La donna-ragno: il mito di Aracne

Bravissima e abilissima lo era di certo; la più brava e abile di tutte.

Nessuna donna sapeva tessere la tela come lei.

E dire che era appena una ragazzina, un’adolescente.

Certo, era avvantaggiata dalla sua situazione familiare: suo padre, Idmone di Colofone, era un apprezzato tintore, che tingeva la lana impregnandola con la porpora. Lei però, dopo la prematura morte di sua madre, aveva acquistato un’abilità straordinaria nella tessitura della lana; e, benché le sue origini fossero umili e benché vivesse nella piccola Ipepe (una cittadina della Lidia, in Asia Minore), aveva ottenuto una splendida fama in tutta la regione.

Il suo nome era Aracne e la sua storia ci è raccontata dal poeta latino Ovidio nel suo poema “Metamorfosi”.

Per ammirare le splendide tessiture di Aracne, venivano a Ipepe perfino le ninfe del vicino monte Tmolo e quelle del fiume Pattolo; inoltre «la gente non godeva solo nel contemplare i prodotti finiti, ma anche nell’osservarne la lavorazione, tanto era perfetta» (“Metamorfosi” VI 17-18; uso qui la traduzione di Giovanna Faranda Villa).

“Aracne mentre tesse”, miniatura di Robinet Testard. Manoscritto del “De mulieribus claris” di Boccaccio. 1488-1496 circa. Bibliothèque nationale de France.

Di fronte a tanta perfezione, molti ritenevano che la ragazza avesse appreso la sua arte dalla dea Atena. Ma lei (che aveva un bel caratterino orgoglioso e petulante) negava categoricamente e anzi arrivava a sfidare la dea: «Venga a misurarsi con me! […] Se sarò vinta farò quel che lei vorrà» (v. 25). Non è cosa prudente e saggia sfidare gli dèi. Ma l’irruenza della gioventù induce spesso ad azioni impulsive e audaci.

Atena, appresa la provocazione di Aracne, assume le sembianze di una vecchietta: «si circonda il capo di falsi capelli bianchi e si munisce anche di un bastone per sorreggere il debole corpo» (vv. 26-27). Si presenta quindi alla fanciulla, cercando di indurla a più miti consigli: «L’età senile non ha solo inconvenienti: dall’aver molto vissuto ci proviene l’esperienza. Ascolta il mio consiglio. Cerca pure di conquistarti il primato tra i mortali nel lavorare la lana, ma arrenditi davanti alla dea e supplicala di perdonare le tue temerarie parole. Se lo farai, lei ti perdonerà» (vv. 28-33).

La dea non si oppone al primato di Aracne “tra i mortali”; accetta che lei superi in bravura tutte le donne del mondo; ma la invita ad arrendersi agli dèi e a evitare altre “temerarie parole”.

Credete che Aracne accetti il consiglio e si inchini al volere della dea?

Nemmeno per sogno; la sua reazione è aspra e violenta: «La ragazza la guarda con occhi torvi e, lasciato a metà il lavoro, a stento si trattiene dallo schiaffeggiarla» (vv. 34-35).

Non basta: insulta la vecchia, trattata come una “deficiente, sfinita dagli anni”, la invita a rivolgere i suoi consigli a sua nuora o a sua figlia e riconferma la sua sfida ad Atena: «Quanto alla dea, perché non si presenta di persona? Perché evita il confronto?» (v. 42).

A questo punto Atena rivela il suo aspetto reale; alla sua vista, tutte le donne presenti si inchinano davanti a lei; la sola Aracne resta impassibile (o quasi): «Aracne sola non batte ciglio. Tuttavia arrossisce di un improvviso rossore che le colora il viso suo malgrado, per subito scomparire, come accade all’aria che si tinge di rosa al sorgere dell’aurora e poco dopo schiarisce col levarsi del sole» (vv. 45-49). Forse l’indomita ragazza comincia a subodorare di averla fatta grossa, ma il suo puntiglio la induce a non desistere dal suo proposito; sicché, come preannuncia il poeta, «per la brama di una stolta vittoria si precipita incontro alla sua rovina» (vv. 50-51).

La gara di tessitura ha inizio; Ovidio ne fa una sorta di minuziosa “telecronaca”: «Subito ambedue si appartano e apprestano le tele, ordendo fili sottili. Ogni tela è fissata al subbio, le canne del pettine tengono separati i fili dell’ordito, la trama viene inserita tra questi dalla spola appuntita che le dita manovrano abilmente e resa compatta dai colpi dei denti intagliati nel pettine. Tutte e due si danno da fare e si raccolgono le vesti sul petto, liberando le abili braccia che muovono con un impegno che non fa sentire la fatica. In quelle tele si tesse lana color porpora che fu tinta in recipienti di bronzo di Tiro e lana d’altri colori meno brillanti, che sfumano insensibilmente l’uno nell’altro come avviene nell’arcobaleno» (vv. 53-64).

La tessitura include l’aggiunta di “fili di duttile oro” (v. 68), con cui su ogni tela vengono descritti alcuni episodi: la dea Pallade allora raffigura un evento autobiografico, cioè la riunione avvenuta nel colle ateniese sacro ad Ares (l’Areopago), nel corso della quale lei rivendicò con successo il suo patrocinio su Atene; in particolare, «si vede la scena della terra che, percossa dalla sua lancia, fa spuntare un argenteo ulivo coperto di frutti, in mezzo all’ammirazione degli dei» (vv. 80-282). Atena ostenta la sua potenza e la sua influenza; per intimidire ulteriormente la sua rivale, decora gli angoli della tela con alcuni esempi di donne che, avendo osato sfidare gli dèi, avevano ricevuto una terribile punizione per la loro superbia (la “hybris” dei greci).

Aracne intanto continua imperterrita il suo lavoro: rappresenta nella sua tela il mito di Europa, ingannata da Zeus che ha assunto le sembianze di un toro per sedurla; aggiunge poi altre scene mitiche che sottolineano la falsità e l’astuzia ingannevole degli dèi (Giove, Nettuno, Apollo, Bacco), abituati a possedere fanciulle indifese sfruttando i loro poteri sovrannaturali. 

La realizzazione della fanciulla è perfetta e inappuntabile; ma Atena non accetta la sconfitta (e figurarsi se una dea può accettare di essere vinta da una comune mortale) e reagisce violentemente: «Ma la bionda dea della guerra si infuria per il successo della rivale e straccia la tela intessuta con le storie che illustrano le colpe degli dei; poi, dato che si ritrova in mano la spola di legno del Citoro, colpisce con quella tre o quattro volte la fronte di Aracne, figlia di Idmone» (vv. 130-133).

Percossa e umiliata, Aracne non sopporta l’affronto: «e con risoluzione corre a impiccarsi» (vv. 134-135). Atena allora “prova compassione” per la ragazza che penzola dal cappio e la solleva (v. 135); ma la sua “misericordia” nasconde in realtà il desiderio di una più subdola e perenne vendetta: «Vivi pure, ma continua a restare sospesa, scellerata! E perché tu non speri in un futuro esonero dalla pena, sappi che essa persisterà come una legge nei confronti della tua stirpe e dei più lontani discendenti!» (vv. 136-138).

Atena quindi trasforma Aracne in un ragno: «Dopo questa sentenza, all’atto di andarsene, cosparge la donna con succhi spremuti da un’erba infernale. Subito, al contatto del veleno, all’infelice cadòno tutti i capelli e contemporaneamente le si rimpiccioliscono il naso, le orecchie e la testa: anche tutto il resto del corpo si riduce. Questo corpo reca attaccate ai lati dita sottilissime con funzione di gambe e tutto il resto è ventre, da cui ella emette un filo: così continua come ragno a tessere tele come prima» (vv. 139-145).

Il mito narrato da Ovidio è del tutto assente nel mondo greco, sia nelle opere letterarie sia nella storia dell’arte; di esso sembra avere notizia anche Virgilio (“inviso a Minerva, / il ragno sospende le flessibili reti sulle porte”, Georgiche IV 246-247, trad. Canali), ma l’impressione è che la fonte della vicenda (che ha i connotati di una fiaba) sia orientale e che provenga proprio dalla Lidia. Vero è peraltro che in lingua greca il “ragno” si chiama, al femminile, “aràchnē” (ἀράχνη).

Il tema della tessitura è fondamentale nella cultura greca antica. Le donne, condannate a vivere recluse nel gineceo, non possono far altro che tessere per i mariti, per i figli e per se stesse.

Persino la grande colpevole, la bellissima Elena, colei che fuggendo col suo amante Paride ha provocato la guerra di Troia, appare per la prima volta nell’Iliade intenta alla tessitura, nella reggia del suo nuovo suocero Priamo: “quella tesseva un gran manto/ doppio, tinto di porpora, e molte avventure ci ricamava / che i Troiani, provetti cavalieri, e gli Achei vestiti di bronzo / affrontarono a causa di lei sotto i colpi di Ares” (Il. III 125-128, trad. Cerri). Elena, turbata e lacerata da sottili inquietudini, rimorsi e passioni, qui “narra se stessa”, un po’ come farà Odisseo alla reggia dei Feaci; ma alla dimensione pubblica, “aedica”, dell’eroe di Itaca si contrappone la narrazione di Elena, isolata, “autoreferenziale” e tipicamente femminile.

Ma la grande tessitrice nel mito è, inutile dirlo, Penelope, che di giorno tesse la tela e di notte la disfa per ritardare le nozze con uno dei suoi pretendenti; grande tessitrice è anche Arianna, che tesse il filo per condurre Teseo fuori dal Labirinto; micidiali tessitrici sono poi le tre Moire, che tessono e tagliano il filo corrispondente alla vita di ogni essere umano.

Quanto al ragno, esso era già stato associato alla tessitura dal filosofo Democrito di Abdera (V-IV sec. a.C.), secondo il quale proprio questo insetto aveva trasmesso la sua arte agli uomini: «Noi siamo stati discepoli delle bestie nelle arti più importanti: del ragno nel tessere e nel rammendare, della rondine nel costruire le case, degli uccelli canterini, del cigno e dell’usignolo nel canto, con l’imitazione».

Ovidio, però, è un poeta complesso, che aggiunge significati profondi alle vicende che narra, rielabora e rivive. Anzitutto, il mito di Aracne può essere letto, secondo la mentalità religiosa tradizionale, come una condanna dell’empia superbia della fanciulla, che osa sfidare una dea e inevitabilmente ne viene punita; però il poeta di Sulmona tende sempre a “parteggiare” per gli esseri umani: e anche se di Aracne non sono taciuti i difetti (l’impulsività, l’arroganza giovanile, la testardaggine), sembra di poter leggere fra le righe un messaggio ben diverso: una donna viene elogiata solo quando resta umilmente nello spazio a lei assegnato, ma se osa uscirne e tenta di affermare se stessa, deve essere stroncata e intimidita. Aracne è una sorta di contestatrice “ante litteram”, che non accetta imposizioni ingiuste; e anche se paga per la sua ribellione, fornisce un esempio di coraggio che Ovidio, quasi sicuramente, non condanna e anzi ammira.

Ma c’è un’altra lettura possibile, più sottile: l’intero mito potrebbe costituire un velato riferimento alla censura imposta ai poeti dell’epoca augustea; la “tessitura” dei versi non può essere completata impunemente e anche i più bei poemi devono attendere l’imprimatur da parte degli “dèi”; ed Augusto, il “divus Augustus”, non era ormai, a tutti gli effetti, un dio? Della terribile possibilità di andare incontro a censure e punizioni dovette accorgersi pochi anni dopo lo stesso Ovidio che, per colpa di un suo “carmen” (forse lo scandaloso poemetto “Ars amatoria”) e di un “error” (non meglio precisato), fu relegato dall’imperatore nella lontana Tomi sul Mar Nero (attuale Romania), ove finì i suoi giorni.

La grande fortuna di Ovidio nel Medioevo favorì la rilettura della sua opera in chiave moralistica ed allegorica. In genere, Aracne nell’ultimo Medioevo diventa l’emblema di chi non vuole lodare Dio e si comporta in modo sfacciato ed arrogante: Dante ne fa cenno nel Purgatorio, incontrandola tra i superbi: «O folle Aragne, sì vedea io te / già mezza ragna, trista in su li stracci / de l’opera che mal per te si fé» (XII canto, vv. 43-45); qui la figura della giovane tessitrice lidia è colta nel momento della trasformazione (“già mezza ragna”), fra i brandelli della tela stracciata da Atena.

La superba fanciulla è ricordata anche nel “De mulieribus claris” (1362) di Boccaccio, che ne rimprovera la “somma stoltizia”.

Un’interpretazione positiva del personaggio proviene invece da, Christine de Pizan, nata Cristina da Pizzano (1364-1430 circa), una scrittrice e poetessa francese di origine italiana, attiva alla corte dei re di Francia e considerata come la prima scrittrice di professione in Europa; costei elogia Aracne, definendola «meravigliosamente intelligente e abile» e ne esalta i meriti.

Saltando le tante altre riscritture della vicenda, vorrei ricordare qui un passo de “La pazienza del ragno” di Camilleri, nel quale una ragnatela viene definita “una costruzione geometrica sbalorditiva”, con metafora riferita al delitto su cui sta indagando Montalbano; a un certo punto il commissario, all’interno della ragnatela, in cui ha scagliato una mollica di pane, scorge il ragno: «con una lintizza da incubo, come in una interminabile dissolvenza-assolvenza cinematografica, la tistuzza del ragno principiò a cangiare colore e forma, dal grigio passando al rosa, il pelo mutandosi in capelli, l’occhi da otto assommandosi a due, fino a rappresentare una minuscola faccia umana che sorrideva soddisfatta del bottino che teneva stritto tra le zampe. Montalbano atterrì. […] E tutto ‘nzemmula gli tornò a mente un passo d’Ovidio studiato a scola, quello della tessitrice Aracne cangiata in ragno da Atena» (“La pazienza del ragno”, ed. Sellerio, 2004, p. 223). Qui Camilleri ripercorre al contrario la metamorfosi ovidiana: il ragno ridiventa umano, la trama delittuosa diventa chiara agli occhi del commissario.

A me questa scena ricorda il terribile finale del film “L’esperimento del dottor K” (“The fly”) di Kurt Neumann, tratto nel 1958 dal racconto “La mosca” di George Langelaan; il film racconta l’orrenda metamorfosi del protagonista, André Delambre, che (a causa di un esperimento fallito) si trasforma in una mosca: al termine del film, il fratello di André (interpretato da Vincent Price) trova nel giardino di casa una bizzarra mosca dalla testa bianca, che con flebile voce invoca aiuto: guardandola con una lente di ingrandimento, riconosce con orrore in essa il volto dello sventurato fratello.

Questo finale, senza far ricorso alle orrende metamorfosi mostrate nel celebre remake nel 1986 (“La mosca” di David Cronenberg, con Jeff Goldblum), raggiunge un livello “horror” insuperabile: qui davvero umanità e animalità si fondono orrendamente in un quadro doloroso efficacissimo.

Ed è questo lo spirito antico di Ovidio, che (come ultima tragica immagine di Aracne) ci dà la descrizione della sua nuova forma: “Questo corpo reca attaccate ai lati dita sottilissime con funzione di gambe e tutto il resto è ventre, da cui ella emette un filo: così continua come ragno a tessere tele come prima” (vv. 143-145).

Dunque, quando vedete una ragnatela che pende dal soffitto in una camera polverosa, pensate che è lei, Aracne, intenta alla sua eterna tessitura e ormai mutata in un innocuo insetto. E abbiatene un po’ di rispetto reverenziale.

P.S.: Due ultime annotazioni.

1) Un’altra versione del mito di Aracne, meno conosciuta, aveva per protagonista il fratello della fanciulla, di nome Falance; la si trova nei “Theriakà” (“Rimedi contro i veleni animali”) del poeta ellenistico Nicandro di Colofone (III-II sec. a.C.). Secondo questo autore, i due fratelli (colpevoli di un amore incestuoso) sarebbero stati puniti da Atena, che li trasformò in un ragno e in un serpente, costringendoli a strisciare e a divorare i propri figli.

2) Un bellissimo quadro di Velasquez, conservato al museo del Prado a Madrid, si intitola “La leggenda di Aracne” (noto anche come Las Hilanderas – “Le filatrici”); fu realizzato fra il 1644 e il 1648 e presenta l’antico mito con uno sviluppo complesso e disposto su vari piani (in proposito, cfr. un articolo di Francesca Corno: https://www.tropismi.it/2016/07/19/la-leggenda-di-aracne-dipinta-da-velazquez/).

Di Mario Pintacuda

Nato a Genova il 2 marzo 1954. Ha frequentato il Liceo classico "Andrea D'Oria" e si è laureato in Lettere classiche con 110/110 e lode all'Università di Genova. Ha insegnato nei Licei dal 1979 al 2019. Ha pubblicato numerosi testi scolastici, adottati in tutto il territorio nazionale; svolge attività critica e saggistica. E' sposato con Silvana Ponte e ha un figlio, Andrea, nato a Palermo nel 2005.

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