“Quelli del loggione”: un articolo di Salvatore Pintacuda

Su “La domenica del Giornale di Sicilia” del 7 ottobre 1945, mio padre, che fu critico musicale del quotidiano palermitano per diversi anni, scrisse un articolo che aveva per protagonisti gli spettatori del “loggione”, cioè – nel teatro lirico – quelli seduti nella zona più alta e più sacrificata dal punto di vista visivo.

Questa parte di pubblico, costituita da persone meno facoltose e “chic”, ma non per questo meno appassionate di musica, viene descritta con simpatia, facendo emergere il suo “schietto entusiasmo” per il teatro lirico.

In quello spazio sopraelevato, “nelle buie e scomode gallerie”, si respira un’aria di famiglia, “senza soggezioni e senza timidezze, senza etichette e convenevoli”; c’è chi fa “una frugale merenda”, perché molti hanno saltato la cena “per fare la fila”, e c’è chi divide fraternamente il libretto dell’opera fra “cinque, sei, dieci persone” (mentre il “fortunato proprietario”, “che lo ha già leggiucchiato in tranvai, in ufficio, a tavola tra un boccone e l’altro”, fa dotti commenti sulla vicenda).

Finalmente inizia la rappresentazione della “Lucia di Lammermoor” di Gaetano Donizetti e “il chiasso, il cicaleccio, il mormorio lasciano il posto al puro godimento della musica”.

Ma è meglio leggere senz’altro il testo dell’articolo, che evidenzia attenzione e affetto per quel pubblico che a torto si definirebbe “di serie B”: anzi, come conclude mio padre, “il pubblico del loggione ha la grande virtù dell’entusiasmo sincero. Egli soltanto, con chiaro intuito, sa capire la nobile fatica dell’artista, lo guarda anzi da lavoratore a lavoratore, ed è perciò che i suoi applausi sono spontanei, genuini, veramente sentiti”.

QUELLI DEL LOGGIONE

Le porte del teatro si aprono alle ore 20 precise, ma poiché lassù nel loggione non vi sono posti numerati né poltrone riservate già parecchie ore prima si formano dinanzi agli ingressi lunghissime code di spettatori in paziente e disciplinata attesa.

Quando finalmente il sacro tempio dell’arte spalanca i suoi battenti tutti si precipitano con impeto selvaggio, per le ripide e tortuose rampe. Ai primi contrasti, alle prime lotte per il posto migliore, subentra tosto una placida serenità, una calma festosa, uno schietto entusiasmo. È proprio vero che le grandi altezze elevano anche spiritualmente! Lassù in alto, nelle buie e scomode gallerie, tra un pubblico relegato lontano, molto lontano dal palcoscenico, e dal mistico golfo dell’orchestra, spira sempre una deliziosa aria di famiglia, un’aria di giocondità, di festa, di serena letizia. In loggione si è tutti in famiglia, senza soggezioni e senza timidezze, senza etichette e convenevoli.

Nessuno si stupisce se qualche spettatore, che ha saltato la cena per fare la fila, scartoccia furtivamente una frugale merenda, e si rifocilla placidamente in teatro. Nessuno sembra curarsi dell’altro pubblico, quello elegante, pomposo, austero, rigido, che sfoggia con sussiego, in sala e nel ridotto, tra lumiere, drappi ed arazzi, le toilettes più eleganti e le gemme più preziose.

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Qualcuno, ottimista e persuasivo, asserisce, non si sa bene in base a quali leggi fisico-acustiche, che dal loggione tutto si sente meglio, anche il lieve pizzicato dei violini, anche il sommesso, fluttuante mormorio delle angeliche arpe.

Un solo libretto serve per cinque, sei, dieci persone ed è commentato ad alta voce negli intervalli dal legittimo, fortunato proprietario che lo ha già leggiucchiato in tranvai, in ufficio, a tavola tra un boccone e l’altro. L’atavico odio di Lord Enrico Asthon per Sir Edgardo di Davenswood viene descritto con foschi toni e vigorosi accenti ed ognuno cerca di raccapezzarsi in quella difficile e complicata trama melodrammatica intessuta di passioni cruente, di rancori, vendette e tristi amori.

Finalmente la recita ha inizio e il chiasso, il cicaleccio, il mormorio lasciano il posto al puro godimento della musica. Ogni spettatore, con lo sguardo fisso sulla scena, mezzo assorto e mezzo rapito, non pensa ad altro, non brama altro; l’azione lo avvince, lo esalta, lo commuove, lo affascina. Crede all’amore, al dolore, all’odio dei personaggi; ritrova nello squillo del tenore, nei gorgheggi del soprano, nelle tonanti invettive del baritono l’eco delle proprie pene e delle proprie gioie, ed è fatalmente trascinato da quel fiume di melodie nel mare immenso della commozione e dell’estasi.

Il loggione è tutto un dondolio di teste. Si odono zufolamenti, note in falsetto, vocalizzi in sordina. Ogni viso è trasfigurato da un atteggiamento di intima beatitudine. Spuntano lucciconi, la gola è stretta dalla emozione e dall’ansia spasmodica.

Eccoci al grande, tempestoso concertato dell’atto secondo. Quelli del loggione, che vedono bene soltanto la buca del suggeritore, intuiscono dall’atteggiamento sgomentato del coro l’arrivo fulmineo di Edgardo dalla porta di fondo: «Qual fragore! Chi giunge? Edgardo! Edgardo! Oh fulmine! Oh terror! ».

Tenore, baritono, prima donna, basso, comprimari, coristi sono tutti sulla ribalta e gridano, imprecano, supplicano, atterriti, commossi, incolleriti, fra un indescrivibile scompiglio.

Il direttore d’orchestra picchia furioso con la bacchetta, fulmina tutti con lo sguardo e suda sette camicie per condurre la nave barcollante verso il porto sicuro della corona finale.

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Allora, all’entusiasmo vibrante sulla scena in poderosi accordi di voce di suoni, segue quello del pubblico scoppiante e scrosciante in reiterati applausi. Sono momenti di delirio; la gioia e l’emozione, contenute e represse a pena, esplodono ora tumultuose e veementi con impressionante fervore.

Il pubblico del loggione ha la grande virtù dell’entusiasmo sincero. Egli soltanto, con chiaro intuito, sa capire la nobile fatica dell’artista, lo guarda anzi da lavoratore a lavoratore, ed è perciò che i suoi applausi sono spontanei, genuini, veramente sentiti. Egli sa anche infischiarsi dei commenti e della musoneria ostile dell’altro pubblico, quello privilegiato che può vedere e sentire a suo agio e che mormora infastidito da tanto fracasso: – Eh, si sa! A far cagnara son sempre quelli del loggione!…

SALVATORE PINTACUDA

1948 – Mio padre (al centro della foto, in piedi con gli occhiali) a uno spettacolo teatrale.

Di Mario Pintacuda

Nato a Genova il 2 marzo 1954. Ha frequentato il Liceo classico "Andrea D'Oria" e si è laureato in Lettere classiche con 110/110 e lode all'Università di Genova. Ha insegnato nei Licei dal 1979 al 2019. Ha pubblicato numerosi testi scolastici, adottati in tutto il territorio nazionale; svolge attività critica e saggistica. E' sposato con Silvana Ponte e ha un figlio, Andrea, nato a Palermo nel 2005.

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