“La vita musicale a Genova nel tempo di Paganini” di Salvatore Pintacuda

Presento qui una copia inedita della relazione tenuta da mio padre, il M° Salvatore Pintacuda, il 5 marzo 1982 a Genova, nella Sala Quadrivium, in occasione del seminario di studi organizzato dall’Istituto di Studi Paganiniani in occasione del bicentenario della nascita del grande musicista genovese («1782-1982 Incontri con la musica di Paganini», con il patrocinio dell’Assessorato ai Beni Culturali del Comune di Genova).

Lo ritengo un contributo interessante sia per la messe di notizie fornite sull’ambiente musicale genovese al tempo di Paganini, sia per le testimonianze (tratte dalle lettere del violonista) che dimostrano il suo profondo legame con la città natale.

«LA VITA MUSICALE A GENOVA NEL TEMPO DI PAGANINI»

di Salvatore Pintacuda

Questo argomento, riguardante l’ambiente musicale genovese all’epoca di Paganini, è stato da me trattato, anni or sono, in un articolo pubblicato dalla rivista “Genova”, numero speciale paganiniano.

Ampliandone ora lo sviluppo, non posso non confermare molte delle precedenti affermazioni, rafforzandole però con nuovi contributi e con ulteriori considerazioni, emerse da studi più recenti.

Sappiamo che Paganini è il solo artista che abbia dato fama musicale internazionale a Genova. Sappiamo che Paganini e Genova furono sempre legati da un profondo, reciproco affetto, materno da una parte e filiale dall’altra, affetto che mai venne a mancare e mai si affievolì durante la prodigiosa carriera del violinista.

Le polemiche, aspre e amare, sorte dopo la morte del musicista e riaccese in epoche recenti (polemiche riguardanti la sepoltura a Parma, gli autografi dirottati a Roma, la casa natale di Passo di Gatta Mora, sparita negli scavi del piano regolatore, sacrificata al “progresso” urbanistico), hanno minacciato di incrinare la solidità di questo rapporto affettivo, ma gli studi e le ricerche minuziose di due ferventi apostoli paganiniani – Pietro Berri e Zdenek Vyborny -, rivelandoci tutti gli aspetti positivi e negativi, dell’uomo-Paganini, anziché smentire, hanno riconfermato questa corrispondenza di sentimenti affettivi tra Paganini e la sua città.

Soprattutto commovente appare la “genovesità” di Paganini nei periodi in cui la lontananza – dovuta ad impegni artistici, ma anche talvolta allo stato di salute precaria e ad altre tristi circostanze – era più sentita, più cocente, più struggente.

E la “genovesità” di Paganini non si restringeva soltanto al desiderio di “pascersi dell’odore della farinata” (come scriveva all’amico, avvocato Germi) o alla voglia di gustare gli “squisitissimi ravioli magri” della Signora Camilla (collaboratrice domestica e poi sposa del suddetto avvocato) o il buon minestrone “fatto divinamente” dalle mani di sua madre Teresa Bocciardo. Né tale “genovesità” si esauriva nel nostalgico e costante desiderio di ritornare in patria, “nella patria di Colombo”, per ritemprare il corpo e lo spirito al dolce tepore del sole e alla brezza soave del Mar Ligure, ma si estendeva a tutto l’ambiente artistico (non soltanto musicale) che prosperava all’ombra della Lanterna, si concretizzava in contatti frequenti, anche epistolari, con gli amici, i maestri, gli artisti genovesi, ai quali era prodigo di aiuti, di consigli, di ammaestramenti, e dai quali riceveva in contraccambio affettuosità, calore, commoventi attestazioni di riconoscenza.

Vale la pena dunque – limitandoci al solo aspetto musicale – di considerare attentamente questi legami affettivi e soprattutto vagliare, sulla base di quanto oggi conosciamo, l’apporto formativo che l’ambiente musicale genovese poté offrire alla nascente personalità dell’artista.

Cominciamo col constatare che Genova, da parte sua, ricambiò la filiale devozione di Paganini con sentimenti di ammirazioen, di compiacimento e di esultanza che si spinsero sino al fanatismo, all’infatuazione, all’esaltazione: a tal punto da trascurare, dimenticare, avvolgere in una penombra cupa e misteriosa ogni altra gloria musicale ligure. Possiamo dire che fino a una trentina d’anni fa, tutta l’arte musicale di Genova e della Liguria dei secoli passati si compendiava in un nome solo, splendente come meteora: Paganini.

I ricordi del passato, le cronache di tempi lontani, i documenti attestanti probabili attività teatrali, concertistiche, scolastiche, vennero negletti, trascurati, offuscati dalla luce sfolgorante che emanava l’imponente figura del grande violinista.

Molti ricercatori insigni, quali Luigi Tommaso Belgrano, Giuseppe Pessagno, Achille Neri, Arturo Ferretto, Marcello Staglieno, Cornelio Desimoni ed altri che – operando tra gli ultimi decenni dell’Ottocento ed i primi del Novecento – avevano esplorato tutti gli aspetti politici e sociali, non esclusa la storia dell’arte e del costume, avevano inspiegabilmente trascurata l’attività musicale di Genova, certamente anche loro abbagliati dalla splendente luminosità del genio paganiniano. Eppure, l’evidente constatazione che Paganini non fu e non poteva essere un fenomeno isolato, che la sua personalità artistica non poteva sorgere dalle aride sabbie di un deserto culturale, avrebbe dovuto far riflettere gli studiosi di cose patrie che la musica in Liguria doveva certamente possedere una tradizione musicale, strumentale e virtuosistica davvero interessante e degna di essere conosciuta, una tradizione plurisecolare che in definitiva doveva costituire l’humus da cui era germogliato il “fenomeno” Paganini.

E infatti studi recenti, condotti con scrupolosa indagine storica ed adeguato metodo filologico da valenti musicologi quali Mario Pedemonte, Remo Giazotto, Pietro Berri, Edilio Frassoni e, per ultimo, da chi vi parla, hanno messo in completa luce l’importanza della storia musicale genovese dagli anni della fioritura trovadorica fino alla “miracolosa” apparizione di Paganini, con indicazioni quanto mai significative sul grado di sviluppo artistico e culturale, sui gusti, sulle tendenze. sulle preferenze degli appassionati musicofili nostrani. dimostrando soprattutto la continuità della sempre viva predilezione dei genovesi – tanto nelle sfere elevate della popolazione. quanto nei ceti inferiori – per tutte le espressioni musicali considerate come elemento d’arte, di elevazione spirituale, di ricreazione.

E se non fossero sufficienti gli studi storici, una validissima prova di questa secolare attività è costituita dalla ricca raccolta di manoscritti e stampe antiche conservata nella Biblioteca del Conservatorio “Paganini” di cui ho compilato e pubblicato nel 1966 il voluminoso catalogo. L’analisi e lo studio di queste opere e di altre possedute dalla Biblioteca Universitaria. permettono di trarre elementi sicuri per realizzare una ricostruzione storica della vita musicale genovese, con indicazioni precise sui vari periodi nell’arco dei secoli: sulla partecipazione poetica, musicale dei trovatori genovesi alla fioritura occitanica; sul vigile interessamento delle autorità religiose per arginare la corruzione musicale nelle chiese; sulla diffusione dell’arte musicale nelle varie classi sociali; sulla fortuna delle laudi e degli strambotti, dei mottetti e dei madrigali composti da insigni polifonisti genovesi; sulla pratica strumentale e sulla maestria tecnico-esecutiva dei cantori, degli organisti e dei violinisti.

Grazie alla ricca collezione del fondo antico del Conservatorio, possiamo affermare che le opere di Franchino Gaffurio, Francesco da Milano, Filippo de Monte, Gioseffo Zarlino, Costanzo Porta furono attentamente studiate dai musicisti liguri e che le Sonate di Corelli, le opere strumentali di Bach, Haendel, i quartetti di Galuppi, le Sonate di Somis, Tartini, Pugnani, Nardini, Galeotti, Giardini, le composizioni sinfoniche di Boccherini, Vivaldi, Giovanni Cristiano Bach e Haydn ebbero negli esecutori e nei maestri genovesi del tempo intelligenti ed efficacissimi interpreti.

Tuttavia, un tale prodigioso e fervido passato. se degnamente preparò il sorgere dell’astro Paganini, non costituì propriamente l’ambiente musicale nel quale il violinista formò la sua personalità artistica. Se dobbiamo limitare la nostra attenzione al periodo che va dalla fine del Settecento agli inizi dell’Ottocento, quello cioè che vide germogliare e svilupparsi tale eccezionale personalità, dobbiamo dolorosamente constatare che proprio a quell’epoca l’ambiente musicale genovese si era trasformato repentinamente e la musica strumentale aveva subito un sensibile regresso, un declino pauroso, addebitabile principalmente – come opinano alcuni studiosi – alle alterne vicende storiche e politiche verificatesi durante il periodo napoleonico e dopo il Congresso di Vienna.

Quando al giovane Paganini, ancora acchiocciolato nel suo nido, cominciavano a spuntare le ali di aquilotto, gli interessi musicali dei genovesi si erano ridotti soltanto a quelli abitudinari e tradizionali del teatro lirico, essendosi man mano affievoliti, fin quasi a spegnersi, quelli puramente strumentali e virtuosistici che, anticamente, si svolgevano nelle case patrizie e nei nobili saloni delle famiglie aristocratiche.

Una sola forma musicale era coltivata a Genova sul finire del Settecento: l’opera lirica. Un solo stile era praticato: quello melodrammatico, e ciò avveniva non soltanto sulle scene di grandi e piccoli teatri, ma anche nelle esecuzioni di musiche che servivano come pomposo ornamento neIle solennità religiose che si celebravano nelle chiese di San Lorenzo, Nostra Signora delle Grazie, Nostra Signora delle Vigne, San Domenico, e gli oratori della Concezione in Castelletto, di Nostra Signora del Monte, di S. Giorgio, di S. Ambrogio, di S. Giacomo della Marina.

Ormai solo un lontano e sbiadito ricordo rimaneva delle civilissime tradizioni musicali seicentesche e settecentesche.

A onor del vero dobbiamo dire che l’attività strumentale non cessò del tutto: tra un melodramma e un’opera comica, tra un ballo e uno spettacolo di varietà con “sorprendenti giochi di equilibrio, di destrezza e di forza”, il teatro S. Agostino dedicava talvolta qualche serata alle Accademie, ai concerti, alle esibizioni di virtuosi e virtuose.

Non v’è però da farsi molte Illusioni sul valore artistico di tali manifestazioni. Anzitutto, se è vero che nell’epoca di cui ci occupiamo era già sorto in Europa il concertismo nomade, tuttavia pochi grandi artisti si spingevano oltre Milano, Torino, Roma. Ecco perché nelle scarne cronache musicali della “Gazzetta di Genova” ricorrono a lunghi intervalli di tempo soltanto i nomi dei “concertisti” genovesi, per lo più facenti parte dell’orchestra del teatro: del clarinettista Giovanni Battista Gambaro, del fagottista Lorenzo Lasagna, dei suonatori di corno Lorenzo e Michele Corbellini “rinomati fuori Genova, e stimati molto anche in Genova”.

Ma, come si può ben comprendere, si trattava sempre di esibizioni puramente virtuosistiche, con programmi eterogenei farciti di brani vocali e parafrasi strumentali di pezzi melodrammaticí, tanto graditi dal pubblico minuto. Il grande movimento romantico, l’esplosione del genio di Beethoven, le nuove correnti d’arte convogliate nelle composizioni di Schubert, Schumann, Mendelssohn, Brahms, rimarranno per Genova, ancora per molti anni, lettera morta.

Una piccola consolazione può venire dalla constatazione che ciò non accadeva soltanto a Genova: nelle grandi linee lo stesso avveniva in molte città d’Italia: a Milano come a Napoli, a Bologna come a Torino, a Firenze come a Palermo. Le Accademie concertistiche erano dovunque mal combina te, e deplorevole era l’assenza di ogni seria intenzione di giovare al progresso dell’arte. Occorrerà ancora molto tempo perché si instauri quella purezza e severità del gusto che oggi guida le buone manifestazioni concertistiche.

Dunque, ai tempi in cui Paganini sì educò e si formò musicalmente, tutta l’attività musicale genovese convergeva intorno ai teatri del Falcone, del S. Agostino, di Piazza Campetto, delle Vigne, di S. Francesco d’Albaro, dì Sampierdarena, interessando un largo stuolo di musici, poeti, maestri di cappella, virtuosi, cantatrici, ballerini, impresari, suggeritori, copisti: cioè quel mondo fantastico e bizzarro del nostro melodramma settecentesco di cui ci ha dato una descrizione coloritissima Benedetto Marcello nel “Teatro alla moda”. E possiamo affermare con orgoglioso compiacimento che nel cinquantennio che precedette l’apertura del teatro Carlo Felice, l’attività lirica genovese fu intensissima e ragguardevolissima, non inferiore a quella della maggior parte dei capoluoghi italiani di provincia e di regione.

Durante quel mezzo secolo si rappresentarono a Genova ben 430 opere in musica e circa 700 azioni coreografiche, con un totale di oltre seicento compositori (fra cui Anfossi, Cimarosa, Farinelli, Fioravanti, Galuppi, Gnecco, Jommelli, Mayr, Paer, Paisiello, Piccinni, Rossini, Sarti, Zingarelli) e con la partecipazione di una vera moltitudine di cantanti, coreografi e ballerini, tutti celebri, tutti illustri e valentissimi.

Soltanto negli anni dal 1799 al 1801 a Genova si rappresentarono non meno di 21 melodrammi; tre di Giuseppe Nicolini, due di Simone Mayr (“Lodoiska”, “Adelaide”), due di Cimarosa (“I due baroni”, “L’apprensivo raggirato”) e opere di Tarchi (“Il disertore”), Paisiello (“I Filosofi immaginari”), Pietro Alessandro Guglielmi (“Cleopatra”) Marc’Antonio Portogallo (“Le donne cambiate”) e Gaetano Andreozzi (“La Vergine del sole”).

Ed è questo il biennio (secondo quanto affermano i biografi) in cui Paganini, giovanotto sui diciassette anni, dopo le sue prime esibizioni a Milano, Bologna, Firenze, Pisa e Livorno. tornato in patria in tempi calamitosi di guerra, fame ed epidemie, si rifugiò nella casetta di Romairone in Val Polcevera e approfittò della forzata inattività (interrotta solo da due concerti a Livorno e due a Modena) per affinare la sua tecnica esecutiva e maturare il suo genio.

Poté talvolta evadere dal suo rifugio campestre per assistere alle rappresentazioni genovesi del teatro S. Agostino? Poté trarre qualche giovamento da questo ambiente musicale apparentemente estraneo alla sua personalità artistica? Quali influssi poté ricavare la sua straordinaria capacità di assimilazione da una attività volta a favorire l’edonismo canoro e a negligere la musica strumentale?

Se dobbiamo tener conto (sia pure con le dovute riserve) delle dichiarazioni fatte dallo stesso Paganini, possiamo rilevare nel Genovese una certa riluttanza a riconoscere influssi esteriori nella sua formazione artistica e una ancor più decisa reticenza nell’attribuire un minimo d’ importanza. all’educazione scolastica ricevuta. Egli non citò mai il suo primo insegnante di violino Giovanni Cervetto; asserì di aver ricevuto da Giacomo Costa solo trenta lezioni in sei mesi, ma con scarso profitto in quanto “i suoi principi mi sembravano spesso contrari a natura ed io non accondiscendevo a far mio il suo modo di tirar l’arco“. Solo per Francesco Gnecco (un operista insigne) ebbe parole di riconoscenza: “Mi trovavo spesso insieme al mio illustre concittadino Francesco Gnecco che influì alquanto sulla mia cultura musicale“. In genere però Paganini fu bene o male consigliato dal suo genio a rifiutare qualsiasi scuola: “Io stesso ero entusiasta del mio strumento e studiavo incessantemente per scoprirvi posizioni del tutto nuove e non ancora udite, il cui accordo facesse stupir la gente“.

Tuttavia sarebbe assurdo pensare a un Paganini sorto dal nulla, in un ambiente inaridito e povero di fermenti, in un clima di stagnante inoperosità e di sterile conservatorismo.

Può darsi benissimo che il Virtuoso non derivò da nessuna scuola violinistica la sua tecnica trascendentale e funambolesca; ma il Compositore non poté non risentire dello stretto contatto con i musicisti operisti del teatro genovese. Del resto, anche il teatro d’opera può offrire, a un artista pronto ad assimilare tutte le correnti vive dell’arte italiana, spunti, idee, formule, atti ad eccitare la sua fantasia compositiva. E che Paganini derivò il proprio linguaggio melodico dalle più commosse e più energiche espressioni dello stile vocale melodrammatico imperante alla fine del Settecento è chiaramente dimostrato dalla scorrevole cantabilità, dal lirismo facile e fluente che caratterizza le sue migliori melodie, allorché le corde del violino, dopo le folli volate e gli inebrianti passaggi acrobatici, si fanno dolcissime, sinuose e cantabili, come pervase da un empito sentimentale belliniano o donizettiano. Dice bene Edward D. R. Neill, trattando l’argomento “Paganini compositore”: “La sua formazione musicale avviene nel segno di una estrema modestia di varietà, di gusti e di stili. Il suo repertorio comprende concerti di Kreutzer, Rode, Pleyel e Viotti. Per il resto, egli si familiarizza volentieri con l’opera lirica, ascolta Mayr, Rossini, Mercadante. Meyerbeer, Bellini, Donizetti, ed è proprio in questa direzione che occorre guardare e valutare, non solo lo stile orchestrale di Paganini, ma anche il suo virtuosismo, perché ogni composizione, da quella concertistica a quellacameristica, sembra la trasposizione in termini strumentali del “belcanto” italiano… Del resto basta poco per accorgersi della frequenza con cui compare nelle sue partiture l’indicazione “cantabile”, nonché quel tipico dialogare del soprano (cantino) coi tenore o il baritono (quarta corda), un vero e proprio duetto operistico, dove la contrapposizione non avviene in senso tematico, ma solo in senso timbrico e dove l’accentuazione viene posta sul carattere maschile e femminile tipico del duetto amoroso“.

Non a caso Rossini avrebbe dichiarato: “È stata veramente una fortuna che Paganini non siasi di proposito brigato nella composizione lirica. Ei saria divenuto un rivale abbastanza pericoloso“. Basterebbe questo per affermare decisamente la genesi autoctona del “fenomeno” Paganini.

Però. una volta ammessa l’influenza esercitata dall’ambiente melodrammatico genovese su Paganini nel suo primo periodo di formazione e di tirocinio, bisogna pur riconoscere nel grande violinista l’ansia e l’esigenza di approfondire la propria cultura al di fuori del ristretto ambito locale, il desiderio e l’ambizìone di spaziare attraverso più vasti orizzonti nei liberi cieli dell’arte, la brama di conoscere musiche e musicisti per non rimanere estraneo al fermento di nuove idealità culturali.

E ciò si rileva da vari indizi, da testimonianze, da confessioni dello stesso Paganini, da studi recenti (assai acuti e persuasivi quelli di Zdenek Vyborny). Risalta allora un Paganini straordinariamente anticipatore dell’idea romantica fin dai “Capricci” op. 1, composti fra il 1801 e il 1807; un Paganini conoscitore, ammiratore ed esecutore (non però in pubblico) della musica di Beethoven (musicista ancora praticamente sconosciuto al pubblico italiano); un Paganini aggiornatissimo sugli sviluppi dell’arte musicale europea, grazie alle numerose scorribande all’estero che gli permettono di conoscere le nuovissime composizioni e i migliori complessi orchestrali del tempo; un Paganini direttore d’orchestra, sorprendentemente abile nel concertare un’opera lirica e nell’interpretare un brano sinfonico.

Niccolò Paganini (Genova, 27 ottobre 1782 – Nizza, 27 maggio 1840)

A questo punto le posizioni si invertiranno: sarà Paganini a farsi ambasciatore presso l’ambiente musicale genovese delle esperienze musicali europee, sarà Paganini a proporre, a suggerire, ad ammaestrare, ad esortare, pur da lontano, i violinisti e i compositori genovesi. Le lettere a Germi si concludono sempre con un pensiero affettuoso o con un ammonimento rivolto agli amici concittadini: “Amerei sapere i progressi di Camillini Sivori – Dimmi qualche cosa del tuo violino, di Sivori, di Dellepiane, di Riva, di Mainetto – Come suoni? Cosa suoni? Che fa il nostro egregio maestro Serra? – Il mio Stradivario si terrà onoratissimo se verrà esercitato dal mio amico Germi, perciò ti prego di prevaletene – Dammi notizie intorno ai Teatri. Desidero sapere quali sono i virtuosi cantanti che dovranno rappresentare nell’apertura del nostro nuovo Teatro. – Niuno ostacolo, tolto quello della mia salute, può esservi perché io non debba procurarmi la soddisfazione d’istruire con avvertimenti e cogli esempi – Ho finito di strumentare un 3° Concerto con Polacca e vorrei farlo sentire ai miei compatrioti, prima di produrli a Vienna, a Londra e a Parigi – Ti ho inoltrato due Quartetti di Mozart in sol minore e i due Quartetti brillanti di Spohr – Riceverai da un mio amico la collezione dei Quartetti, il Trio e il Quintetto di Beethoven – Di Beethoven ho intesi due nuovi Quartetti, eseguiti dai migliori quattro professori, in seguito compiacerò i medesimi coll’eseguirli io stesso, ma detta musica è molto stravagante – Qui (a Vienna) si gusta la vera musica – Spero ti piaceranno infinitamente i Quartetti ultimi di Beethoven quando sarò a dirigerli – La collezione di Beethoven mi costa soltanto 60 franchi – Io non vedo l’ora della mica partenza per Genova, che sarà nella fine di questo mese. Avrò meco gli ultimi Quartetti di Beethoven, che bramerei farti sentire“.

Sono brevi frasi poste frettolosamente a chiusura delle lettere, talvolta come post-scriptum, ma vergate con assidua amorevolezza e sollecitudine in quasi tutte le missive indirizzate al Germi, come un costante nostalgico richiamo, come un vivo desiderio di sentirsi sempre vicino ai colleghi genovesi per scambiare con loro idee, opinioni, progetti per il futuro.

E ad ogni rientro “in patria” (cioè a Genova), dopo estenuanti tournées in Italia e all’estero, dal suo capacissimo baùle tirava fuori ogni sorta di regali per gli amici genovesi. C’erano rasoi, forbici, temperini di purissimo acciaio di Sheffield, porcellane, profumi di Parigi, ritratti, posate d’argento, medicine per guarire “da qualunque incomodo”, flaconi di sciroppo per l’l’insopportabile tosse”, archetti a centinaia. corde di violino a mazzi (da distribuire agli amici, ma eventualmente anche da vendere). C’erano però anche tutti i 17 Quartetti di Beethoven, le ouvertures del “Fidelio” e dell’ “Egmont”, le Sonate e i Quartetti di Mozart, i concerti di Rode, Pleyel, Spohr, Kreutzer, e musica, nuova da far conoscere, da eseguire insieme nelle belle serate genovesi tanto desiderate, vagheggiate, sognate, specialmente in quei momenti di nostalgico rimpianto nei quali la “genovesità” di Paganini si faceva più struggente: “Partirò col battello a vapore per Genova il 16: in patria parleremo, chiacchiereremo, suoneremo e ci divertiremo“.

Fino agli ultimi suoi giorni, da Nizza ove sperava di guarire dai troppi mali che l’affliggevano, Paganini non cesserà di rivolgere il suo caro ricordo a Genova e ai suoi amici musicisti: “Qui si vede sovente il sole; ma fa freddo: come si sta in Genova? Dimmi se fai musica col Sig. Riva. Io non ho più toccato né musica, né istrumento“.

Purtroppo la grande luce paganiniana veniva spegn4ndosi lentamente: i musicisti liguri che per molti anni ne avevano ricevuto riverberi illuminanti troppo presto perderanno una guida capace di orientarli verso lidi sicuri. E Genova non avrà nemmeno la consolazione di accogliere le spoglie mortali del suo grande amoroso Figlio, né di conservare come preziose reliquie i copiosi manoscritti musicali nella Biblioteca del Conservatorio che gloriosamente e orgogliosamente ne perpetua il nome.

Ed ecco riaffiorare la polemica: la polemica aspra e amara. Ma queste celebrazioni bicentenarie dovranno servire a chiarire molte cose; dovranno almeno dimostrare a tutto il mondo che Genova, generosa e materna, non dimentica i suoi figli e soprattutto non dimentica Paganini, che per lei, per la sua “patria”, palpitò sempre, fino all’ultimo giorno, di filiale devozione.

SALVATORE PINTACUDA

5 marzo 1982

Di Mario Pintacuda

Nato a Genova il 2 marzo 1954. Ha frequentato il Liceo classico "Andrea D'Oria" e si è laureato in Lettere classiche con 110/110 e lode all'Università di Genova. Ha insegnato nei Licei dal 1979 al 2019. Ha pubblicato numerosi testi scolastici, adottati in tutto il territorio nazionale; svolge attività critica e saggistica. E' sposato con Silvana Ponte e ha un figlio, Andrea, nato a Palermo nel 2005.

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