno a lui piangono e si disperano. A questo punto la Morte appare a Don Fabrizio, nelle sembianze di una “giovane signora”: «Fra il gruppetto ad un tratto si fece largo una giovane signora: snella, con un vestito marrone da viaggio ad ampia tournure, con un cappellino di paglia ornato da un velo a pallottoline che non riusciva a nascondere la maliosa avvenenza del volto. Insinuava una manina inguantata di camoscio fra un gomito e l’altro dei piangenti, si scusava, si avvicinava. Era lei, la creatura bramata da sempre che veniva a prenderlo: strano che così giovane com’era si fosse arresa a lui; l’ora della partenza del treno doveva esser vicina. Giunta faccia a faccia con lui sollevò il velo e così, pudica ma pronta ad esser posseduta, gli apparve più bella di come mai l’avesse intravista negli spazi stellari. Il fragore del mare si placò del tutto» (p. 297).
Comunque si voglia interpretare questo passo, l’esistenza di Don Fabrizio si chiude su un’immagine sensuale e terrena. Analogamente, in uno splendido racconto dello stesso Tomasi, intitolato “Lighea”, la morte assume le sembianze di una donna, anzi di una sirena, Lighea, caratterizzata da una gioia di vivere “animalesca” e al tempo stesso divina, sensualmente attaccata all’esistenza ma anche simbolo di un’eterna immobilità. Infatti così dice Lighea al suo giovane amante mortale, Paolo Corbera: «Tu sei bello e giovane; dovresti seguirmi adesso nel mare e scamperesti ai dolori, alla vecchiaia; verresti nella mia dimora, dove tutto è silenziosa quiete tanto connaturata che chi la possiede non la avverte neppure. Io ti ho amato e, ricordalo, quando sarai stanco, quando non ne potrai proprio più, non avrai che da sporgerti sul mare e chiamarmi; io sarò sempre lì, perché sono ovunque, e la tua sete di sonno sarà saziata».
In definitiva, la morte nel Gattopardo presenta aspetti contraddittori. Occorre distinguere fra la morte fisica, concepita come qualcosa di disgustoso e repellente, e la morte come condizione al di là della vita; quest’ultima è “immaginata come qualcosa di astratto, puro, perfetto, assolutamente estraneo a tutto ciò che è materia, corruttibilità, sporcizia, simbolizzata spesso nel mondo delle stelle… […] È verso questo mondo di pura perfetta spiritualità che il Principe si protende nei momenti in cui sente la stanchezza dei fastidi, delle pene, della sporcizia del mondo terreno” (S. Salvestroni, Tomasi di Lampedusa, Il Castoro, Firenze 1973, p. 48).
Ad aggravare la malinconia del principe sono i segni evidenti della fine del suo mondo, spodestato dall’ascesa del ceto borghese, anticipata dalla figura di don Calogero Sedàra ma culminante nel nipote più giovane di Don Fabrizio, chiamato non senza ironia “Fabrizietto” e definito senz’altro “odioso”, «con gl’istinti goderecci, con le sue tendenze verso un’eleganza borghese».
Come aveva pronosticato il principe, lui era davvero l’ultimo gattopardo: «Noi fummo i Gattopardi, i Leoni; quelli che ci sostituiranno saranno gli sciacalletti, le iene; e tutti quanti, gattopardi, sciacalli e pecore continueremo a crederci il sale della terra» (p. 219).