Il “Cristo velato” di Giuseppe Sanmartino

Del mio recente viaggio a Napoli potrei ricordare moltissime tappe interessanti, visto il patrimonio inesauribile di bellezze artistiche, panoramiche e culturali che questa città possiede, in un ambiente umano unico per la cordialità espansiva e la fantasiosa esuberanza dei suoi abitanti.

Vista di Napoli da Castel S. Elmo (20 agosto 2021)

Avrei potuto citare la luna che si specchia sul mare dietro Castel dell’Ovo, il fascino e la pace del monastero di Santa Chiara (“Munasterio ‘e Santa Chiara…/ Tengo ‘o core scuro scuro”), il bel prato verde e il museo di Capodimonte, la spettacolare vista del golfo da Castel Sant’Elmo, il magnifico lungomare fino a Mergellina e Posillipo, il Museo archeologico ricco di reperti interessantissimi, la statua di San Gennaro (con il ricordo di Massimo Troisi: “San Gennà, i’ so cliente e voglio ‘o trattamento”), i mille mestieri di Spaccanapoli (compreso il chioschetto dove “si vendono lauree” o gli immancabili barattoli con “l’aria di Napoli” venduta a 5 euro), le tante delizie culinarie (che mi hanno fatto guadagnare oltre un chilo in pochi giorni), la spettacolare bellezza dei dintorni (Sorrento, Positano, Amalfi, Pompei, la reggia di Caserta, ecc.).

La luna su Castel dell’Ovo, 20 agosto 2021
L’aria di Napoli in vendita (19 agosto 2021)
“Si consegnano lauree al momento” (Napoli, 19 agosto 2021)

Volendo essere cattivello, avrei potuto aggiungere qualche appunto: l’inefficienza dei mezzi pubblici (quasi inesistenti i bus, un metrò bello da vedersi per le splendide decorazioni artistiche delle sue stazioni ma poco efficiente e caotico, le funicolari problematiche), la sporcizia di alcune strade anche in centro (ad es. i cestini di via Toledo, svuotati all’alba, erano traboccanti di immondizia già dalle prime ore del mattino), i massicci e continui assembramenti di turisti e abitanti (alla faccia di ogni norma covid), l’insistenza eccessiva di alcuni questuanti, la chiacchiera un po’ invadente (un tizio, evidentemente miope, mi ha apostrofato chiamandomi “Bruce Willìs”), la sensazione di essere sempre “ascoltati” (con frequenti interventi dell’estraneo di passaggio nelle nostre conversazioni), gli altri ben noti problemi di ordine pubblico nella città, ben camuffati da una massiccia presenza di polizia, carabinieri ed esercito nelle vie del centro. Ma del resto, quale città non ha problemi? Palermo, dove vivo io, docet; le somiglianze fra le due città principali dell’ex Regno delle Due Sicilie sono profonde e numerose.

C’è stata però una visita che mi ha colpito particolarmente, la mattina del 19 agosto: la Cappella Sansevero con la meravigliosa statua del Cristo Velato, realizzata dallo scultore napoletano Giuseppe Sanmartino nel 1753.

La Cappella Sansevero

Come è noto, il principe di Sansevero Raimondo di Sangro, esoterista, inventore, anatomista, alchimista, massone, mecenate, letterato e accademico illuminista, volle trasformare la cappella in un mausoleo degno della grandezza del proprio casato, per cui incaricò molti artisti di arricchirla con splendide pitture e sculture.

Raimondo di Sangro, principe di Sansevero (1710-1771)

Nel 1752 Giuseppe Sanmartino ottenne di poter scolpire, come aveva chiesto il principe, “una statua di marmo scolpita a grandezza naturale, rappresentante Nostro Signore Gesù Cristo morto, coperto da un sudario trasparente realizzato dallo stesso blocco della statua”. Questa statua era già stata commissionata ad Antonio Corradini, che dopo averne preparato un bozzetto era morto poco prima.

L’opera realizzata da Sanmartino nell’arco di un anno è straordinaria: la figura del Cristo morto è velata da un tessuto reso con tale verosimiglianza da non sembrare scolpito nel marmo ma assolutamente reale. L’assoluta perfezione delle trasparenze del velo, “fatto con tanta arte da lasciare stupiti i più abili osservatori» (come disse lo stesso Raimondo di Sangro), originò addirittura una leggenda secondo cui il principe stesso, noto per le sue invenzioni e i suoi studi di alchimia, avrebbe indicato allo scultore una procedura di calcificazione di cristalli di marmo nel tessuto. In realtà l’opera, ricavata da due blocchi di marmo, va attribuita solo allo straordinario scalpello di Sanmartino e non a misteriosi espedienti alchemici.

Il capolavoro di Giuseppe Sanmartino

Come si legge nel sito www.museosansevero.it, “la moderna sensibilità dell’artista scolpisce, scarnifica il corpo senza vita, che le morbide coltri raccolgono misericordiosamente, sul quale i tormentati, convulsi ritmi delle pieghe del velo incidono una sofferenza profonda, quasi che la pietosa copertura rendesse ancor più nude ed esposte le povere membra, ancor più inesorabili e precise le linee del corpo martoriato. La vena gonfia e ancora palpitante sulla fronte, le trafitture dei chiodi sui piedi e sulle mani sottili, il costato scavato e rilassato finalmente nella morte liberatrice sono il segno di una ricerca intensa che non dà spazio a preziosismi o a canoni di scuola, anche quando lo scultore ‘ricama’ minuziosamente i bordi del sudario o si sofferma sugli strumenti della Passione posti ai piedi del Cristo. L’arte di Sanmartino si risolve qui in un’evocazione drammatica, che fa della sofferenza del Cristo il simbolo del destino e del riscatto dell’intera umanità”.

Tra gli innumerevoli visitatori della cappella fu anche il grande scultore Antonio Canova, che provò invano ad acquistarlo e dichiarò che avrebbe dato dieci anni di vita per essere lui l’autore di un tale capolavoro.

Così poi il “Cristo velato” fu descritto accuratamente dalla scrittrice Matilde Serao nel 1881: “Sta ai piedi dell’altar maggiore, a sinistra sopra un largo piedistallo è disteso un materasso marmoreo; sopra questo letto gelato e funebre giace il Cristo morto. È grande quanto un uomo, un uomo vigoroso e forte, nella pienezza dell’età. Giace lungo disteso, abbandonato, spento: i piedi dritti, rigidi, uniti, le ginocchia sollevate lievemente, le reni sprofondate, il petto gonfio, il collo stecchito, la testa sollevata sui cuscini, ma piegata sul lato dritto, le mani prosciolte. I capelli sono arruffati, quasi madidi del sudore dell’agonia. Gli occhi socchiusi, alle cui palpebre tremolano ancora le ultime e più dolorose lagrime. In fondo, sul materasso sono gettati, con una spezzatura artistica, gli attributi della Passione, la corona di spine, i chiodi, la spugna imbevuta di fiele, il martello. Sul piedistallo, sotto i cuscini, questa iscrizione: Joseph Sanmartino, Neap. fecit 1753 e più nulla.  Cioè no: sul Cristo morto, su quel corpo bello ma straziato, una religiosa e delicata pietà ha gettato un lenzuolo dalle pieghe morbide e trasparenti, che vela senza nascondere, che non cela la piaga ma la mostra, che non copre lo spasimo ma lo addolcisce. Sopra un corpo di marmo che sembra di carne, un lenzuolo di marmo che la mano quasi vorrebbe togliere. Niente manca dunque in questa profonda creazione artistica: e vi è sentimento che fa palpitare la pietra, turbando il nostro cuore, e v’è l’audacia del creatore che rompe ogni regola, e v’è il magistero di una forma eletta, pura, squisita. […] Sotto le pieghe del lenzuolo la testa ha un carattere stupendo: la fronte liscia ha una traccia di sorriso, che è una indefinita speranza. È vero il dolore è passato dal corpo all’anima; è vero l’anima è contrastata ma non è disperazione, ma non è desolazione. L’anima, come la bocca è abbeverata di fiele, ma una goccia di consolazione v’è stata. Tutto quel Cristo è un dolore supremo; ma il mistero di quella testa divina è così grandioso, ma l’ammirazione per la meravigliosa opera d’arte è così sconfinata, ma la pietà del bellissimo estinto è così evidente, che il pensatore si scuote e non frena più le acute indagini della sua mente, l’artista s’inchina nell’esaltazione del suo spirito ed il credente non può che abbandonarsi, piangente, sui piedi del morto, cospargendoli di lagrime e di baci”.

L’unico rammarico dopo aver visto questo capolavoro è dato dalle modalità della visita, che le norma anticovid rendono necessariamente frettolosa; si può sostare solo qualche minuto, in cui gli occhi e la mente non riescono ad afferrare tutto in quel poco tempo a disposizione. Il divieto assoluto di fare foto e riprese video (ma come mai su Youtube se ne trovano tanti?) accresce il rammarico di non poter avere un ricordo “diretto” di questa bella esperienza.

P.S.: All’uscita, nella cavea sotterranea della Cappella Sansevero, sono conservate, all’interno di due bacheche, le famose “Macchine anatomiche”, o “Studi anatomici”, ossia gli scheletri di un uomo e di una donna in posizione eretta, con il sistema arterovenoso quasi perfettamente integro. Queste macabre “macchine”, realizzate dal medico palermitano Giuseppe Salerno (1728-1792), sembrano contrapporsi idealmente alla ieratica serenità del Cristo velato: la precarietà e la fisicità umana sono in stridente contrasto con la silenziosa maestà della figura divina.

Le macchine anatomiche

Di Mario Pintacuda

Nato a Genova il 2 marzo 1954. Ha frequentato il Liceo classico "Andrea D'Oria" e si è laureato in Lettere classiche con 110/110 e lode all'Università di Genova. Ha insegnato nei Licei dal 1979 al 2019. Ha pubblicato numerosi testi scolastici, adottati in tutto il territorio nazionale; svolge attività critica e saggistica. E' sposato con Silvana Ponte e ha un figlio, Andrea, nato a Palermo nel 2005.

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