Altri quattro vocaboli siculo-italiani

Continuiamo la rassegna di vocaboli ed espressioni del dialetto siciliano che vengono compresi e utilizzati anche nell’italiano regionale dell’isola e quindi nella conversazione quotidiana. Eccone altri quattro.

1) “Apprecarsi” – Indica la tendenza a fissarsi ostinatamente su qualcosa. «A tutto ti apprechi!» sbotterà qualcuno quando vedrà che siete troppo pedanti e insistenti su dettagli che forse non meriterebbero una tale attenzione maniacale. Viceversa, può capitare di sentire qualcuno che dice: “A questo non mi ci appreco”, per dire – eufemisticamente – che se ne infischia altamente di quella cosa e che preferisce non complicarsi la vita.

La forma dialettale del verbo (“appricàrisi”) non compare né nel vocabolario di Mortillaro né nel Traina, ma compare sul vocabolario “Sicilian language” (www.dieli.net), dove è spiegato con “volger l’attenzione” (in inglese “turn attention to”); in realtà però, come si è detto, si tratta di un’attenzione esagerata, che diventa una tendenza alla pignoleria patologica.

2) “Arricrearsi” – Quando qualcuno, esultante, proclama “mi sono arricreato”, vuol dire che “si è ricreato”, che ha avuto una soddisfazione o una gioia particolare che lo ha portato al settimo cielo; lo si può dire dopo un pasto particolarmente gustoso, dopo una giornata rilassante, dopo un meritato ristoro dalle fatiche, dopo un’esperienza galvanizzante.

Per Mortillaro (che al solito si esprime nel suo italiano personalissimo e con idee altrettanto personali sulla punteggiatura) “arricriari” significa “dare, prendere alleggiamento [sic!], conforto, e ristoro alle fatiche durate, agli stenti, o alle pene patite”.

Andrea Camilleri usa spesso questo verbo per descrivere le piacevoli sensazioni provate in certe occasioni (in genere gastronomiche) dal commissario Montalbano; ad es. nel romanzo “La danza del gabbiano”, si legge: «Zito gli aviva mittuto sutta al naso il coperchio di un thermos chino di cafè bollente. Il commissario s’arricriò» (ed. Sellerio 2009, p. 58).

Mio cugino Pietro Maggiore, bravissimo poeta dialettale bagherese, non smise mai di vedere con distacco ironico la sua produzione, tanto da realizzare, una volta, un lapidario componimento in cui volle scherzosamente “superare” l’Ungaretti di “Mi illumino d’immenso”; lo intitolò infatti “Come Ungaretti (ma più breve)” e lo fece consistere in un’unica, icastica e fulminante espressione: «M’arricriàvu».

Eccone una copia autografa:

3) “Lasciare in tredici” – Indica la tendenza ad abbandonare qualcuno o qualcosa sul più bello, lasciandolo “in asso”. Il vocabolario Treccani spiega che questa locuzione (in siciliano “lassàri in trìdici”) dipende dal fatto che “il numero tredici è, secondo tradizione, carico di attribuzioni simboliche negative”; c’è però chi ritiene che l’espressione derivi dall’Ultima Cena, durante la quale Gesù mangiò con i 12 apostoli (quindi erano in 13) e fu poi tradito da Giuda; si pensa perciò che porti male rimanere in tredici a tavola.

Inutile dire, ovviamente, che essere “lasciato in tredici” è cosa sgradevole e fastidiosa: ci si sente “traditi” e si subisce inevitabilmente un disagio; ci “lascia in tredici”, ad es., una persona che ci dà buca a un appuntamento, oppure qualcuno che ci aveva promesso il suo aiuto e il suo interessamento salvo poi dimenticarsi del tutto di noi.

Anche in questo caso, immancabilmente, si potrebbe fare più di una citazione tratta dai romanzi di Camilleri; basterà questa, tratta da “La pista di sabbia”: «“Se non ha altro da dirmi” fici Fazio susènnosi “io torno a parlari con una vicina di casa della moglie di Gurreri. […] Aviva accomenzato a dìrimi quàlichi cosa, ma mi ha telefonato lei e ho dovuto lassarla ‘n tridici”» (ed. Sellerio 2007, p. 170).

4) “Spillongo” – In dialetto si trova anche nella forma “spirlongu” e indica un “piatto molto grande e fondo, sempre bislungo” (Traina), alias un “piatto di figura ovale, piuttosto grandotto” (Mortillaro).

Al ristorante in uno “spillongo” si possono mettere diverse porzioni di pasta che poi vanno ripartite fra i commensali; per me, l’arrivo di questo vassoio lungo risulta sempre alquanto spiacevole: infatti un simile “spillongo”, destinato ad es. a 5-6 persone, non corrisponde mai a 5-6 porzioni effettive, ma risulta spesso inferiore alle aspettative (cosa che, suppongo, conviene molto ai ristoratori); ciò è tanto più vero quando qualche commensale si avventa immediatamente come un falco sullo “spillongo” servendosi largamente e lasciando gli altri in attesa (sempre meno fiduciosa) di poter avere la loro razione… Vero è che a volte il cameriere passa, su richiesta o sua sponte, per rifornire lo “spillongo” saccheggiato, però per me resta impagabile la possibilità di avere invece una propria porzione personale, unica, non spillongata e non condivisa.

Di Mario Pintacuda

Nato a Genova il 2 marzo 1954. Ha frequentato il Liceo classico "Andrea D'Oria" e si è laureato in Lettere classiche con 110/110 e lode all'Università di Genova. Ha insegnato nei Licei dal 1979 al 2019. Ha pubblicato numerosi testi scolastici, adottati in tutto il territorio nazionale; svolge attività critica e saggistica. E' sposato con Silvana Ponte e ha un figlio, Andrea, nato a Palermo nel 2005.

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