Erodoto e la storia di Cleobi e Bitone

Nel I libro delle sue “Storie” Erodoto racconta il viaggio di Solone presso il ricchissimo re Creso presso la corte di Sardi.

Il re lidio, dopo aver mostrato all’Ateniese le sue immense ricchezze e lo sfarzo della sua reggia, gli chiede chi sia a suo parere il più felice fra gli uomini; Creso si aspetta evidentemente di vedersi riconoscere questo primato, ma viene fortemente deluso dalle risposte di Solone: questi infatti assegna il primo posto a un tale Tello di Atene, che ebbe figli valorosi e una morte eroica in difesa della patria.

Benché deluso, Creso, sperando di ottenere almeno il secondo posto, ripete la domanda: ma anche questa volta gli vengono preferiti due illustri sconosciuti, cioè Cleobi e Bitone, due atleti argivi, distintisi per una azione molto lodevole.

Infatti, durante una festa in onore di Hera, la madre dei due ragazzi, sacerdotessa della dea, doveva essere condotta al tempio per la celebrazione dei riti. Poiché i buoi da aggiogare al carro non erano disponibili, Cleobi e Bitone si attaccarono al carro e condussero la donna al tempio, dopo aver percorso ben quarantacinque stadi (circa 8 km).

I presenti si complimentarono con la madre per questa impresa dei due giovani; lei allora chiese alla divinità di concedere ai suoi figli il premio migliore per l’uomo. La dea esaudì la preghiera della donna, dimostrando che per l’uomo è meglio la morte che la vita: infatti alla fine del rito i due argivi, addormentatisi nel tempio, morirono; gli Argivi eressero un monumento in loro memoria (I 31).

Udito questo aneddoto, Creso si offende, sentendosi paragonato a semplici cittadini privati e vedendo misconosciuta la sua felicità; ma Solone replica parlando dello scorrere del tempo e dell’alterno mutamento della condizione umana: non si può definire felice nessuno finché non abbia concluso positivamente la sua vita. A parere del saggio ateniese, Creso può definirsi al massimo fortunato, dato che in questo momento è ricco e potente, ma sarà lecito definirlo felice solo se terminerà la sua esistenza senza subire colpi nefasti dalla sorte.

La vicenda di Cleobi e Bitone è narrata anche da Cicerone (Tusculanae disputationes I 113) e da Plutarco (cfr. Vita di Solone 27, 7; Consolatio ad Apollonium 14); il nome della madre dei due giovani era Cidippe.

Inserito nel dialogo fra Creso e Solone, l’episodio di Cleobi e Bitone possiede, come la vicenda di Gige e Candaule (cfr. I 8-12), le principali caratteristiche della novella: la brevità, il numero limitato dei personaggi, l’impianto realistico, la conclusione inattesa.

Tuttavia, a differenza di una novella, la storia di Cleobi e Bitone non ha lo scopo di intrattenere il pubblico, ma mette a fuoco uno dei temi cari al pensiero erodoteo: il problema della felicità umana. Erodoto, infatti, distingue la buona sorte provvisoria, che egli chiama εὐτυχίη, dalla felicità duratura (ὄλβος); ma, come commenta Asheri, «i due termini non si escludono a vicenda: “felice” può diventare anche l’uomo “fortunato”’ che non ha avuto contrattempi sino alla sua morte gloriosa (Tello) o pacifica (Cleobi e Bitone). Come l’εὐτυχίη, anche l’ὄλβος è la somma di una stessa serie di beni, eminentemente materiali e terreni: buona salute, buona prole, bell’aspetto, forza fisica, mezzi di sussistenza, ecc. La distinzione è tutta tra benessere passeggero e benessere interamente acquisito, definitivo e reso eterno nella memoria dei posteri».

In ogni caso ciò che garantisce la beatitudine è solo la morte, perché per l’uomo è meglio morire che vivere (ὡς ἄμεινον εἴη ἀνθρώπῳ τεθνάναι μᾶλλον ἢ ζώειν).

Emerge qui una concezione fortemente pessimista, per la quale l’uomo “è in balia degli eventi” (πᾶν ἐστὶ ἄνθρωπος συμφορή, I 32 4): conseguentemente “la morte, essendo la vita piena di affanni, è il rifugio di gran lunga preferibile” (cfr. VII 46, 4).

L’idea della morte intesa come fine dei mali non è un tema caro solo ad Erodoto, ma è tipica del pessimismo greco: cfr. Bacchilide, che nell’Epinicio V fa dire ad Eracle: “Per l’uomo/ meglio non esser nato, / non avere mai visto la luce/ del sole” (vv. 159 – 162, trad. Paduano); cfr. anche Sofocle, che nel IV stasimo dell’Edipo re di Sofocle fa esclamare al coro, prendendo spunto dalla triste vicenda di Edipo: “Ahi, generazioni dei mortali,/ come pari al nulla la vostra/ vita io calcolo!” (trad. R. Cantarella); e ancora Sofocle in un coro dell’Edipo a Colono: “Non nascere: è il mio pensiero più dolce. Oppure, nati una volta, è poco male riandarsene subito dove eravamo” (vv. 1225-1226, trad. Cetrangolo).

La conclusione dell’episodio erodoteo rimarca la frattura inconciliabile fra Creso e Solone. Eppure alla fine del logos lidio, Creso sarà costretto a ricredersi: infatti soffrirà per la morte del figlio prediletto Atys (cfr. I 46-94), sarà catturato dal re persiano Ciro, sarà condotto al rogo, e, ricordando le parole di Solone, invocherà per tre volte il suo nome (cfr. I 86, 3). Ciò gli frutterà il perdono di Ciro che, “temendo la punizione divina e considerando che nessuna delle cose umane è sicura” (I 86, 6), risparmierà la vita del re lidio.

Di Mario Pintacuda

Nato a Genova il 2 marzo 1954. Ha frequentato il Liceo classico "Andrea D'Oria" e si è laureato in Lettere classiche con 110/110 e lode all'Università di Genova. Ha insegnato nei Licei dal 1979 al 2019. Ha pubblicato numerosi testi scolastici, adottati in tutto il territorio nazionale; svolge attività critica e saggistica. E' sposato con Silvana Ponte e ha un figlio, Andrea, nato a Palermo nel 2005.

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