“Occhi per taliare” di Vito Lo Scrudato

Il libro di Vito Lo Scrudato, Occhi per taliare – Dal pensiero debole al pensiero svenuto, pubblicato nel gennaio 2017 dall’editore Pietro Vittorietti, costituisce un’interessante rassegna di opinioni, discussioni, aneddoti, considerazioni e divagazioni liberatorie dell’autore, organizzate secondo il consolidato schema dell’abbecedario.

Vito Lo Scrudato

A tre anni dal precedente volume, Le porte di Camico Soprana, Lo Scrudato fornisce una nuova prova della sua poliedrica ispirazione narrativa, della sua ampia prospettiva culturale e della sua vivace personalità, strettamente legata alle sue radici isolane e da esse costantemente alimentata e rinvigorita.

Coautore del libro è, per la parte iconografica, il pittore Gaetano Porcasi, con i suoi “sguardi” sulla realtà siciliana, potenti ed espressivi. 

Il libro non ha, per la sua stessa organizzazione desultoria, una “trama”; in esso confluiscono diversi scritti prodotti da Lo Scrudato prima (fra il 2000 e il 2006)  nella sua abitazione di Karlsruhe e poi a Palermo.

Filo conduttore è la capacità di “guardare”, anzi di taliàre, nella realtà, con occhi non annebbiati dalle mille forme di offuscamento vigenti nell’Italia di oggi; ad apertura di libro l’autore proclama orgogliosamente la necessità di “vagonate di libertà e quintalate di coraggio, antidoti contro l’opportunismo e l’arroganza” (p. 10).

E questa libertà viene acquisita anche e soprattutto attraverso quello che Lo Scrudato chiama “pensiero svenuto”: “un pensiero libero, fuori moda, politicamente scorretto, irriverente, divertito (speriamo anche divertente!), un po’ per i fatti suoi, anche grezzo e agricolo com’è il suo autore, forse opportuno ma certamente non opportunista, talvolta goliardico, tal’altra contrariato…” (p. 9).

Per dare una certa organicità alla nostra analisi, procederemo per temi, cercando di cogliere, fra le tante suggestioni del volume, alcuni snodi fondamentali.

Notevole è, anzitutto, il riferimento ai lati oscuri dell’essere, a situazioni tragiche e perfino macabre: colpisce la cupa vicenda del cannibale di Rotenburg, “Armin Meiwes di 42 anni”, che pubblica un’inserzione su internet e cerca e trova una persona desiderosa di farsi da lui divorare, tale Bernd Jürgen Brandes; la paradossale vicenda assume nella scrittura dell’autore – almeno all’inizio – connotazioni grottesche e quasi burlesche, ad es. quando viene immaginato il primo colloquio fra carnefice e vittima (o fra mangiante e futuro mangiato?) oppure quando viene descritta la location che ospiterà la seduta cannibalesca: “qui il berlinese avrà dato un’occhiata intensa ai fornelli su cui gli sarebbe toccato di bollire e cuocersi in compagnia – avrà pensato – di carotine, di pezzetti di sedano e di spezie per insaporire la carne e per addolcire il brodo” (p. 51).

Non meno cupe sono le pagine che rievocano la caccia alle streghe nella Sicilia cinquecentesca (pp. 42-49), dove il rigore storico si coniuga alla denuncia illuministica di un’epoca di oscurantismo e prevaricazione (ma qui l’autore parte avvantaggiato dai suoi studi passati, come La magara – Processo inquisitoriale nella Sicilia del Cinquecento, Sellerio 2002).

Emozionante e coinvolgente risulta anche la parte relativa alla pena di morte (pp. 156-159), in cui Lo Scrudato rivive gli ultimi drammatici istanti dei condannati a morte, sottolineando drammaticamente il concetto di “certezza” della pena (già evidenziato drammaticamente ne L’idiota di Dostoevskij) e indignandosi per il cinismo disumano del pubblico che assiste alle esecuzioni capitali: “nel vedere uccidere legalmente un uomo gli spettatori si confermavano nella sicurezza d’esser vivi e magari prendevano spunto per dare maggiore calore alle loro esistenze…” (p. 158).

Non meno documentata e ricca di dettagli è la rievocazione (attinta dalle cronache del Marchese di Villabianca) delle crudeli esecuzioni, nella Palermo del 1704, di un tale Francesco Vizzini (pp. 107-108) e di un Giuseppe “Amaturi” Lo Russo (quest’ultimo, in realtà, sottrattosi al supplizio dando fuoco alla sua cella, ma poi ugualmente impiccato… da morto).

La vicenda più eclatante dal punto di vista del dolore, della sopportazione, della sofferenza è quella di Giobbe (pp. 80-84), che culmina però in un “lieto fine catartico e riparatore” (p. 83) e nella serena consapevolezza finale del personaggio, che muore “vecchio e sazio di giorni”; l’immedesimazione con l’antico personaggio biblico è così totale da consentire all’autore l’affermazione conclusiva: “Giobbe è come noi, Giobbe è uno di noi” (p. 84).

Ma dalle antiche vicende bibliche lo sguardo spazia fino al presente; e in questo ambito vanno letti i riferimenti attualissimi ai genocidi, alle guerre, alle manifestazioni estreme del terrorismo. In particolare alcune pagine (ad esempio quelle relative alla visita dell’autore al monastero di Mor Gabriel nel sud-est dell’Anatolia, pp. 145-151) assumono le caratteristiche di un vero e proprio reportage.

Un altro aspetto del libro è la presenza di intriganti riflessioni esistenziali, di piccoli tesori di sapienza spicciola ma nata dall’esperienza.

Vi compare, ad esempio, la riflessione amara sul tempo che passa inesorabile, un tempo visto come “nemico inarrestabile delle umane esistenze, nemico spietato dei nostri corpi in trasformazione, in generale peggioramento…., anestesia dei giorni che scorrono senza controllo o rallentamenti” (p. 205); è secca e impietosa, scandita com’è dagli omoteleuti e dalle assonanze, la constatazione “del nostro cervello che rimbambisce, della nostra pelle che raggrinzisce, dei nostri muscoli che inflaccidiscono, dei nostri occhi che si opacizzano, dei nostri capelli che nel migliore dei casi imbiancano e nel peggiore dei casi cadono via, dei nostri denti che sostituiamo con protesi fisse o con dentiere incollate, delle nostre schiene che incurvano, della nostra gioia che incupisce, delle nostre illusioni che svaniscono, degli amori che ci deludono” (id.).

Forse come reazione al pensiero del tempus che fugit irreparabile, l’autore si avvinghia ai ricordi, rievoca esperienze di vita, narra aneddoti.

Fra questi, un viaggio a cavallo da Cammarata a Palermo, in “due giorni intensi e faticosi” (p. 215), un viaggio “all’antica”, con sensazioni “all’antica”: “un particolare della campagna, una casa rurale, un vecchio monastero incastonato sulle pendici di un bosco, un invaso d’acqua, rimanevano immoti per ore nella loro posizione lontana, così che il cavaliere vi tornava senza fretta con lo sguardo a più riprese, avendo anzi l’impressione di essere immobile, che l’oggetto osservato fosse sempre lì” (id.).

Le “pillole di saggezza” sono disseminate qua e là con un’ironia ora garbata ora pungente: si trova dunque ora l’invito a non esercitare la pericolosa professione di ladro se non si è del mestiere (p. 89), ora l’avvertenza di guardarsi dai bellimbusti delle finanziarie che “stanno solo cercando di fregarvi i quattro soldi che avete risparmiato” (p. 169), ora uno spot anti-fumo (p. 204), ora una campagna contro certi venditori di viaggi organizzati-bidone (“i venditori del paradiso in quote settimanali”, p. 214).

Non mancano, in questo campionario di riflessioni onnicomprensive, le trovate inedite, stranianti, come un curioso paragone fra la Regola di San Benedetto e “un moderno manuale del manager di successo” (p. 162). Leggendo e seguendo il ragionamento dell’autore, appare sempre meno peregrina e sempre più calzante l’affermazione (a prima vista sconcertante) per cui la regola del Santo di Norcia rappresenta “la migliore personificazione del leader e la perfetta teorizzazione del suo modo di essere e della sua azione” (p. 163). In diverse pagine (nate evidentemente dall’esperienza concreta di Lo Scrudato in qualità di Dirigente Scolastico) si finisce per cogliere l’analogia paradossale fra l’abate e il moderno manager, nella “gestione del personale”, nel campo della “produttività”, nella creazione di “consenso e fiducia”, nelle “relazioni personali”, nella “gestione delle risorse”, infine nei concetti di “leadership” e “decision making” (pp. 162-169 passim).

L’attenzione al presente, all’Italia d’oggi, è una delle costanti del libro. Il quadro attuale del nostro Paese è presentato con tratti disarmanti: “in Italia, non da oggi, hanno voce e pulpiti solo i portaborse di chi comanda, furbetti blablabla, violenti nell’erigere steccati e costruire forche, ammaestrati come scimmie da circo, irreprensibili a parole, blablabla, compunti con la faccia giusta, con pretese d’esser filosofi accigliati e problematici, compiaciuti e sorridenti d’essere nella squadra vincente…, di quelli che sotto la calotta cranica niente, menestrelli alla corte di chi comanda” (p. 10).

Più in generale, l’uomo di oggi appare “senza avvenire” (p. 54), disperato, preda e vittima della “furbizia” dilagante (p. 76), buggerato impietosamente anche da chi dovrebbe tutelarlo (ad es. le banche, cfr. pp. 78 e 169), costretto a vivere di espedienti, a “studiari ‘a marredda” (come dicono a Cammarata).

L’umanità è simile ormai ad un formicaio vorticoso di “questuanti, di uomini che vogliono potere su altri uomini, di soggetti dalle cattive intenzioni celate dietro sorrisi come maschere, di ladri in doppiopetto, di boriosi ben pasciuti, di tessitori di tele mortali, di imbecilli dall’aria e dal tono intelligente, di venditori di fumo, di impietosi sparlettieri, di corrotti vestitid a moralisti, di invidiosi che tramano ai danni dei pochi cuorcontento, di autori di lettere anonime per andare nelle scarpe al prossimo” (p. 206).

Le constatazioni pessimistiche sulla realtà italiana non risparmiano il contesto della Sicilia odierna, cui l’autore riserva ovviamente un’attenzione speciale.

Il tema della situazione isolana, tale da far tremare le vene e i polsi, viene a volte affrontato con ironica leggerezza, ad es. quando si fa riferimento alla carente situazione viaria siciliana. Si ricorda così l’eroismo degli automobilisti isolani, in particolare tormentati da “bizzarri cantieri” (p. 193) sulla strada a scorrimento (non) veloce Palermo-Agrigento; ne deriva la bizzarra conclusione che, mentre in tutto il mondo le distanze si accorciano, si vanificano, si azzerano, nella bella isola del sole i tempi invece si dilatano, si allungano, si immobilizzano: “la mia Camico Soprana [Cammarata] in questi anni di lumacoso cantiere si è allontanata e i fine settimana sulle montagne sicane si sono rarefatti, per demotivazione” (p. 194).

E tragicamente attuale appare (soprattutto dopo l’ennesimo letale crollo di un cavalcavia, avvenuto il 9 marzo scorso sull’autostrada A 14) la rievocazione grottesca della pomposa inaugurazione del viadotto Scorciavacche presso Mezzojuso, avvenuta a fine dicembre 2015 e seguita pochi giorni dopo dal crollo del viadotto stesso; diventa un sarcastico “tormentone”, da parte dell’autore, il ricordo della pomposa esecuzione del “nostro mameliano inno nazionale” (“pom poropò! pom poropò! pom poropò”, p. 196) associato però al miserabile seguito della vicenda. Da questo paradossale evento è derivato addirittura un nuovo proverbio: “durare quanto il ponte di Scorciavacche” (p. 198)!

Nel libro l’autore rimanda spesso alla suo carissima Cammarata: ne sono ricordati i proverbi, frutto della saggezza popolare (ad es. “fàrisi ‘na panza quantu ‘na ciaramedda”, p. 174; “èssiri nutricatu a passuli e ficu”, p. 175; “pridicari lu diunu a panza china”, id.); si collega l’origine dell’attuale cittadina all’antica Camico, capitale del mitico re Cocalo (pp. 202-203); si citano gli “insegnamenti di don Cocò u Russu, lo scarparo del quartiere di Santu Vitu” (p. 206); si rievocano momenti autobiografici struggenti (“il bello delle stelle è che sono le stesse sia che si osservino nelle sere serene dalla Valle del Reno ai limiti settentrionali della Foresta Nera, sia che se ne goda la visione dalla veranda della casa di campagna posta sui Monti Sicani che chi scrive ricorda con sopportabile nostalgia”, p. 205).

Il tema della Sicilia però si ricollega, sempre ed inevitabilmente in tutti gli scrittori isolani, alla riflessione sulle piaghe che affliggono l’isola, prima fra tutte la mafia. Qui Lo Scrudato esprime a chiare lettere la condanna dei rappresentanti di “Cosa nostra”: “rozzi, prepotenti, supponenti, lesivi degli interessi anche economici dei siciliani” (p. 14). Emerge nettamente la convinzione che questa “accozzaglia di ignoranti rozzi e violenti” abbia di fatto costituito “la manovalanza alle menti raffinatissime che invece hanno concepito il disegno di sfruttare in modo coloniale il sud” (p. 124). Soprattutto nelle pagine dove si rievocano alcuni scritti di Leonardo Sciascia, viene denunciato l’ “accordo nefasto tra convergenti interessi della grande borghesia industriale del norditalia e delle classi dominanti siciliane” (p. 183).

Il meridionalismo costituisce per l’autore un tema profondamente sentito, anzi “risentito”; con il sanguigno calore di un “leghista del sud”, egli definisce mafia e brigantaggio “prodotti dell’unificazione nazionale” (p. 116), cita documenti e fatti. Giunge poi, nella valutazione della storia siciliana postunitaria, a una diagnosi estrema ma fortemente proclamata: “lo schema fu quello classico della reggenza coloniale: si costituisce un potere locale corrotto che sappia governare anche in assenza di reale consenso, lo si dota però di un braccio armato violento e repressore delle istanze di cittadinanza e di legittima crescita culturale ed economica e si mette in essere tutta una serie di strategie per impedire qualsiasi ipotesi di sviluppo” (p. 123).

Non mancano, in questa prospettiva, i rimandi topici alla contrapposizione fra “polentoni” e “terroni”, l’affermazione orgogliosa della validità culturale delle nuove generazioni siciliane (p. 125), l’invito un po’ sciovinista ai ragazzi del Sud perché non vadano più al Nord per i loro studi ad alimentare un “disagio professionale da marginalizzazione razzistica” (p. 155).

Conclusione quasi attesa ed inevitabile del discorso meridionalista dell’autore è l’approdo a una sorta di utopistica speranza: “meglio per tutti sarà il futuro se formuliamo l’idea coraggiosa e controcorrente di lasciare che i nostri figli costruiscano la loro vita qui, nei nostri paesi e nelle nostre città” (p. 155).

Tuttavia, si badi bene, l’autore non è “accecato” dall’amore incondizionato per la sua terra; anzi, ne ricorda puntigliosamente le pecche in un lungo e desolante elenco puntato (p. 190), dal quale emergono numerosi irrisolti problemi: la scarsa capacità siciliana di utilizzare i fondi europei, le comunicazioni inadeguate, la speculazione edilizia, l’arretratezza culturale, la “farraginosa macchina amministrativa degli enti locali”, la siccità, la lentezza nello sviluppo delle molteplici potenzialità isolane.  

Questa oggettiva constatazione dei mali siciliani non contraddice il precedente afflato passionale che esaltava la terra natia, ma ne diventa l’indispensabile completamento bipolare, come avviene anche nell’opera di Porcasi; nei quadri del pittore partinicese, infatti, al fascino solare del “pianeta Sicilia” si contrappone spesso la negatività delle violenze che lo hanno deturpato. Ed entrambi gli autori sono accomunati dallo stesso “vagheggiamento di una diversa ed opposta realtà siciliana, dove la solarità del paesaggio e la pienezza dei colori della sua tavolozza possa infine corrispondere alla ritrovata pienezza di vita di noi siciliani, finalmente liberi dai Mammasantissima di turno e dalle subalternità economiche e culturali che ci hanno visto perdenti e vittime di processi nazionali unitari mal condotti” (p. 15).

La “bipolarità” di questo modo di vedere la Sicilia conduce alla definizione dell’isola come “metafora d’eccellenza”, luogo universale dotato di straordinarie risorse latenti, “una specie di Aleph borgesiano” nel quale “si concentrano in un buco nero ipercompresso il male ed il bene, il bello ed il brutto, il sublime e il repellente, l’abbondanza e la miseria, la notte e il giorno, la pace e la violenza, il cielo e la terra, il freddo e il caldo” (p. 68).

Occhi per taliare contiene una serie notevole di riferimenti letterari, relativi ad autori più o meno noti; ecco dunque le pagine su: Andrea Camilleri “empedoclino gaudente” (pp. 36 e 38); Vitaliano Brancati “grande siciliano orientale di Pachino” (pp. 40-41); Alessio Di Giovanni “cantore di un mondo in via di dissolvimento” (pp. 72-74); Matteo Collura impegnato “verso la redimibilità possibile della Sicilia” (pp. 64-65) in contrasto con il pessimismo immobilistico di Giuseppe Tomasi di Lampedusa (pp. 59-62); il sambucese Emanuele Navarro della Miraglia “ingiustamente relegato alla dimensione di minore” (pp. 66-67); e ancora Sofocle (p. 105), Alessandro Manzoni (pp. 114-115), Guido Ceronetti (con un vero piccolo saggio critico specifico alle pp. 126-140), Andrea De Carlo (p. 141), Salvatore Quasimodo (p. 162), Alessandro Baricco (p. 199) ed il tedesco Uwe Timm (pp. 170-180). Immancabile, irrinunciabile, fondamentale è poi il riferimento prioritario a Leonardo Sciascia (pp. 185-189).

Alcune di queste parti “letterarie”, come si vede anche soltanto da questi cenni sintetici, diventano recensioni, ripensamenti, riproposizioni critiche, con affermazioni spesso originali e con non pochi spunti di nuova riflessione.

Il tutto si ricollega alla definizione di letteratura come “due cose contemporaneamente: consolazione di uomini annoiati che leggono o scrivono e testimonianza del tempo anche in senso storiografico” (p. 105).

Al discorso “pubblico” nel libro si affiancano spesso, come si accennava, riflessioni di carattere privato, squarci di vita familiare, considerazioni sui figli (pp. 86-88), sulle madri (pp. 113-116), sui padri (p. 156). Ci sono pure momenti “femministi” nel senso migliore della parola, ad es. quando viene affermato nettamente che “le donne sono molto migliori degli uomini” (p. 84) e quando viene ricordata la “dimensione sacrale della donna quale generatrice di vita” (p. 85). Tuttavia, di fronte alla progressiva affermazione delle istanze femminili, ironicamente viene auspicato “un movimento di emancipazione maschile” (id.) che resista alla rivincita “epocale” del gentil sesso.

Molto sapide e interessanti sono le pagine sulla Germania, che costituisce una sorta di seconda patria per Vito Lo Scrudato. Ma anche quando passeggia per i prati tedeschi la tenace memoria visiva, olfattiva, auditiva del nostalgico autore lo riconduce irrazionalmente ed immancabilmente alla sua isola lontana: perfino a Blankeloch a nord di Karlsruhe “nell’aria era disciolto anche un discreto profumo di sfincione palermitano, un misto di cipolla fritta, salsa di pomodoro condito e formaggio grattugiato” ed era possibile avvertire le esalazioni “del pentolone del polipo bollito” (p. 126).

Il ricordo delle serate familiari in giardino, che in Germania costituivano una “provocazione eversiva dell’ordine familiare dei vicini” (p. 145), è testimonianza di un difficile adattamento ad una diversa mentalità, ma anche affermazione “di un ritrovato diritto di critica”, la richiesta ai Tedeschi di fare, anche loro, “un passo verso le altre culture” (id.).

Non si può chiudere l’analisi di questo libro senza citarne un aspetto solo apparentemente futile: il tema del cibo, delle grandi “abbuffate”. Sia che si ricordi la teutonica salsiccia al curry, sia che si citino le panelle siciliane, sia che si evochi un luculliano ed interminabile simposio “al ristorante Fìlici del mitico Paolino Scibetta” a Cammarata (p. 56), con un elenco di portate degno del Satyricon di Petronio Arbitro, ovunque la gola – da peccato capitale – viene trasformata in virtù cardinale, diviene affermazione sanguigna di vitalità, momento di aggregazione, dichiarazione potente di vittoria sulla sfiducia, sull’amarezza, sulle delusioni.

Proprio il tema gastronomico diventa uno dei terreni di dominio del pensiero “svenuto” dell’autore; e nessuno meglio dello stesso Lo Scrudato, sintetizzandone le caratteristiche, fornisce la chiave di lettura essenziale dell’intero volume: “il nostro pensiero è intermittente e incoerente, a volte si assenta senza motivata giustificazione, per poi tornare su argomenti che nulla hanno a che fare con quelli immediatamente precedenti. Altre volte clamorosamente sviene, il pensiero, sì!, per rinvenire solo quando gli si presenta il ricordo di un piatto di spaghetti alle vongole e di una tabisca ai frutti di mare bagnati da un vino bianco di Menfi ghiacciato” (p. 143).

Proprio questo spirito “positivo” consente, al di là degli “svenimenti” inevitabili del pensiero, di terminare la lettura del libro senza retrogusti amari ed anzi con più di un input positivo ed incoraggiante; soprattutto di questo occorre ringraziare Vito Lo Scrudato e Gaetano Porcasi.

MARIO PINTACUDA

12 marzo 2017

Di Mario Pintacuda

Nato a Genova il 2 marzo 1954. Ha frequentato il Liceo classico "Andrea D'Oria" e si è laureato in Lettere classiche con 110/110 e lode all'Università di Genova. Ha insegnato nei Licei dal 1979 al 2019. Ha pubblicato numerosi testi scolastici, adottati in tutto il territorio nazionale; svolge attività critica e saggistica. E' sposato con Silvana Ponte e ha un figlio, Andrea, nato a Palermo nel 2005.

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