“Fili della vita”: racconti di Palma Civello

Fili della vita

Nel suo bel libro di racconti, Fili della vita (Il Convivio editore 2020), la mia cara amica Palma Civello (per noi “Mirella”), poetessa, scrittrice, pittrice, docente, fotografa, versatile mente creatrice e immaginifica, raccoglie quattro storie: “Arianna e gli eterni fili della vita”, “Due amici”, “Nulla accade per caso” e “Vu cumprà”. Tutti questi racconti si leggono con vero piacere e, mentre riescono a dilettare, inducono alla riflessione.

Palma Civello

In particolare il primo racconto, “Arianna e gli eterni fili della vita”, colpisce per la forte adesione emotiva dell’autrice, che rievoca qui il terremoto del Belice, che la coinvolse personalmente (sua nonna era di Poggioreale). La catastrofe viene rievocata sia in un capitoletto a parte (“Un passo indietro”) sia dalla struggente poesia che chiude il racconto (“Memorie di un terremoto”).

In questa lirica è lacerante la memoria del cataclisma: «Un forte strappo quella notte / portò al fondo della terra / anime ignare / risucchiate dai boati / e urla di terrore. / E poi i vuoti, le crepe, / le macerie, i crolli / e la paura che inseguiva il freddo / e il freddo che avvolgeva cuori / e i cuori che battevano forte / al ritmo di pianti e di lamenti» (p. 43).

La potenza espressiva di questo incipit è accentuata dalla pregnanza delle scelte lessicali (lo “strappo” alla vita normale e alle consuetudini più care; il “risucchio” che aspira nel nulla; le “urla di terrore” fra le macerie) e dall’inseguirsi incalzante dei vocaboli reiterati (freddo/freddo, cuori/cuori), come a seguire le fasi della ripetuta e devastante scossa sismica.

In questo contesto è ambientato il racconto, di cui è protagonista una donna che va ad abitare in un vecchio casolare, circondata da un alone di mistero: «Nessuno sapeva da dove fosse venuta, nessuno sapeva come riuscisse a vivere in quella catapecchia proprio lì, in quel posto desolato e dimenticato da Dio. Nessuno sapeva perché ci fosse andata” (p. 9). Il casolare si trova nel “paese fantasma”, distrutto dal terremoto e rimasto, come una sorta di novella Pompei, a testimoniare l’accaduto ai posteri con le sue miserie macerie. Un posto sinistro e poco rassicurante.

L’arrivo della misteriosa donna, rilevato dal filo di fumo che esce dalla sua baracca, colpisce gli abitanti del paese (ricostruito ex novo più a valle); due di loro, Gina e Carmelina, vanno dal sindaco per chiedergli un’indagine, temendo cupi scenari soprannaturali. Il sindaco, preso da altri pressanti impegni (“le partite a scopone con il suo vice”), dapprima rimprovera le due donne ma poi, per non perderne i voti alle imminenti elezioni, garantisce il suo interessamento, pur invitandole a non diffondere in paese i loro timori.

Ben presto dunque una “strana carovana”, formata dal sindaco, dai carabinieri e dal parroco, pronto ai dovuti esorcismi («megghiu diri chi sacciu, ca diri chi sapìa», chiosa ironicamente l’autrice), si reca al casolare; qui, dopo un’irruzione da film poliziesco, viene trovata una donna: «Era anziana, con la pelle piena di profonde rughe che disegnavano sul volto una strana ragnatela di segni e di incroci»; i suoi occhi sono «neri come una notte senza luna e stelle, imperscrutabili e profondi» (p. 18) ed ha una catenina al collo, con una piccola medaglia ovale con la sagoma di una Madonnina; i suoi abiti sono neri, compreso uno scialle sulle spalle.

La vecchia non risponde alle incalzanti domande dei suoi visitatori, ma scrive su un foglio poche parole: «Mi chiamo Arianna e sono sordomuta, perciò parlate molto lentamente perché devo leggervi le labbra”; la donna comunica inoltre di essere originaria del paese, di vivere lì da sola senza far male a nessuno e di vivere del proprio lavoro: «Do consigli a chi me li chiede e ognuno è libero di lasciarmi qualcosa per vivere. Io sono vecchia ma so tante cose che nessuno sa».

Gli uomini, comprendendo che Arianna è inoffensiva, tornano in paese. La misteriosa vecchietta inizia a questo punto la sua attività, reclamizzata da un’insegna di cartone che appende sulla porta di casa: “Arianna ascolta, regala consigli, scioglie nodi” (p. 25); insomma, una sorta di “personal trainer” psicologica, di fattucchiera, di guida spirituale.

Si recano da lei prima la stessa Carmelina (alle prese con una tormentata storia d’amore con un uomo del paese vicino), poi Gina (che non riesce ad avere figli), poi la moglie del sindaco (delusa dall’inaridirsi del suo trantran coniugale): in tutti i casi Arianna, dopo aver letto nelle labbra delle donne le loro storie, apre a caso la Bibbia e poi scrive su un foglio i suoi consigli, che si rivelano sempre preziosi ed opportuni; viene poi pagata in natura, con “roba fresca e genuina” che le viene fatta trovare sotto la porta.

Da Arianna va anche il parroco, don Saverio, tormentato da un rimorso (aveva avuto un figlio e non lo aveva mai riconosciuto); questi però fugge via senza attendere risposta, lasciando cadere a terra delle monete; la vecchia le mette da parte “come se fossero contaminati, come se fossero falsi” (p. 35). Il personaggio del sacerdote corrotto, novello Giuda, è il più negativo dell’intero racconto, a testimonianza della profonda fede religiosa dell’autrice, particolarmente severa verso chi viene meno ai suoi doveri sacri.

L’ultima visita ad Arianna è quella dell’anziano Stefano, anche lui con “una pietra sul cuore”: era rimasto vedovo e solo, dopo che i tre figli maschi erano emigrati in Germania; il suo rimorso riguardava una ragazza sordomuta, Anna, che, quando era ragazzo, lo aveva rifiutato ed era stata punita da lui con un atto di brutale violenza.

A questo punto Arianna rivela di essere Anna, che era rimasta incinta dopo la violenza ma aveva perso il bambino; era tornata in paese dopo tanti anni perché doveva ritrovare “il filo conduttore” della sua vita: «Volevo vedere che fine avesse fatto il ragazzo che aveva cambiato la mia vita per sempre» (p. 40). Per molto tempo aveva covato sogni di vendetta: «ho desiderato per tanto tempo la tua morte; poi ho sperato che il rimorso non ti desse tregua. […] Non riuscivo a perdonarti. Ma per ritrovare anch’io la mia pace, dovevo rivederti, almeno una volta». La forte fede e il ricordo del messaggio evangelico (“Perdona loro perché non sanno ciò che fanno”) conduce ora l’anziana a perdonare il suo violentatore. Stefano, leggendo il messaggio, piange e riesce solo a dire un “grazie” che chiude definitivamente quella brutta storia.

L’epilogo è sibillino: Stefano scompare dal paese (si teme che sia scivolato in un dirupo, ma nonostante le ricerche non viene ritrovato); anche Arianna è andata via (con lui o, più probabilmente, da sola). E comunque i paesani non si meravigliano più di tanto: «Arianna era stata per molti un angelo e si sa, gli angeli non possono restare fermi a lungo in un luogo, perché hanno le ali e sono fatti per volare» (p. 41).

Tutte le vicende precedenti (tranne quella del parroco colpevole) si concludono felicemente; quanto ad Arianna, di lei non si sa più nulla. Però, «di lei rimase l’insegnamento che il dolore, quando arriva, va guardato in faccia, va attraversato, per poi ricavarne opportunità di crescita e di cambiamento. In paese, in molti avevano imparato che se la paura si fa gioco di noi, noi dobbiamo farci gioco della paura: alla fine si stancherà e noi saremo capaci di compiere l’inimmaginabile e riannodare i fili della nostra vita».

La poesia conclusiva, di cui abbiamo già citato l’inizio, ribadisce – sia pure nel quadro desolante della catastrofe – la necessità di reagire: «è attonito e smarrito lo sguardo / che attende un’alba ignara / senza più nulla in mano / se non la voglia folle / d’aggrapparsi alla vita» (p. 44).

Semmai, un velo di malinconia resta sulle fatiscenti macerie del sisma, che ancora oggi si ergono miracolosamente e miseramente nella vecchia Poggioreale: «Col tempo poi ci fu il silenzio / su macerie che sempre / si stagliano superbe / e, seppur ferite, / chiedono d’avere un nome, / d’esser memoria per chi non sa / che quei fantasmi erano volti, / erano promesse, / erano storie lasciate in pasto / come vittime sacrificali / ai ghigni d’un Minotauro».

Nella prima edizione della mia storia letteraria greca “Grecità”, scritta con la mia preziosa e insostituibile collaboratrice Michela Venuto, nel III volume volli inserire uno scritto di Palma Civello che riguardava (anche lì) Arianna.

Si trattava di una “Intervista ad Arianna”, nella forma di un monologo in cui il personaggio raccontava la sua storia con Teseo. Il componimento presentava un tono colloquiale e “borghese”, una viva passionalità, un’impietosa autoanalisi da parte della fanciulla. Il mito veniva attualizzato, diventava una vicenda “di sempre”, con il ricordo di una storia tormentata ma non rinnegata del tutto; infatti, la delusione per l’amara conclusione della vicenda (l’abbandono da parte dell’eroe) non cancellava in Arianna il ricordo del grande amore che aveva vissuto con Teseo.

La conclusione era, anche qui, una breve poesia in cui, con assoluta lucidità, Arianna riaffermava la potente legge dell’amore, che – in modo paradossale ed “inspiegabile” – continuava in lei a reclamare i suoi diritti: “L’ho maledetto, Teseo, per l’inganno / e per il gesto vile, / per mille anni ancora oltre i suoi giorni…”.

Il paragone con l’Arianna di “Fili della vita” è inevitabile e illuminante: l’anziana donna sordomuta, vittima dell’egoismo e dell’inganno di un Teseo molto meno eroico, aveva condiviso gli stessi pensieri che esprimeva la fanciulla del mito («Non so per quanto tempo ho gridato oltraggiando quel bastardo che si era preso gioco di me, rubando la mia innocenza e il mio cuore per poi gettarli lì, in un posto sconosciuto, senza pietà; lui, il grande eroe, il grande Teseo: che sia maledetto insieme a tutta la sua stirpe!»). Ma anche lì, quando all’Arianna del mito veniva chiesto se, potendo tornare indietro, avrebbe cambiato qualcosa, la risposta era questa: «L’amore a volte è anche pazzia. E cosa importa sapere se poi ho trovato altri amori con altre storie… fu Teseo il mio primo amore, fu Teseo che per primo s’impossessò del mio cuore e bevve ai miei pensieri e ai miei sospiri. Ecco perché conservo ancora questo filo: per continuare ad amare e odiare il mio primo amore».

Si può supporre che, nel recente racconto, anche Anna, diventata poi (non a caso) Arianna, sia tornata nel luogo del suo primo amore per riannodare il filo che la legava al suo Teseo; ma qui, a differenza del mito greco, l’uomo viene indotto al pentimento e addirittura ringrazia la sua antica vittima: «L’anziano disse solo ‘grazie’ e con quella parola voleva esprimere tutti i sentimenti che gli si agitavano dentro, la riconoscenza verso quella donna a cui aveva fatto solo del male, le scuse tardive per un gesto che non aveva giustificazione, la riconoscenza per il perdono ottenuto che finalmente gli restituiva la serenità mai avuta. E ad Arianna bastò quella sola parola» (p. 40). E se l’Arianna del mito si addormentava a Nasso prima di essere abbandonata, il novello Teseo qui resta a dormire nel vecchio casolare della veggente, cullato dal suo sorriso indulgente.

Così, nella scrittura suadente di Palma Civello, si uniscono mito e storia, passato e presente, memoria e attualità, in un nodo narrativo sapiente che unisce sorprendentemente ed efficacemente i toni lirico-elegiaci a quelli ironici a quelli drammatici.

“Fili della vita” è dunque un libro che può aiutare molti lettori sensibili a “riannodare”, anche loro, i fili della loro esistenza, riscoprendone il valore e il fascino sottile.

Palma Civello, in occasione di una delle tante premiazioni per la sua attività culturale

Di Mario Pintacuda

Nato a Genova il 2 marzo 1954. Ha frequentato il Liceo classico "Andrea D'Oria" e si è laureato in Lettere classiche con 110/110 e lode all'Università di Genova. Ha insegnato nei Licei dal 1979 al 2019. Ha pubblicato numerosi testi scolastici, adottati in tutto il territorio nazionale; svolge attività critica e saggistica. E' sposato con Silvana Ponte e ha un figlio, Andrea, nato a Palermo nel 2005.

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