L’anice “unico”

Che cosa è davvero “unico” in Sicilia? Il clima? Il calore della gente? Il contesto ambientale? Il modello della dichiarazione dei redditi? Il traffico tentacolare? L’Etna?

L’unica risposta che non si presta ad ambiguità è: l’anice.

In Sicilia infatti di anice ne esiste uno solo, l’Anice Unico Tutone, che prende nome dai fratelli palermitani che realizzarono la prima bottiglia nel lontano 1813 (il fondatore ufficiale fu Giuseppe Tutone).

Come si legge oggi nell’etichetta delle bottigliette, l’anice “aggiunto in poche gocce all’acqua fresca rende la bevanda dissetante, gradevole e ricca di aromi piacevoli; inoltre è un ottimo correttivo del caffè e può aromatizzare in modo particolare i cocktail alla frutta”.

L’anno scorso, durante una visita a casa sua, il mio caro amico Toti mi aveva chiesto se gradivo un caffè “corretto”. Io in genere sono alieno dalle “correzioni” (troppe ne ho fatte nella mia vita di docente…), ma incuriosito ho accettato; così ho gustato un ottimo caffè corretto con 2-3 gocce di anice.

Per me è stata una scoperta; avevo spesso bevuto l’acqua “con lo zammù”, ma – pur riconoscendone la dolcezza, la freschezza e le doti ristoratrici – non avevo mai approfondito lo studio di questa particolarissima miscela e non ne conoscevo le ulteriori potenzialità “combinatorie”.

Toti allora (palermitano DOC, nonché inesauribile fonte di ricordi e curiosità) ha aggiunto informazioni e dettagli, da cui è nata una discussione stimolante (anche questi ormai sono gli stimoli dei “vicchiareddi”…).

Ho fatto poi qualche ulteriore ricerca, riesumando anche qualche lontano ricordo. Ne sono nate queste righe, che ovviamente consiglio di leggere sorseggiando un bel bicchiere d’acqua fresca con qualche goccia di “zammù”.

L’Anice Unico Tutone è un prodotto ad altissima gradazione alcolica (60 gradi) a base di anice misto aromatizzato con parti di cumino; il prodotto viene infatti ottenuto tramite una piccola quantità di spirito di vino con essenza di cumino ed anetolo. Sconosciuto e segreto è però il tipo di distillazione: la ditta infatti, da ben sei generazioni, ne custodisce gelosamente in una cassaforte la misteriosa ricetta di famiglia, scritta in bella grafia su un antico quadernetto con copertina nera e fogli a quadretti.

L’uso di mettere alcune gocce di anice nell’acqua fresca per ottenere una bevanda più gradevole e dissetante è antico e risale forse agli arabi. Secondo alcuni il termine dialettale “zammù” che indica l’anice deriverebbe appunto dall’arabo; per altri invece verrebbe da “sammù”, cioè dalla sambuca (liquore a base di semi d’anice); ma l’etimo è incerto.

Già nel 1759 una poesia di Giovanni Meli in dialetto siciliano descrive un acquaiolo (“acquavitaru”) che vende appunto l’acqua con anice, versandola da un’apposita anfora.

L’Anice Unico però nacque a Palermo nel 1813 a Piazza Fieravecchia, oggi Piazza Rivoluzione; la famiglia Tutone gestiva qui un chiosco (ne inserisco il disegno) che era uno dei più importanti della città ed era annesso a una tabaccheria di proprietà della stessa famiglia.

Proprio in quel fatidico 1813 la ricetta della bevanda fu integrata dai Tutone con l’aggiunta dell’anetolo, un olio essenziale ottenuto dai semi di anice ricavato dalla “pimpinella anisum”, pianta aromatica importata dall’estremo oriente.

Il negozio dei Tutone nella seconda metà dell’Ottocento era frequentato dall’aristocrazia palermitana, essendo vicino al Teatro Santa Cecilia, il più importante teatro della città fino al 1892: gli spettatori, all’entrata o all’uscita, potevano ristorarsi con la fresca bevanda dissetante. In tal senso, l’apertura del Teatro Massimo (16 maggio 1897) costituì un brutto colpo per la ditta, che perse la sua clientela abituale; ma l’intraprendenza e la creatività della famiglia le consentì di superare le momentanee difficoltà, grazie anche a un uso sapiente della nascente pubblicità (ad es. con ventagli promozionali e calendarietti).

L’Anice Tutone vinse la Medaglia d’Oro all’Esposizione di Como del 1909. In seguito la ditta preparò anche forniture per l’esercito, dato che si faceva bere ai soldati l’anice senz’acqua, per il suo valore energetico. Grazie al successo crescente, l’attività dei Tutone assunse un andamento imprenditoriale e nel 1948 venne inaugurata la sede operativa in Via Garibaldi 41, in un locale di 16 mq nel secentesco Palazzo Ajutamicristo. In seguito, nel 1979, venne costituita con capitale familiare la S.p.A.

La ditta, sempre a conduzione familiare, ha partecipato nel 2015 all’Expo di Milano e produce oggi, oltre alle bottigliette di Anice Unico, anche altri liquori: un amaro alle erbe (ben 33), un limoncello (con limoni di Ciaculli), un liquore a 42° di nome Mistrà, un maraschino e l’aperitivo palermitano chiamato “Friscu spritz”. La produzione annua è di circa 200.000 bottiglie, di cui 100.000 solo di anice. L’anice rimane dunque il prodotto più famoso, anche per i benefici innegabili della sua miscelazione con l’acqua: infatti questa bevanda dissetante presenta anche indubbi benefici effetti tonico-digestivi, diuretici e provvidenzialmente “carminativi” (previene cioè la formazione di gas intestinali).

In occasione della manifestazione “Le vie dei tesori” del 2017, l’azienda ha aperto le porte del suo storico stabilimento di via Garibaldi ai visitatori, guidandoli in un percorso storico all’interno della produzione della fabbrica, tra macchinari moderni ed antichi e immagini d’epoca (il video si trova su Youtube, https://www.youtube.com/watch?v=lP4lwNAybQQ).

Una curiosità: il marchio di fabbrica (di cui allego la foto), il Genio raffigurato nelle bottiglie d’anice Tutone, non allude – come si potrebbe pensare – alla statua di Piazza Rivoluzione, ma a una statua che si trova a Villa Giulia, ricca di significati simbolici che alludono alla fedeltà (il cane), alla forza (l’aquila), alla prosperità (il serpente).

L’acqua fresca con aggiunta di poche gocce di anice era una delle bibite principali vendute nei chioschi di Palermo, oggi purtroppo quasi estinti (a differenza di Catania, ove sono ancora operativi). Giuseppe Pitré descriveva questi antichi chioschi come «fantastici, per i giganteschi bicchieri con pesci color d’oro e d’argento, per i limoni in mezzo all’acqua o contornanti l’edicola medesima, per le foglie verdi sparse qua e là in giro». Due celebri chioschi erano quelli del Massimo e del Politeama, opera di Ernesto Basile; uno degli ultimi venditori di acqua e “zammù” era però alla Vucciria e conservava l’acqua nei “bùmmuli”.

Nel chiosco c’erano tre tipi di bicchiere: quello piccolo, quello medio e quello grande. Il venditore, sentita la scelta del cliente, gli riempiva d’acqua il boccale; sulla bottiglia c’era un tappo di sughero rovesciato, in cui era innestata una lunga cannuccia metallica da cui “l’acquavitaru” furbescamente erogava soltanto poche gocce di anice; e non era infrequente che il consumatore, rammaricandosi per le poche gocce versate, ne chiedesse “n’atr’anticchia” (un altro po’).

Quando ero piccolo e passavo l’estate a Bagheria, mio padre mi portava spesso in giro per il paese; la tipica passeggiata partiva da via Leonforte (casa della nonna paterna) e, salendo da via Ciro Scianna (casa dei nonni materni), arrivava nello “stratuneddu” (corso Umberto) proseguendo fino a “Palagonia”, di fronte alla celebre “Villa dei Mostri”.

Lì sorgeva dal 1949 un chiosco gestito da Eugenio “Gino” Codogno, amico di mio padre e come lui musicante della banda del paese. Al chiosco mio padre mi comprava un cono gelato (il più piccolo possibile, da 10 lire) e poi chiedeva (e “don Gino” gli offriva) due bei bicchieri di acqua con l’anice (per me 1-2 gocce soltanto).

Ristorato dalla duplice freschissima esperienza, davo un’occhiatina ai mostri della villa, che di fronte ci fissavano un po’ invidiosi, guardavo la campagna che si stendeva poche decine di metri avanti (dove ora sorge la trafficata via Diego D’Amico) e poi, “mano manuzza” con papà, tornavo sulla strada principale con lo sguardo rivolto alla Madrice. Una scena degna del film “Baarìa” di Peppuccio Tornatore…

Per la cronaca, vendendo gelati e bibite, ma soprattutto grazie alla sua freschissima e richiestissima “acqua cu’ zammù”, Don Gino si mise sempre più in grande; ancora oggi, in via Dante a Bagheria, si trova una famosa pasticceria-gelateria gestita dai suoi eredi. Anche per questo, dunque, l’anice si è rivelato “unico”, spianando a quel bravo “acquavitaru” la strada di un meritato successo.

Di Mario Pintacuda

Nato a Genova il 2 marzo 1954. Ha frequentato il Liceo classico "Andrea D'Oria" e si è laureato in Lettere classiche con 110/110 e lode all'Università di Genova. Ha insegnato nei Licei dal 1979 al 2019. Ha pubblicato numerosi testi scolastici, adottati in tutto il territorio nazionale; svolge attività critica e saggistica. E' sposato con Silvana Ponte e ha un figlio, Andrea, nato a Palermo nel 2005.

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