La scena del matricidio nelle “Coefore” di Eschilo

Nel II episodio delle “Coefore” la scena, inizialmente collocata presso la tomba di Agamennone, si sposta (con procedura insolita nel teatro greco) davanti al palazzo degli Atrìdi.

Oreste si presenta alla madre Clitemestra fingendosi un forestiero della Focide, incaricato di comunicarle la notizia della morte del figlio. La reazione della regina è, solo apparentemente, di disperazione; la donna accoglie poi Oreste e Pilade nella reggia, annunciando l’intenzione di informare Egisto (il suo amante) della triste novità. Allontanatisi i tre personaggi, si presenta sulla scena la nutrice Cilissa, che rivela la reazione gioiosa di Clitemestra alla notizia della morte del figlio e, ricordando di essere stata lei ad allattare Oreste da bambino, di fatto annulla il ruolo materno della regina. 

Il III episodio si apre con la comparsa di Egisto, l’amante di Clitemestra, che vuole essere certo della morte di Oreste ed entra nella reggia. Poco dopo arriva dall’interno l’urlo di dolore dell’usurpatore, colpito a morte da Oreste.

A questo punto giunge di corsa un servo, che annuncia con parole enigmatiche l’uccisione di Egisto (“io dico che i morti uccidono i vivi”, v. 886; la traduzione del passo è mia) e bussa alla porta del gineceo. Da questa stanza (come a rimarcare la sua “retrocessione” al rango femminile che compete a questa donna “dal senno virile”) esce Clitemestra.

La donna decifra immediatamente l’“enigma” (αἰνιγμάτων, v. 887) del servo; unico fra i tre grandi tragici greci, Eschilo presenta una Clitemestra perfettamente consapevole della sua morte imminente. Tornano in scena Oreste e Pilade, con le spade cosparse del sangue di Egisto.

L’ultimo concitato dialogo fra Oreste e Clitemestra concentra in sé tutta la tensione ideologica ed emotiva dell’intero dramma; è una scena dal ritmo incalzante, in cui le singole battute presentano un’eccezionale ricchezza e densità espressiva.

Freneticamente la regina chiede una scure (πέλεκυν, v. 889). Se, come si nota nell’iconografia vascolare e nell’antica tradizione letteraria (ad es. in Stesicoro), Clitemestra avesse usato l’ascia per difendere Egisto, Oreste avrebbe ucciso la madre per “legittima difesa”; tuttavia l’autore in questo caso intendeva soltanto creare una momentanea “suspense”, sfruttando un elemento tradizionale noto al pubblico. Non è detto, poi, che la scure sia realmente consegnata alla donna (anche se nelle rappresentazioni moderne delle “Coefore” è un elemento quasi immancabile).

Quando Oreste le annuncia bruscamente la morte di Egisto, Clitemestra ha per l’amante un disperato grido di passione: “Ahimè, sei morto, mio carissimo, forte Egisto!” (v. 893). La reazione di Oreste è furiosa: “la clemenza latente di Oreste si sgretola dinanzi alla donna di Egisto” (U. Albini).

A questo punto Clitemestra gioca una carta disperata: si scopre il seno e fa appello alle leggi della pietà filiale: “Fermo! Fermati, figlio! Devi avere rispetto, figlio mio, di questo seno, dal quale tu da bambino con le tue gengive succhiavi il latte che ti dava la vita e poi ti addormentavi” (vv. 896-898). Anche nell’Iliade (XXII 82-83) Ecuba, dall’alto delle mura di Troia, scopriva il seno supplicando il figlio Ettore di non affrontare in duello Achille; e pure in quel caso la madre non otteneva l’effetto desiderato. Qui per la prima volta Clitemestra chiama Oreste “figlio”; ma in realtà queste parole contengono un inganno, un “dólos”: infatti, come gli spettatori hanno appreso dalla nutrice Cilissa, non è stata Clitemestra ad allattare Oreste (cfr. vv. 750-760).

Francesco Scianna (Oreste) ed Elisabetta Pozzi (Clitemestra) in “Coefore/Eumenidi” a Siracusa (2014) – regia di Daniele Salvo

Di fronte al seno della madre, Oreste cade in un’angosciosa incertezza. Profondamente smarrito, si rivolge a Pilade: “Pilade! Che devo fare (τί δράσω)? È mia madre! Ho orrore di ucciderla!” (v. 899). La domanda propone la situazione tragica per eccellenza, quella della scelta difficile e definitiva che tormenta un personaggio.

A questo punto si verifica un fatto sorprendente, un aprosdòketon; infatti Pilade, per la prima volta in questo dramma, apre bocca e pronuncia un’unica, categorica battuta: “E dove vanno a finire allora gli oracoli del dio ambiguo, i vaticini della Pizia di Delfi, i saldi giuramenti? Tutti puoi considerare tuoi nemici; tutti, ma non gli dèi” (vv. 900-902).

Come osserva Guido Paduano, “l’intervento conciso di Pilade, che prima e dopo rimane muto, e parla soltanto per ricordare e avvalorare la sentenza del dio, è uno dei più efficaci momenti che la comunicazione teatrale abbia mai raggiunto”. Pilade parla infatti nel nome degli dèi e di Apollo in particolare: il suo silenzio precedente, che era sembrato strano in diverse occasioni (ad es. quando Oreste riabbracciava la sorella Elettra o quando i due giovani si presentavano a Clitemestra sotto mentite spoglie), acquista un significato profondo proprio in funzione di queste uniche, decisive parole: dove l’uomo non sa decidere e si smarrisce, chiedendosi che cosa fare, gli dèi proclamano le loro verità assolute, incontrovertibili, definitive. Infatti “nei tragici, l’azione umana non ha in sé abbastanza forza per fare a meno degli dei, non ha abbastanza autonomia per pensarsi completamente al di fuori di essi. Senza la loro presenza e il loro appoggio essa non è niente” (J. P. Vernant – P. Vidal-Naquet).

Dopo il vibrante richiamo di Pilade, ha inizio fra Clitemestra e Oreste una serrata sticomitia: la donna ricorre più volte al vocativo “figlio” (τέκνον, vv. 896, 910, 912, 920, 922), insistendo sul suo ruolo di madre: “Ahimè. Io ho generato, io ho allevato questo serpente” (v. 928). Clitemestra, ricordando il suo incubo notturno (cfr. v. 527), identifica ormai il figlio con il “serpente” (ὄφιν, v. 928) da lei sognato.

Alle parole della donna, Oreste ribatte freddamente e inesorabilmente, ricordando il proprio inglorioso esilio e le privazioni subite. La regina comprende l’inutilità di tutte le sue implorazioni; passa dunque all’estrema minaccia, prospettando al figlio la persecuzione da parte delle Erinni: “Bada! Guàrdati dalle cagne furiose di tua madre!” (v. 924). La risposta del giovane conferma l’ineluttabilità di quanto sta per accadere e la drammaticità del bivio decisionale in cui si trova: “E quelle di mio padre come le evito, se non faccio così?” (v. 925).

Oreste è di fronte a un dilemma tragico, si trova in una strada senza uscita, lacerato tra la necessità morale di vendicare suo padre e l’odiosità del matricidio che deve compiere.

L’ultimo verso pronunciato da Oreste ha l’icastica esattezza di un teorema: “Hai ucciso chi non dovevi uccidere. Ora soffri quello che non dovresti soffrire (τὸ μὴ χρεών)” (v. 930).

Ancora Francesco Scianna (Oreste) ed Elisabetta Pozzi (Clitemestra) in “Coefore/Eumenidi”, Siracusa 2014

POST SCRIPTUM

Con riferimento alla “battuta unica” di Pilade in tutto il dramma, non si può non osservare quanto una situazione del genere sia impegnativa per un attore. Non si contano gli aneddoti in proposito. Eccone uno, che ho un po’ rielaborato.

Un giovane attore, appena uscito dall’Accademia d’arte drammatica, fu scritturato nella parte di un maggiordomo con un’unica battuta da pronunciare: “Il pranzo è servito”. Emozionato e coinvolto, il ragazzo ripeté cento volte in un giorno la battuta, provandone tutte le intonazioni, analizzandone ogni sfumatura, centellinandone ogni sillaba.

La notte prima dell’esordio praticamente non chiuse occhio, immaginandosi sempre quello che sarebbe accaduto: la sua entrata in scena, il silenzio di tutti, il pubblico in attesa delle sue parole, l’attenzione di tutti su di sé; e immaginava di dire la sua battuta in mille modi diversi, sentendosi ora orgoglioso ora deluso del risultato.

La sera dello spettacolo, mentre attendeva il suo turno, continuò a ripetere più e più volte la famigerata battuta (“Il pranzo è servito, il pranzo è servito, il pranzo è servito”), sia mentalmente sia a voce alta.

Infine toccò a lui: entrò in scena emozionatissimo e concentratissimo, con un vassoio in mano.

Vide il pubblico numeroso e attento in sala, vide gli altri attori che lo guardavano e aspettavano la sua battuta; allora, come avvenne al sarto manzoniano, “raggrinzò la fronte, torse gli occhi in traverso, strinse le labbra, tese a tutta forza l’arco dell’intelletto, cercò, frugò, sentì di dentro un cozzo d’idee monche e di mezze parole: ma il momento stringeva”…

E disse: “Il servo è pranzito”.

Di Mario Pintacuda

Nato a Genova il 2 marzo 1954. Ha frequentato il Liceo classico "Andrea D'Oria" e si è laureato in Lettere classiche con 110/110 e lode all'Università di Genova. Ha insegnato nei Licei dal 1979 al 2019. Ha pubblicato numerosi testi scolastici, adottati in tutto il territorio nazionale; svolge attività critica e saggistica. E' sposato con Silvana Ponte e ha un figlio, Andrea, nato a Palermo nel 2005.

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