Un giorno tra le rovine del passato: Adranon e Montevago

Ieri ho avuto modo di visitare le rovine di due località diverse per epoca e tradizione culturale, ma accomunate dall’appartenenza a un passato più o meno remoto, ridotto a testimonianza tenace di una memoria che non si cancella mai del tutto.

La prima è l’antica città greco-punica di Adranon, la seconda è la vecchia Montevago (distrutta dal terribile terremoto del Belìce del 1968).

Siamo saliti da Sambuca di Sicilia alla località Adragna (“buen retiro” dei nostri carissimi amici Nino e Silvana) e da lì siamo saliti in auto, per una strada sempre più stretta e sterrata, in Contrada Vanera, sul Monte Adranone, a quasi 1000 metri di altitudine.

Sulla sommità di questo monte Adranone sussistono i resti dell’antica città di Adranon, che costituiscono un importante sito archeologico.

L’antica Adranon fu colonizzata da Selinunte nel VI secolo a.C. e conquistata da Cartagine nel IV secolo a.C.; nel 250 a.C. fu rasa al suolo dai Romani (ne parla Diodoro Siculo in occasione della prima guerra punica).

La posizione di Adranon era strategica, dominando la Valle del Belìce, per cui passava la strada che collegava Selinunte ad Akragas (attuale Agrigento); costituiva dunque un caposaldo del sistema di difesa realizzato dai Cartaginesi.

Le rovine, restituite dagli scavi archeologici, si estendono su un territorio collinoso e ondulato; vicino all’ingresso dell’area archeologica si trova la Necropoli, in cui colpisce la monumentale Tomba della Regina.

Il perimetro della città è lungo più di 6 km; nel lato orientale è delimitato dallo strapiombo roccioso, mentre per il resto è costituito da un’imponente cinta muraria costruita in blocchi di pietra marnosa locale e conservata in alcuni tratti per circa 6 metri di altezza.

Salendo verso la sommità del monte Adranone si osservano appunto le mura della città-fortezza, il quartiere che era sede delle attività commerciali e artigianali e un santuario, circondato da un recinto sacro (“témenos”) e preceduto da un sacello dove venivano custodite le offerte votive dei fedeli. Sulla cima si trova l’area sacra dell’Acropoli.

Ieri, dall’alto di quell’avamposto formidabile, il mio sguardo spaziava sulla vallata sottostante, dove finalmente (nonostante la scarsità di piogge finora cadute) il giallo sahariano dell’estate sta restituendo campo libero al meraviglioso verde irlandese che rende incantevole la Sicilia in tutti i mesi non canicolari.

In lontananza, sfumato da un po’ di foschia, si intravedeva il mare africano.

Il Lago Arancio, più vicino, aggiungeva una pittoresca macchia di colore azzurro in mezzo alle campagne.

I paesi della valle, spesso rinati a fianco dei loro fantasmi devastati dal sisma del 1968, sorridevano al sole sotto un cielo di un azzurro fantasmagorico.

Il cretto di Burri si scorgeva in lontananza, a inglobare la vecchia Gibellina.

Nel pomeriggio, dopo un ottimo pranzo a Santa Margherita Belìce, ci siamo trasferiti a Montevago per vedere le rovine dell’antico paese distrutto dal sisma del 14-15 gennaio 1968. Le vittime furono 92 solo in questa cittadina.

In questa località devastata, murales, dipinti, finestre di colori e riverberi animano i “Percorsi visivi”, un museo a cielo aperto inaugurato nel vecchio centro del paese.

Il progetto deriva da un lavoro di riqualificazione dell’area, che l’amministrazione comunale si è prefissa di riportare a nuova vita, ricavandone spazi di creatività e produzione artistica nonché un’occasione di sviluppo turistico e culturale.

Come ha dichiarato Calogero Armato, assessore al Turismo, Sport e Spettacolo del comune di Montevago, “abbiamo la consapevolezza di essere parte viva e propositiva di un progetto di crescita. Ora più che mai è importante creare le condizioni perché il paese assuma la connotazione di un luogo creativo e della memoria; felice connubio tra architettura storica, paesaggio ed espressione artistica”.

Fra gli artisti coinvolti nell’operazione vanno ricordati artisti di fama internazionale come Salvo Ligama, il pittore francese Pascal Catherine, il pittore marchigiano Bruno D’Arcevia, Patrick Ray Pugliese.

A metà del corso, ecco i ruderi della Chiesa Madre, dedicata ai Santi Pietro e Paolo; iniziata a cavallo tra il XVIII e il XIX secolo dal principe Giovanni Gravina Moncada, fu portata a termine dal cardinale Pietro Gravina e consacrata nel 1820. Ne sono stati riportati alla luce il basamento e l’altare maggiore, tre altari laterali, alcuni capitelli con l’effigie della chiesa, il sarcofago con la lapide del fratello del cardinale Gravina, diversi elementi architettonici, nonché i resti del portone e della scala a chiocciola che conduce al campanile. Dai ruderi della Chiesa Madre è emersa anche l’antica cripta del preesistente “Putridarium” (detto anche “purgatorio” per il disseccamento dei cadaveri prima dell’inumazione definitiva), risalente alla più antica chiesa della Santa Croce, che sorgeva nello stesso luogo in tempi precedenti ed era detta anche “del Purgatorio” proprio per l’esistenza di questo ambiente ipogeo.

Mi aggiravo ieri per quello che costituiva il lungo corso del paese, oggi fiancheggiato da impressionanti ruderi.

Mi hanno colpito due scritte su due murales: “Niente è più inabitabile di un posto dove siamo stati felici”, “Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario”.

Ricordo di avere visto, tempo fa, un documentario che presentava un quadro impressionante di come diventerebbe il mondo se improvvisamente il genere umano sparisse. La Natura, in breve tempo, si riapproprierebbe, con un’invasione progressiva di sterpi, rami, fronde, foglie, fiori e alberi, dello spazio che gli uomini le hanno sottratto in modo effimero.

E nel silenzio ossimoricamente assordante di quel luogo paralizzato, dove unico rumore erano i nostri passi sull’antico acciottolato, mi tornava in mente il “Dialogo di un Folletto e di uno Gnomo” (nelle “Operette morali” di Leopardi), in cui i due personaggi commentavano l’estinzione della razza umana: «Gli uomini son tutti morti, e la razza è perduta».

Ma, ancora più forte, si ridestava in me il ricordo dell’antica poesia delle rovine, con l’elogio funebre struggente che l’epigrammista Antipatro di Sidone rivolgeva a Corinto: «Dov’è la tua mirabile bellezza, / o dorica Corinto? E le corone / delle tue torri e le antiche ricchezze, /i templi degli dèi, i tuoi palazzi? Dove le tue donne /, dove le folle immense del tuo popolo? / Nemmeno un segno rimane di te, / infelicissima! Divorò tutto / a rapina la guerra. Solo noi / Nereidi, figlie di Oceano, immortali, / come alcioni, siamo rimaste a piangere / le tue sventure» (trad. Quasimodo).

Così, qui in Sicilia, la Morte si riappropria della Vita; così la Vita corteggia ostinatamente la Morte.

E il sole siciliano inonda di luce questa terra millenaria, dall’alto della sua arrogante eternità.

Di Mario Pintacuda

Nato a Genova il 2 marzo 1954. Ha frequentato il Liceo classico "Andrea D'Oria" e si è laureato in Lettere classiche con 110/110 e lode all'Università di Genova. Ha insegnato nei Licei dal 1979 al 2019. Ha pubblicato numerosi testi scolastici, adottati in tutto il territorio nazionale; svolge attività critica e saggistica. E' sposato con Silvana Ponte e ha un figlio, Andrea, nato a Palermo nel 2005.

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