Oggi è il 10 agosto, San Lorenzo.
Ovviamente vengono anzitutto in mente i versi di Pascoli: “San Lorenzo, io lo so perché tanto / di stelle per l’aria tranquilla / arde e cade, perché sì gran pianto / nel concavo cielo sfavilla”…
Ma c’è troppo dolore in quei versi, che rievocano l’assassinio del padre del poeta, un dolore che da personale si fa universale, cosmico (“E tu, Cielo, dall’alto dei mondi / sereni, infinito, immortale, / oh! D’un pianto di stelle lo inondi / quest’atomo opaco del Male!”).
Meglio pensare a un Lorenzo meno tragico, più simpatico, più caro e noto a tutti noi.
Io non so quanti, per colpa di cattivi insegnanti, di cattiva scuola, di cattivo approccio, non hanno amato e non amano i “Promessi Sposi”; per me resta un libro magico, unico, straordinario, nel quale ogni riga di testo apre mondi, suggerisce riflessioni, intriga, diverte, commuove, appassiona.
Ricordo che i miei alunni si divertivano un mondo quando li chiamavo a “sceneggiare” questo capolavoro: e si trasformavano miracolosamente in Renzo, in Lucia, in don Abbondio, nei bravi, nella Monaca di Monza, imparando di più e “calandosi” di fatto in quel romanzo, la cui unica sfortuna è, secondo me, quella di essere studiato (spesso male) a scuola.
Vediamo dunque di seguire “Lorenzo o, come dicevan tutti, Renzo” in quella sua uscita di casa la mattina dell’8 novembre 1628, nel giorno che sarebbe stato – per quello che ne sapeva lui – quello delle sue nozze con Lucia Mondella.
Renzo avrà dovuto sicuramente frenare la sua irruenza, si sarà svegliato all’alba, con la smania di correre dal curato; e chissà se quella notte avrà dormito… Ma, “appena gli parve ora di poter, senza indiscrezione, presentarsi al curato, v’andò, con la lieta furia d’un uomo di vent’anni, che deve in quel giorno sposare quella che ama”.
Ecco già, in poche righe, tre caratteristiche fondamentali del personaggio: è un ragazzo discreto ed educato (si pone il problema di non “disturbare” il curato prima dell’ora prevista), con la sua “lieta furia” giovanile (furia di fare, di vivere, di essere felice), profondamente innamorato della sua ragazza (“deve in quel giorno sposare quella che ama”: detto chiaro e tondo, senza giri di parole, senza censure; e poi c’è chi dice che Manzoni è incapace di parlare d’amore…).
Il protagonista si merita un flash-back, sicché l’autore ci informa su quella che era stata la sua vita fino a quel giorno.
Renzo aveva perso i genitori da ragazzo (“era, fin dall’adolescenza, rimasto privo de’ parenti”); il che sicuramente ha significato per lui dover lottare fin da piccolo, doversi rimboccare le maniche, dover “diventare grande” in fretta, doversi abituare al dolore e alla fatica.
Esercitava “la professione di filatore di seta, ereditaria, per dir così, nella sua famiglia”: ha dunque seguito le orme del padre perduto così presto, senza lamentarsi e senza avere grilli per la testa; e anche se questa professione, in passato “assai lucrosa”, era già in decadenza, c’era comunque “di che vivere onestamente” esercitandola.
Ma non è tutto: per arrotondare i guadagni, “possedeva Renzo un poderetto che faceva lavorare e lavorava egli stesso, quando il filatoio stava fermo”; dunque, quando il giovane era “in ferie”, si teneva comunque occupato, lavorando nel suo “poderetto”.
Fra parentesi, questa “vigna” sarà mirabilmente descritta nel cap. XXXIII, nel momento del ritorno di Renzo al suo paese nel periodo della pestilenza, e apparirà allora in penoso stato di abbandono (“Viti, gelsi, frutti d’ogni sorte, tutto era stato strappato alla peggio, o tagliato al piede. Si vedevano però ancora i vestigi dell’antica coltura”) in un passo splendidamente metaforico sul quale sono inciampati molti lettori superficiali…
La descrizione di Renzo coincide con quella dei tempi difficili in cui vive, aggravati da un’annata “ancor più scarsa delle antecedenti”, che già preludeva alla vera e propria carestia.
Eppure Renzo, “da quando aveva messi gli occhi addosso a Lucia, era divenuto massaio, si trovava provvisto bastantemente, e non aveva a contrastar con la fame”. Il ragazzo “massaio” è diventato ancor più oculato, ancor più laborioso, ancor più motivato, nel momento in cui sta per sposarsi e per formarsi una famiglia; è dunque in condizione di affrontare il grande passo senza paure, gioioso e fiducioso nel futuro.
La camminata di Renzo ce la dobbiamo immaginare noi (per me la cosa che trasforma un libro in un capolavoro è questa: la capacità di “farci entrare” dentro i personaggi, di “vivere” in loro e con loro, di “accompagnarli” nelle loro azioni e di “immaginarcene” altre; se dopo dieci pagine di lettura non riuscite a immedesimarvi in niente e in nessuno, buttate via il libro che leggete e prendetene un altro). Renzo dunque esce di casa, respira l’aria già pungente della mattinata novembrina, si dirige a grandi passi verso l’abitazione del curato. Ogni tanto sorride, si guarda intorno, forse sbircia verso la casetta di Lucia e Agnese, pensa a come si svolgerà quella giornata che immagina come la più felice della sua vita.
La quiete prima della tempesta! Le peripezie ci piombano addosso quando meno ce le aspettiamo, la nostra routine rassicurante giace sotto la minaccia costante dell’imprevisto, i nostri miseri progetti possono essere vanificati in un attimo.
Ma Renzo, ancora ignaro di tutto ciò, “comparve davanti a don Abbondio, in gran gala, con penne di vario colore al cappello, col suo pugnale del manico bello, nel taschino de’ calzoni, con una cert’aria di festa e nello stesso tempo di braverìa, comune allora anche agli uomini più quieti”.
Rileggiamolo, questo bellissimo breve periodo.
Renzo “comparve” in casa del curato, che – come sappiamo – ha passato una notte insonne (“Si racconta che il principe di Condè dormì profondamente la notte avanti la giornata di Rocroi… Don Abbondio invece non sapeva altro ancora se non che l’indomani sarebbe giorno di battaglia; quindi una gran parte della notte fu spesa in consulte angosciose”); la “comparsa” di Renzo, per quanto attesa, è per lui particolarmente fastidiosa e spiacevole.
E dire che il ragazzo è “in gran gala”, ha messo “penne di vario colore” sul cappello e, uscendo di casa, ha preso il “pugnale del manico bello”.
Attenzione, non “un pugnale dal bel manico” (che sarebbe epiteto stupido e banale), ma – fra diversi pugnali disponibili nel piccolo arsenale casalingo allora di prammatica – ha scelto “quello dal manico bello”: non un pugnale qualunque dunque, ma un pugnale speciale per un giorno speciale, scelto accuratamente, selezionato con attenzione. Dopo di che, Renzo lo ha riposto “nel taschino de’ calzoni”, con una cura maggiore del solito.
Entrando in casa del curato, Renzo dimostra “una cert’aria di festa” (che doveva infastidire non poco in quel momento il pavido prete) e “nello stesso tempo di braverìa” (sicuramente preoccupante per don Abbondio). Questa “braverìa”, aggiunge Manzoni, era “comune allora anche agli uomini più quieti”: i tempi duri ci rendono duri, le difficoltà ci inaspriscono, la violenza che ci circonda ci induce a rispondere con reazioni dello stesso segno.
Tuttavia la “braverìa” di Renzo è tutta in quella baldanza esultante, in quella “lieta furia” da ragazzo (ancora per pochi istanti) felice.
Ben presto “l’accoglimento incerto e misterioso di don Abbondio” contrasterà in modo singolare con i “modi gioviali e risoluti del giovinotto”; ma noi non seguiremo Renzo in questa scena penosa per lui. Preferiamo lasciarlo così, sorridente, baldanzoso, felice, innamorato: e con quel “pugnale del manico bello” in tasca.
E già che ci siamo, visto che certi personaggi sono “vivi” sempre e per sempre, facciamo a Lorenzo, o come dicevan tutti, Renzo, i più cari auguri di buon onomastico.
Hai fatto bene, Mario, a puntare l’attenzione sul personaggio di Renzo, un personaggio forse meno caro ai ragazzi di altri dei “Promessi Sposi”, ma che meriterebbe maggiore considerazione dato che nei suoi rapporti col prossimo (si tratti di singoli o di folla) mostra una grande ricchezza di note psicologiche, di sfumature e di contrasti, che non appaiono, almeno così a me sembra, in nessun’altra creatura del romanzo manzoniano.